domenica 9 settembre 2018

"Foglie d'erba" di Walt Whitman nei Meridiani Mondadori. Una recensione di Massimo Bacigalupo

Questa recensione a Foglie d'erba di Walt Whitman (a cura e con un saggio introduttivo di Mario Corona, Mondadori, I Meridiani, Milano 2017, pp. CLXXXVI, 1658) è apparsa, insieme a un importante studio di Randall Jarrell pressoché irreperibile in Italia, sulla rivista “Poesia”, 339, luglio-agosto 2018.


Dopo anni di gestazione, i Meridiani mondadoriani ospitano una nuova edizione italiana di Leaves of Grass, basata sull’ultima edizione autorizzata da Walt Whitman, che com’è noto non cessò mai di accrescere la prima edizione uscita nel 1855, quando aveva 36 anni. Questa è la terza traduzione integrale dell’opera massima di un poeta “grande, che contiene moltitudini”. E moltitudini di versi. La dimensione del volume, che a differenza della precedente versione integrale einaudiana di Enzo Giachino (1950), riproduce anche il testo inglese, è tale da incutere soggezione. E l’apparato non è da meno, visto che a 186 pagine “romane” di Introduzione (I-CVII) e Cronologia (CIX-CLXXXXVI) si affianca un Commento di 238 pagine (1321-1559). Dunque abbiamo a che fare forse col più esteso libro su Whitman che l’Italia abbia prodotto, per quanto egli si legga da noi fin da quando era in vita.

Gli appassionati e i curiosi troveranno qui tutto lo scibile whitmaniano, la sua vita narrata giorno per giorno, la sua famiglia, i suoi incontri con ammiratori americani e inglesi, i suoi confronti con Emerson e Thoreau, i suoi amori o innamoramenti che mai lo condussero a una relazione stabile. Il curatore Mario Corona, dati i tempi, è particolarmente attento al discorso omosessuale nelle sue varie declinazioni. Whitman vedeva la democrazia americana come basata anche su un nuovo ideale amore fra i “compagni” (camarados), compagni di strada che però gioiscono di intimità fisica, dormono allacciati. Ai suoi tempi nessun recensore si accorse che questo poteva implicare l’“amore che non osa dire il suo nome”, ed Emerson sembra si preoccupasse soprattutto di quelli che gli sembravano eccessi di erotismo eterosessuale. Ma certi lettori inglesi e militanti omosessuali come Wilde, Edward Carpenter e J.A. Symonds vollero riconoscere in Whitman il loro bardo e quando Symonds gli scrisse chiedendogli di dichiararsi apertamente ne ebbe una meritata risposta depistante: “Sebbene non mi sia mai sposato ho avuto sei figli... Voglio sperare che su quelle pagine non si dica neppure una parola che indichi una possibilità di deduzioni morbose... che respingo e mi paiono condannevoli”. Paradossi della sorte, questo diventa invece proprio il leitmotiv dell’apparato del nuovo Meridiano.

Il saggio introduttivo si intitola appunto “La gallina furtiva e il gatto dalla coda troppo lunga”. Whitman dice spesso che vuol essere capito ma non capito mai del tutto, ci aspetta e ci sfugge. “Io da qualche parte sto fermo ad aspettarti” è l’ultimo verso (il v. 1346!) di “Song of Myself”. Ma non è così sempre il testo poetico? Una poesia spiegata è una poesia morta, diceva Wallace Stevens. In ogni caso, l’apparato di Corona permette al lettore speleologo di calarsi nella cultura dell’età di Whitman con i suoi grandi eventi (la Guerra civile) e grandi libri, e anche di calarsi nella cultura del nostro tempo, che naturalmente crea un suo Whitman, aggiornato ma si spera sempre sfuggente e talvolta illeggibile.

In un famoso saggio Randall Jarrell diceva che fra i grandi poeti Whitman è forse quello che ha scritto il maggior numero di brutti versi. Anche Corona è severo con il Whitman fiacco e ipertrofico della maturità, e consente con il giudizio prevalente che l’opera più significativa si arresta poco dopo la Guerra di Secessione e si trova soprattutto nelle prime edizioni fino al 1860. Ciò non impedisce a Corona di tradurre con grande attenzione e sensibilità tutto il corpus, e di darci la possibilità di rileggerlo, mentre nelle note minuziose e discorsive non di rado cita traduzioni precedenti in italiano e altre lingue. Insomma questo Meridiano instaura un lungo dialogo spesso affabile su Whitman col lettore/lettrice...  (Whitman è uno dei primi a scrivere quasi sempre “he or she”, cioè a non sussumere il genere femminile al “he”. Contro la lingua sessista… E ad attribuire alle donne impulsi sessuali che pare fossero tabù. “Coricati sulla schiena e pensa all’Inghilterra”, suonavano le istruzioni prematrimoniali delle mamme vittoriane.)

La copiosità del materiale offertoci può sì sconcertare. Non è il Whitman migliore in alcune pagine, alcuni versi? (“Alcuni versi di Whitman” era appunto il titolo di Jarrell.) “E basta un’occhiata della giumenta baia a farmi rinsavire”. Siamo in “Song of Myself”, ultimo verso della sezione 13: “And the look of the bay mare shames silliness out of me”. Disperante (esaltante?) lavoro del traduttore. Letteralmente “to shame silliness out of me” significa “mi dà vergogna della (e libera dalla) mia stoltezza”. Dato il contesto esagitato di Whitman, Corona ha scelto una frase più generica. Whitman ammette di essere pazzo e che il contatto con lo sguardo della cavalla lo corregge, lo purifica di tutte le stoltezze e i giochetti dei rapporti umani inautentici. Silly, che bella parola quando uno ha il coraggio di dirla di sé. Confrontiamo Giachino: “E lo sguardo della giumenta baia mi fa vergognare della mia stoltezza e l’espelle”. Un po’ lungo, perché a differenza di Corona che si accontenta di una frase breve e vigorosa qui ogni implicazione viene esplicitata. Ma una delle funzioni della traduzione è rivelare l’originale tradendolo, cogliendone solo una parte. Ci invita a un’avventura testuale, e poetica.

Ma si diceva dello sconcerto davanti all’ipertrofia delle Foglie whitmaniane (Leaves è un gioco di parole: “foglie” ma anche “fogli”!). In realtà questo Meridiano così massiccio non deve trattenerci dall’addentrarci in esso anche a caso, e allora troveremo versi che non conoscevamo, una scena di un arrotino circondato da bambini (p. 892), un incitamento a meglio divenire noi stessi: “Va’, caro amico, se necessario rinuncia a tutto il resto e comincia oggi ad allenarti a coraggio, realtà, amor proprio, precisione, elevazione...”.

Forse qui siamo un po’ troppo nel dichiarativo, nelle frasi da scrivere sul calendario. Whitman è sempre didattico, come forse tutta la letteratura americana, ed è naturalmente molto religioso in senso non confessionale. Usa proprio la parola “religione” come fatto centrale della sua opera.

Sappi che solo per lasciar cadere nella terra i germi di una religione più grande
Gli inni seguenti, ciascuno di un tipo, io canto.

Compagno mio!
T’invito a condividere con me due grandezze, e una terza che più fulgida sorge e le altre assomma,
La grandezza dell’Amore e della Democrazia, e la grandezza della Religione.

Melange mio personale di visto e di non visto,
Oceano misterioso ove sboccano i rivi,
Spirito profetico della baluginante materia intorno a me cangiante...
                             (“Partendo da Paumanok”, pp. 49-51)

È quasi impossibile distinguere retorica da visione, ed è giusto che sia così. Fra l’altro in questo Meridiano ogni poesia porta in calce la data di prima pubblicazione e revisione finale, il che subito può permetterci di scegliere il periodo che preferiamo.

Da tanto tempo leggiamo Whitman. Il passo che ho citato sopra si trova già in Canti scelti di W.W. tradotti da Luigi Gamberale (Sonzogno, Milano 1890), dove suona così:

Sappi tu: solamente per far piovere sulla terra i germi di una religione più grande,
Io canto questi canti, ciascuno per la parte sua,
– Mio camerata,
A te sta il partecipare con me a due grandezze, e ad una terza altresì, inclusa in esse e più splendida,
Alla grandezza dell’Amore, della Democrazia e con esse alla grandezza della Religione.
È mia propria questa unione del visibile e dell’invisibile,
Questo oceano misterioso dove le correnti confluiscono...

(manca il verso successivo, forse non c’era nell’edizione consultata da Gamberale).

Mentre la tradizione della traduzione continua a fluire, e continuerà, a noi però è data la possibilità, l’invito whitmaniano, di appropriarci via via di nuove parti del corpus sterminato lasciatoci dal buon Walt. Per esempio questa bellissima e programmatica “Starting from Paumanok” (228 versi) non è fra le sue poesie più note a noi che a volte stentiamo già ad arrivare in fondo a “Song of Myself” e sappiamo che le cose migliori sono nella prime edizioni del 1855 e 1856. (“Partendo da Paumanok” – nome aborigeno di Long Island dove appunto Walt nacque – è del 1860.) Sicché i lettori italiani di poesia del Duemila non sbaglieranno procurandosi la compagnia avventurosa di questo Meridiano, magari dissentendo da certe sue accentuazioni, ma essendo grati a Mario Corona di aver “parlato tanto” (e bene) di Whitman e di darci una possibilità di riscoprirlo.

Whitman insuperato poeta della corporeità e del tatto, poeta visionario folle, ma anche una grande testa pensante. Si legga il tardo saggio di commiato “Uno sguardo retrospettivo alle strade percorse”, che Corona come già Giachino traduce (con testo a fronte) in appendice. Colpisce il gran buon senso, la fermezza, la nobiltà di questo discorrere. La giumenta baia e la prossimità della morte hanno ripulito Walt di ogni silliness. Ma se non fosse anche per la silliness non sarebbe quel grande poeta che è: “Questo profumo delle mie ascelle è aroma più fine della preghiera”.

Massimo Bacigalupo

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