Il metodo che emerge dai versi per realizzare tale struttura sembrerebbe fotografico (la fotografia, del resto, è assai richiamata nella raccolta, soprattutto nell’ultima sezione Apparenze): un obiettivo, quello del poeta, che ingrandisce il dettaglio, procede per pixel sempre più sgranati sino a giungere alle Pietre vive, prima sezione del libro, alle cellule, agli insetti, ricostruendo, così, stratificate memorie del sottosuolo per sottrazione di elementi o per loro aggregazione con alternate immagini di pieni e di vuoti che restituiscono un equilibrio solo apparente delle parti. Né è lasciato sfocato il procedimento con il quale Benigni ha intrapreso la composizione, per immagini-poesia, del suo piccolo de rerum natura; si legge per esempio in Ordine dalla sezione Dall’invisibile:
Osserva. Tutto è organizzato secondo regole precise. La geometria della goccia separata dal flusso dell’acqua, gli alberi ancora spogli a marzo che aspettano pazienti la fiamma delle foglie. Decifra. Il suono che si rompe tra due note, l’accartocciarsi del vento sulle cicatrici della terra e il ghiaccio che si scioglie. Dall’impero di un ordine non c’è via di scampo, rigorosa è la gerarchia della natura, il suo alfabeto indifferente, dove ogni cosa è specchio di un’altra.
Se, per il tramite di questi imperativi, rimane nitida la traccia degli scatti in successione che sono stati necessari per questo lavoro, e se molteplici sono gli strumenti con un cui Benigni costruisce l’immagine, ora con una versificazione asciutta che richiama se stessa nelle singole sezioni, ora con una prosa che si affaccia di più alla spontaneità della riflessione, più fuori fuoco restano invece i risultati perché ontologicamente irraggiungibili.
«qualunque cosa è uno specchio se guardata a lungo./ Impara il linguaggio delle pietre/ Non abbiamo che parole e una conta di sassi, qui/ nella geometria del nostro diradarci», leggiamo in Risveglio. Misurare il tempo attraverso i nostri anni o attraverso l’avvicendarsi delle stagioni nel colore delle foglie non basta, non è che un inganno la sua precisione: il risultato è un numero, una porzione infinitamente breve rispetto al tempo che scorre lungo tutto ciò che è prima di noi, sotto la superficie delle cose e del loro apparire. La poesia si fa quindi carico del tentativo di approssimazione alle cose e anche al tempo nell’unico modo che gli è concesso dal linguaggio, dalla nostra esistenza stessa: essere riflesso, istante, scatto e segmento di tempo; essere lente con cui scorgere una «trascendenza tangibile», tentare, se non di illuminare, almeno di riflettere «quello che cerchiamo e non abbiamo trovato».
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