giovedì 6 settembre 2018

"Neuroscienze della bellezza" di Jean-Pierre Changeux

A che punto siamo con le neuroscienze? Dove arriva e dove si ferma (se si ferma) la loro promessa? Hanno promesso troppo loro o siamo noi che ci siamo caricati di aspettative nei confronti di questo ramo della scienza cognitiva? Nei momenti di interrogazione radicale, male non fa tornare agli autori cosiddetti imprescindibili. E Jean-Pierre Changeux è tra questi. Con pubblicazioni come L'uomo neuronale e L'uomo di verità (per Feltrinelli, la prima non più disponibile), Pensiero e materia (per Bollati Boringhieri), Ragione e piacere. Dalla scienza all'arte e Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale (per Raffaello Cortina) o le altre incursioni artistiche come quella con Pierre Boulez e Philippe Manoury dedicata alla musica (per Carocci), lo scienziato francese, oggi ultraottantenne, rappresenta un passaggio obbligato per chi si sia detto anche solo una volta attratto da questo campo del sapere. Sempre per Carocci arriva un nuovo titolo di Changeux dedicato al bello, un leitmotiv di questi suoi ultimi anni di pubblicazioni e interventi. Il libro intitolato semplicemente Neuroscienze della bellezza (pp.  240, euro 21, traduzione di Francesca Ortu) vuole essere una sintesi del pensiero sin qui radunato attorno al bello, all'opera d'arte e anche al processo riguardante la sua creazione. Il titolo francese in realtà suona diverso, La beauté dans le cerveau, ed è più aderente ai contenuti del libro. Nel passaggio all'italiano, sembra sia prevalsa la volontà di schematizzare e incanalare questo testo dentro il solco delle neuroscienze sin dalla titolazione. Anche qui insomma - che non si creda che sia prerogativa dei libri Adelphi - c'è quella che Roberto Calasso chiamerebbe "l'impronta dell'editore". Iniziano ad essere molteplici le pubblicazioni che avvicinano arte, scienza e neuroscienze in particolar modo. Pensiamo anche a un libro come Neuroestetica. L'arte del cervello di Chiara Cappelletto, di qualche anno fa (per Laterza) o al libro del premio Nobel Eric R. Kandel Arte e neuroscienze uscito in Italia lo scorso anno (Raffaello Cortina Editore). Il binomio arte-scienza del resto ha un bel po' di secoli alle spalle, ormai. Le intelligenze rinascimentali di certo non scindevano scienza e arte come abbiamo imparato a fare più tardi, in modo forse esiziale. Questo volume di Changeux è quel libro che nasce quando un duraturo interesse dello scienziato per l'opera d'arte interseca il duro interesse per i meccanismi molecolari e la biologia del cervello. Tra le pagine di questo libro ibrido, che inizia con un'intervista di Ernesto Carafoli e prosegue raccogliendo o rivedendo anche scritti apparsi in altre sedi, ci sono diversi brani dedicati a Pierre Bourdieu, al quale Changeux era legato da un rapporto di profonda considerazione intellettuale.

Per gentile concessione dell'editore Carocci e grazie alla cortese collaborazione di Giancarlo Brioschi si pubblica di seguito un breve estratto dal libro, uno dei punti dove Pierre Bourdieu è ricordato da Changeux.


Ragioni e piaceri di una collezione*


Possiamo domandarci, sulla scia di Jacques Thuillier, se il collezionismo, questo singolare comportamento che ha cosi tanto rilievo nelle condotte umane, non dia accesso a «una delle forme più alte della cultura». I significati del termine “cultura” sono molteplici. Il primo, ovvio – ma simbolicamente molto forte –, fa riferimento all’azione di coltivare la terra per farla fruttificare. In senso figurato, si tratta dello sviluppo armonioso delle nostre facoltà intellettuali. La mia opinione e che la collezione costituisca uno degli strumenti più efficaci di sviluppo culturale e di progresso del sapere. Il termine “cultura” conserva anche l’accezione, ormai arcaica, di “culto”, “venerazione”. Storicamente e nel quotidiano, la collezione ha proprio una dimensione celebrativa riguardante tanto la raccolta selettiva dei pezzi che la costituiscono e la sua definizione in termini di patrimonio (di un individuo, un gruppo sociale, perfino di tutta l’umanità), quanto la presentazione – oserei dire l’ostensione – di questa raccolta, con un rituale che non ha nulla da invidiare alle cerimonie religiose. Infine, gli antropologi definiscono, con Marcel Mauss, la cultura nei termini di forme di comportamento acquisite nelle società umane.

Anche il collezionismo rientra dunque in questa definizione. I ricordi delle esperienze acquisite si perpetuano per tutta la vita nei nostri cervelli sotto forma di tracce neuronali stabili e possono anche trasmettersi da individuo a individuo, da cervello a cervello, in maniera epigenetica. Vi partecipano i gesti, gli atteggiamenti, il linguaggio. Ma tali ricordi possono anche persistere, e persino svilupparsi, al di fuori dei nostri cervelli sotto forma di artefatti più duraturi rispetto al nostro tessuto cerebrale deteriorabile. Ignace Meyerson (2000) annovera fra i tratti caratteristici dell’uomo la sua capacità di elaborare prodotti che differiscono da quanto si trova nell’ambiente esterno; questi prodotti sono globalmente indicati come “opere”, e rappresentano la testimonianza di forme di comportamento acquisite più esemplari e più stabili.
La collezione riguarda le “opere” nel senso inteso da Meyerson, ma a un ulteriore livello e culturale. In effetti, l’uomo – prosegue Meyerson – non si è contentato di fabbricare delle opere: ha avuto cura di conservarle. E aggiunge: «[L]’uomo ha inoltre valorizzato alcune opere conservate, le ha socializzate». E così che possiamo chiederci se la collezione non si situi alle origini stesse di un campo proprio alla specie umana: quello, qui un po’ inatteso, del sacro. Non è forse l’elemento fondatore del gruppo sociale che, testimonianza materiale dell’attività creatrice del nostro cervello, conferisce di rimando – attraverso quello che Ian Hacking (1995) chiama looping effect (effetto autoriflessivo) – un forte potere simbolico alla nostra attività cerebrale? La collezione permetterebbe al gruppo sociale di condividere significati immaginari e contribuirebbe cosi al consolidamento intersoggettivo del legame sociale, in qualche modo lo “renderebbe immortale” attraverso le generazioni successive sotto la forma del sacro.
La collezione sarebbe ancora qualcosa di più: un’eccezionale causa di progresso nell’evoluzione delle nostre società – progresso della ragione, chiaramente. Pierre Bourdieu (1997) scrive: «[I]l mondo e comprensibile, immediatamente dotato di senso, perché il corpo – che grazie ai suoi sensi e al suo cervello ha la capacità di essere impressionato e durevolmente modificato da esso – è stato a lungo (sin dall’origine) esposto alle sue regolarità». L’evoluzione genetica delle specie, la filogenesi, ha portato – a seguito di interazioni multiple con l’ambiente per variazione-selezione – alla costruzione della nostra architettura cerebrale, che ci permette un primo apprendimento del mondo, ne costituisce una prima “rappresentazione innata”. Questa evoluzione genetica passa il testimone all’evoluzione “epigenetica” delle mentalità e delle culture.
Le stesse opere conservate sotto forma di collezioni sono “rappresentazioni acquisite” del mondo. La possibilità di metterle a confronto offerta dalla collezione contribuisce al progresso di una conoscenza che diventa, come scrive Bourdieu, «un consenso primordiale sul senso del mondo» (ibid.). In altri termini, la conoscenza diventa oggettiva. La collezione è dunque alle origini del sapere scientifico e della sua diffusione? L’abate Grégoire l’aveva in qualche modo presagito con la creazione del Conservatorio di arti e mestieri. Possiamo dire che la collezione incorpora l’habitus e «restituisce all’agente un potere generatore e unificatore, costruttivo e classificatorio»? (ibid.). La collezione partecipa, da questo punto di vista, a due aspetti della cultura: il sacro e lo scientifico!  

* Pubblicato originariamente in Les Passions de l’âme. Peintures des xviiet xviiisiecles de la collection Changeux, catalogue de l’exposition, Odile Jacob, Paris 2006. La mostra si e tenuta nel 2006 a Meaux, al Musée Bossuet, a Tolosa, al Musée des Augustins, e a Caen, al Musée des beaux-arts.

© copyright 2018 by Carocci editore S.p.A., Roma
Per gentile concessione dell'editore

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