L'inizio è un uomo di trentasette anni fermo a un semaforo. Esita, non parte anche se è verde da un pezzo. Poi finalmente supera quella luce in mezzo al traffico e si trova davanti a delle indecisioni, a delle possibilità, a dei bivi che riguardano il suo rientro. Imbocca però una superstrada larghissima che lo porta verso una città enorme, la città di Dio, o meglio, il Paradiso. Tutto questo avviene in una calda sera di mezza estate mentre il cielo torna terso dopo una giornata piovosa. Questo Paradiso ha poco da spartire con l'immaginario più consueto di un aldilà. (Fermi tutti: non sarebbe bene chiedersi sempre quali immaginari ingaggia l'idea dell'aldilà per evitare di pensare che esista un aldilà monolitico del nostro immaginario collettivo?) Il Paradiso dove giunge il nostro protagonista è piuttosto un luogo abbastanza simile al mondo lasciato, con pub, hotel, ristoranti, brand famosi, notiziari e giornali pieni di notizie inizialmente incomprensibili. All'orizzonte si avvista anche qualche incendio. È un posto dove si potrà persino avere una piacevole conversazione con il padre morto molti anni prima, dove si possono vivere innamoramenti accavallati e dove si può incontrare lui. Lui chi? Dio, ovviamente, e alla fine di tutto si può trovarlo... "simpatico". Ma si può anche camminare per strada mangiando un fish and chips avvolto nel foglio di un giornale greco, si può girare con una guida Michelin del luogo, si può invecchiare/ringiovanire, volare, incontrare vecchi amici, inseguire opportunità professionali ambiziose (il mito della crescita individuale e professionale...), magari progettare a tavolino le Alpi in uno studio di design e, simultaneamente, un marchio di fabbrica per quest'ultime, che sarà inevitabilmente la piramide del Cervino. In questo stesso Paradiso, un gruppo di amici del protagonista lavora a un altro progetto non meno ambizioso, quello di creare l'uomo. Insomma, a grandi linee e a dolci sogni è circa questo lo scenario in cui è catapultato dopo poche righe il lettore di Sweet Dreams di Michael Frayn (Atlantide Edizioni, pp. 224, euro 24, traduzione di Enrico Bistazzoni). E in un luogo così, va da sé, viene subito da chiedersi se è bello, se è felice l'essere diversi in un posto completamente diverso pur nelle similitudini col nostro mondo.
Michael Frayn (Londra, 1933), noto al pubblico italiano principalmente per l'opera teatrale Copenhagen incentrata sull'incontro del 1941 tra i fisici Niels Bohr e Werner Heisenberg e il loro dibattito sull'utilizzo dell'energia nucleare a fini bellici (in Italia la pubblicò Sironi nel 2008), ha dato vita con questo breve libro a un'opera tanto cristallina quanto enigmatica. Il tutto è composto di brevi capitoli che alimentano un concetto di fondo che è efficace perché lavora proprio sulla possibilità e sulle possibilità stesse di un immaginario che riguardi l'aldilà, il Paradiso appunto, la città di Dio. Howard Baker, il protagonista, si trova subito a suo agio nel luogo dove la superstrada a dieci corsie lo ha condotto: quanto era problema sulla Terra diventa una possibilità nel Paradiso. Quello che sgorga da questa funambolica abilità del narratore di far coesistere ordinario e straordinario in un inedito infraordinario è un tono equidistante da qualsiasi tasto estremo della tastiera della narrativa contemporanea. Sweet Dreams risulta così equidistante da leggerezza e svagatezza, dal cinismo e dalla disperazione, dall'idealità e dalla prescrizione. Pur traguardando entrambi i versanti, a Frayn riesce così bene l'equidistanza dall'utopia e dalla distopia che da un po' va per la maggiore. In fondo, proprio nel confrontarsi con l'immaginario paradisiaco, Frayn ha mostrato insostenibilità e illogicità di qualsiasi Paradiso e specularmente di qualsiasi "città ideale".
A lungo fuori catalogo anche presso le case editrici di lingua inglese per poi ritornarvi in scia di altri libri di successo dell'autore, il testo approda ora alla prima traduzione italiana, a 45 anni dall'uscita in lingua originale. La semplicità di avvicinamento alla scrittura e la trasparenza del concetto di cui s'è detto conferiscono alla prosa di Frayn un carattere vibrante e capace di soffermare l'occhio del lettore in più punti eccezionali del testo. Come notò Margaret Drabble su "New York Times" all'uscita del libro, Frayn ha scritto una satira sulle mode moderne, un racconto sull'invecchiare, unendo tutto con un'accuratezza dell'osservazione che è abbagliante. Una traduzione italiana che giunge inaspettata e sorprendente: il paradiso per gente normale come me e voi, gente perseguitata da indizi di felicità, scrive Frayn nella nota iniziale.
bellissima recensione, grazie
RispondiEliminaAlberto Rutili
Grazie a lei, Alberto
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