martedì 25 settembre 2018

"Un’arte media" di Pierre Bourdieu, saggio sugli usi sociali della fotografia

La raccolta di scritti Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie ha più di cinquant'anni. La prima edizione data 1965. È diventata un classico delle scienze sociali e della fotografia, anche grazie al progressivo incremento della considerazione di Pierre Bourdieu, lui stesso fotografo tra l'altro. Come sa chi ha maneggiato questo libro in una delle sue edizioni, il sociologo del campo è solamente uno degli autori dei contributi qui radunati in un lavoro che conta come co-autori Luc Boltanski, Robert Castel, Jean-Claude Chamboredon, Gérard Lagneau e Dominique Schnapper. In Italia fu l'editore Guaraldi, apripista in più pubblicazioni di Bourdieu, a tradurre questo titolo già nel 1971, con una curiosa inversione del titolo che diventò La fotografia. Usi e funzioni sociali di un'arte media. La traduttrice e curatrice Milly Buonanno ripercorreva con una certa partecipazione già nell'edizione del 2004 il proprio incontro intellettuale con quest'opera e il suo curatore, collocando queste pagine in mezzo secolo di riflessioni sociologiche, filosofiche, professionali, artistiche, documentarie. Con una traduzione più aderente all'originale, Un'arte media. Saggio sugli usi sociali della fotografia, quel volume Guaraldi del 2004 ritorna disponibile ora per Meltemi (pp. 372, euro 24). La casa editrice, dopo un'interruzione delle trasmissioni, è passata sotto il controllo di Mimesis Edizioni e ha ripreso a pubblicare o ripubblicare, con un occhio al proprio catalogo storico, titoli importanti. Tra questi, solo per citarne uno, figura Alfred Schütz con La fenomenologia del mondo sociale (meritorio, in un panorama di pubblicazioni di sociologia non sempre entusiasmante, mi sembra qualsiasi intervento editoriale che ritorni sulle varie porzioni dell'opera del sociologo austriaco autore di quel bellissimo saggio intitolato Don Chisciotte e il problema della realtà).

Venendo all'arte media della fotografia e a questo volume composito, si dovrà dire subito che i differenti capitoli e sottocapitoli si addentrano nelle pratiche e problematiche professionali di quest'arte che chiunque presume di possedere. A dispetto di un continuo ricorso alle classi sociali, quindi a qualcosa che riconduce a una data gerarchia, assomiglia invece a un rizoma l'accostarsi di contributi che trattano la pratica del fotografare, a metà tra pratiche volgari e nobili, all'interno della famiglia, dei differenti gruppi, dei fotoclub, quale testimonianza di eventi, protagonista dell'ambito giornalistico (da meditare le pagine sul reportage) o pubblicitario. In generale è proprio questo accento sul versante professionale che a distanza di oltre cinquant'anni rende ancora molto attraente la lettura di queste pagine. Ad un livello introduttivo, il campo è sgomberato da nubi in un passaggio chiave come il seguente:

[...] sebbene la produzione dell’immagine sia interamente devoluta all’automatismo dell’apparecchio, l’inquadratura rimane una scelta che impegna valori estetici ed etici: se, astrattamente, la natura e i progressi della tecnica fotografica tendono a rendere ogni cosa oggettivamente “fotografabile”, ciò non toglie che di fatto, nell’infinità teorica delle fotografie tecnicamente possibili, ogni gruppo selezioni una gamma precisa e definita di soggetti, di generi e di composizioni. “L’artista, dice Nietzsche, sceglie i suoi soggetti: è il suo modo di lodare”. Poiché è una “scelta che loda”, poiché rappresenta l’intenzione di fissare, cioè solennizzare ed eternizzare, la fotografia non può essere esposta ai rischi della fantasia individuale e pertanto, con la mediazione dell’ethos, interiorizzazione delle regolarità oggettive e comuni, il gruppo subordina questa pratica alla regola collettiva, in modo tale che la minima fotografia esprime, oltre le intenzioni esplicite di chi l’ha fatta, il sistema degli schemi percettivi, di pensiero e di valutazione comune a tutto un gruppo.
È un passo che articola come un apparato locomotore l'intero libro nelle sue variegate parti alle quali abbiamo accennato poco sopra. Capire una foto, chiunque ne sia l'autore che l'ha catturata, significa per Bourdieu e i suoi compagni di avventura "decifrare il sovrappiù di significato che tradisce in quanto partecipe del simbolismo di un’epoca, d’una classe o d’un gruppo artistico". I modelli impliciti che i fotografi seminano per la via come Pollicino e il "fotografabile" (concetto evidentemente legato anche ad aspetti tecnologici) ci parlano quindi di quale "promozione ontologica" sia conferita da un dato gruppo sociale all'atto del fotografare. In tal senso un libro datato ma imprescindibile come questo risulta ancora più fecondo se letto assieme a un saggio come Il futuro dell'immagine di Federico Vercellone (di cui si parla qui), sia per l'aggiornamento tecnologico e sociale che il saggio di Vercellone propone, sia per i continui rimandi filosofici tra i due (al rapporto tra scienze sociali e filosofia, con particolare riguardo al peculiare caso di Bourdieu, si sofferma anche Milly Buonanno nell'utile testo introduttivo). Per Bourdieu, quest'arte "amatoriale", che sembra contraddistinta da una certa anarchia, è in realtà regolata da sedimentate norme, e gli esteti che si sforzano di liberare l'atto di fotografare dalle funzioni sociali a cui la grande maggioranza lo subordina ("souvenir" di oggetti, persone, eventi in particolar modo) "tentano di far subire alla fotografia una trasformazione analoga a quella che hanno conosciuto le danze popolari, quando si sono trovate integrate nella forma raffinata della suite".

Al gruppo di lavoro che ha dato vita a questo libro preme riconoscere, attivare e veicolare la fotografia come oggetto di studio nell'ambito della scienza sociale e dei gruppi di riferimento. La peculiarità del fotografare è semmai che quest'atto costituisce una pratica che ritorna immancabilmente all'individuo. È l'interesse per il significato conferito alla fotografia dai diversi gruppi sociali che consente di sviscerare la funzione di questa pratica secondo quel dato gruppo. In questa direzione, curiosa è la sterminata analisi di quanto accade nei fotoclub (parola che oggi suona quasi strana se rapportata al flusso fotografico amatoriale dei social) e tutta la casistica che questo volume offre. Il sociologo, in un primo istante, potrebbe sembrare la persona meno indicata a uno studio della fotografia. Il suo interesse è infatti sempre e soltanto per ciò che è "senso comune" e non "visione". Proprio la sperimentazione sulla fotografia, ossia sul terreno di quanto potrebbe condurla facilmente fuori strada nel regno dei "visionari", è un'occasione di studio che la sociologia non doveva mancare. Ed è uno sguardo persino sorprendentemente "affettuoso, e sovente intenerito" (le parole sono di Milly Buonanno) quello che scorgiamo in questo giovane Bourdieu che scrive di fotografia negli anni immediatamente successivi alla Guerra d'Algeria. Il periodo storico e l'impatto di quella guerra non vanno fatti passare in secondo piano, sia a livello generale sia a livello individuale, per gli autori di questo studio. E come ricordato Pierre Bourdieu non è da solo. Robert Castel, ad esempio, nel suo saggio conclusivo intitolato "Immagini e fantasmi", si infiltra nei corridoi stretti del sovraccarico simbolico dell'immagine fotografica, del suo essere pretesto per razionalizzazioni pre-consce (più che via d'accesso all'inconscio), offrendo l'appoggio per avvicinare la pratica fotografica a quel terrain vague che solitamente si mette a catasto nel perimetro frastagliato della malattia mentale. Insomma, se vi capita di interrogarvi spesso sull'atto del fotografare, questo è un libro da prendere in considerazione.


2 commenti:

  1. A parte alcuni spunti interessanti che non giustificano la mole esagerata del libro,il testo è di difficile lettura e di pochissima utilità per i non addetti.

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