Per gentile concessione dell'editore Carocci e grazie alla cortese collaborazione di Giancarlo Brioschi si pubblica di seguito un breve estratto dal libro, uno dei punti dove Pierre Bourdieu è ricordato da Changeux.
Ragioni e piaceri di una collezione*
Possiamo domandarci, sulla
scia di Jacques Thuillier, se il collezionismo, questo singolare comportamento
che ha cosi tanto rilievo nelle condotte umane, non dia accesso a «una delle
forme più alte della cultura». I significati del termine “cultura” sono
molteplici. Il primo, ovvio – ma simbolicamente molto forte –, fa riferimento
all’azione di coltivare la terra per farla fruttificare. In senso figurato, si
tratta dello sviluppo armonioso delle nostre facoltà intellettuali. La mia
opinione e che la collezione costituisca uno degli strumenti più efficaci di
sviluppo culturale e di progresso del sapere. Il termine “cultura” conserva
anche l’accezione, ormai arcaica, di “culto”, “venerazione”. Storicamente e nel
quotidiano, la collezione ha proprio una dimensione celebrativa riguardante
tanto la raccolta selettiva dei pezzi che la costituiscono e la sua definizione
in termini di patrimonio (di un individuo, un gruppo sociale, perfino di tutta
l’umanità), quanto la presentazione – oserei dire l’ostensione – di questa
raccolta, con un rituale che non ha nulla da invidiare alle cerimonie
religiose. Infine, gli antropologi definiscono, con Marcel Mauss, la cultura
nei termini di forme di comportamento acquisite nelle società umane.
Anche il collezionismo
rientra dunque in questa definizione. I ricordi delle esperienze acquisite si perpetuano
per tutta la vita nei nostri cervelli sotto forma di tracce neuronali stabili e
possono anche trasmettersi da individuo a individuo, da cervello a cervello, in
maniera epigenetica. Vi partecipano i gesti, gli atteggiamenti, il linguaggio.
Ma tali ricordi possono anche persistere, e persino svilupparsi, al di fuori
dei nostri cervelli sotto forma di artefatti più duraturi rispetto al nostro
tessuto cerebrale deteriorabile. Ignace Meyerson (2000) annovera fra i tratti
caratteristici dell’uomo la sua capacità di elaborare prodotti che differiscono
da quanto si trova nell’ambiente esterno; questi prodotti sono globalmente
indicati come “opere”, e rappresentano la testimonianza di forme di
comportamento acquisite più esemplari e più stabili.
La collezione riguarda le
“opere” nel senso inteso da Meyerson, ma a un ulteriore livello e culturale. In
effetti, l’uomo – prosegue Meyerson – non si è contentato di fabbricare delle
opere: ha avuto cura di conservarle. E aggiunge: «[L]’uomo ha inoltre
valorizzato alcune opere conservate, le ha socializzate». E così che possiamo
chiederci se la collezione non si situi alle origini stesse di un campo proprio
alla specie umana: quello, qui un po’ inatteso, del sacro. Non è forse
l’elemento fondatore del gruppo sociale che, testimonianza materiale
dell’attività creatrice del nostro cervello, conferisce di rimando – attraverso
quello che Ian Hacking (1995) chiama looping
effect (effetto autoriflessivo) – un
forte potere simbolico alla nostra attività cerebrale? La collezione
permetterebbe al gruppo sociale di condividere significati immaginari e
contribuirebbe cosi al consolidamento intersoggettivo del legame sociale, in
qualche modo lo “renderebbe immortale” attraverso le generazioni successive
sotto la forma del sacro.
La collezione sarebbe
ancora qualcosa di più: un’eccezionale causa di progresso nell’evoluzione delle
nostre società – progresso della ragione, chiaramente. Pierre Bourdieu (1997)
scrive: «[I]l mondo e comprensibile, immediatamente dotato di senso, perché il
corpo – che grazie ai suoi sensi e al suo cervello ha la capacità di essere
impressionato e durevolmente modificato da esso – è stato a lungo (sin
dall’origine) esposto alle sue regolarità». L’evoluzione genetica delle specie,
la filogenesi, ha portato – a seguito di interazioni multiple con l’ambiente per
variazione-selezione – alla costruzione della nostra architettura cerebrale,
che ci permette un primo apprendimento del mondo, ne costituisce una prima
“rappresentazione innata”. Questa evoluzione genetica passa il testimone
all’evoluzione “epigenetica” delle mentalità e delle culture.
Le stesse opere conservate
sotto forma di collezioni sono “rappresentazioni acquisite” del mondo. La
possibilità di metterle a confronto offerta dalla collezione contribuisce al
progresso di una conoscenza che diventa, come scrive Bourdieu, «un consenso
primordiale sul senso del mondo» (ibid.). In altri termini, la conoscenza diventa oggettiva.
La collezione è dunque alle origini del sapere scientifico e della sua
diffusione? L’abate Grégoire l’aveva in qualche modo presagito con la creazione
del Conservatorio di arti e mestieri. Possiamo dire che la collezione incorpora
l’habitus e «restituisce all’agente un potere generatore e
unificatore, costruttivo e classificatorio»? (ibid.). La collezione partecipa, da questo punto di vista,
a due aspetti della cultura: il sacro e lo scientifico!
* Pubblicato originariamente in Les Passions de l’âme. Peintures des xviie et xviiie siecles de la collection Changeux, catalogue de l’exposition, Odile Jacob, Paris 2006. La mostra si e tenuta nel 2006 a Meaux, al Musée Bossuet, a Tolosa, al Musée des Augustins, e a Caen, al Musée des beaux-arts.
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Per gentile concessione dell'editore
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