giovedì 18 ottobre 2018

"Corrado Cagli. La pittura, l'esilio, l'America (1938-1947)". Un'intervista con Raffaele Bedarida

Librobreve intervista #84

Pubblico di seguito un'intervista a Raffaele Bedarida, professore di Storia dell'arte all'università Cooper Union di New York, e autore del saggio Corrado Cagli. La pittura, l'esilio, l'America (1938-1947) edito quest'anno da Donzelli (euro 32, pp. XXVI-294, con 16 illustrazioni a colori, prefazione di Enrico Crispolti e presentazione di Paolo Marzotto). Ringrazio l'intervistato unitamente a Francesca Pieri della casa editrice Donzelli.

LB: Anche se il libro si focalizza su un decennio significativo della prima parte del Novecento (1938-1947), partirei dal presente: qual è il punto che si potrebbe fare sul presente di Corrado Cagli (1910-1976), sulla ricezione della sua opera, sul suo lascito artistico e intellettuale?
R: Paradossalmente Cagli è ovunque ma è invisibile. È imprescindibile per la conoscenza dell’arte italiana del ventesimo secolo, ma non rientra nelle narrative lineari o già digerite della storia di quei decenni. Naturalmente ci sono state mostre e pubblicazioni importanti su Cagli grazie al lavoro di studiosi come Enrico Crispolti e Fabio Benzi. Ma nelle narrazioni complessive del periodo, Cagli rimane spesso un punto cieco che è significativo proprio nella sua invisibilità. Per esempio, uno dei suoi disegni di Buchenwald chiudeva Post Zang Tumb Tuum, la grande mostra curata da Celant alla Fondazione Prada nella primavera 2018. Ma nel percorso della mostra, quel disegno spariva: non solo non faceva parte delle spettacolari ricostruzioni di mostre messe in scena da Celant, ma compariva nella sala finale dominata da una grande tavola centrale, dove i visitatori potevano sfogliare centinaia di libri e cataloghi sul fascismo. Dunque quando Cagli compariva il percorso narrativo della mostra era già concluso e il pubblico dava le spalle a quel disegno così drammatico, ma messo in sordina.
Nella mia introduzione, ho cercato di delineare come le problematiche metodologiche che rendono questo artista difficile da collocare, siano proprio le problematiche con cui dobbiamo fare i conti. Spero il mio libro contribuisca a questo, insieme al lavoro di altri autori come Michele Dantini o Davide Colombo che stanno facendo molto per riscrivere la storia del Novecento in Italia dando, tra l’altro, una nuova centralità a Cagli.
Anche uscendo dal contesto italiano le cose si stanno smuovendo. Perfino il MoMA sta organizzando una grande mostra su Lincoln Kirstein, che sarà un po’ una controstoria del museo. Infatti Kirstein è una figura fondante nella storia del MoMA, ma la sua idea di modernità è alternativa se non addirittura incompatibile con quella di Alfred Barr che poi di fatto è prevalsa. In quella mostra Cagli avrà un ruolo abbastanza importante. Venendo dal MoMA, spero si tratti di una scossa profonda alle attuali narrazioni dell’arte moderna.

LB: E prima di partire per gli Stati Uniti, a 28 anni, che cosa ha già fatto Corrado Cagli?
RB: La sua carriera negli anni Trenta ha del prodigioso. È una delle voci più influenti del muralismo a partire dalla Triennale milanese del 1933 e la pubblicazione del suo manifesto “Muri ai pittori” dello stesso anno (all’età di 23 anni). Nel 1935 è uno dei fondatori e di fatto dirige la galleria e cenacolo letterario della Cometa con centro a Roma, una succursale a New York e un salotto letterario a Parigi. Partecipa con posizioni di primissimo piano alle Quadriennali romane, Biennali di Venezia fino al 1938. Inizialmente lo invitano addirittura all’edizione del 1939 ma poi viene escluso in quanto “di razza ebraica”. Ricopre posizioni importanti anche in mostre all’estero, come il padiglione italiano per l’esposizione universale del 1937 a Parigi – quella di Guernica per intenderci – e alla mostra Anthology of Contemporary Italian Painting a New York nel 1938. In altre parole, pochi mesi prima dell’esilio, Cagli è una figura di spicco dell’arte italiana e rappresenta il Paese in rassegne internazionali prestigiose.
Da molti viene visto come esponente di spicco di una via italiana alla modernità, alternativa al futurismo da una parte ed a Novecento dall’altra. A sostenerlo sono figure influenti nella politica culturale italiana del periodo, da Bontempelli a Bottai, ma anche all’estero, dal critico Waldemar George in Francia al direttore del Carnegie International, Homer Sain-Gaudens negli USA.
Allo stesso tempo però Cagli diventa il bersaglio principale della fazione più reazionaria della critica d’arte fascista. Autori come Farinacci o Pensabene che vogliono importare anche in Italia la campagna nazista contro la cosiddetta “arte degenerata” vedono in Cagli il male assoluto: oltre al tipo di arte che fa e che promuove (troppo espressiva, visionaria e destabilizzante per i loro gusti), Cagli è ebreo, gay e attivo internazionalmente. Insomma, è il bersaglio ideale per portare avanti una campagna contro l’arte moderna, descritta come giudaica, degenere e bolscevica.

Alfred Barr
LB: La ricerca confluita nel volume di Donzelli copre un decennio che sostanzialmente va dalle leggi razziali del 1938, di cui ricordiamo l'ottantennale proprio in questi giorni, al controverso rientro di Cagli in Italia, nel clima avvelenato di un dopoguerra. Cosa succede di rilevante in questi dieci anni d'esilio e perché diventano essenziali per illuminare l'intero percorso di questo artista? In buona sostanza, chiedo di tratteggiare, se possibile, la specificità del contributo di questa accurata ricerca.
RB: Il periodo dell’esilio di Cagli era fino ad oggi poco conosciuto per due motivi principali: in primo luogo i molti spostamenti e la frammentarietà della sua vicenda personale rendono logisticamente difficile il reperimento di documenti sparpagliati per archivi tra Italia e Stati Uniti; allo stesso tempo la condizione precaria e lo stile di vita nomade del periodo preso in considerazione hanno interrotto quel flusso notevole di produzione artistica che aveva caratterizzato i primi anni rendendo il corpus di opere di quel decennio numericamente inferiore e in certi casi anche qualitativamente meno felici delle opere esuberanti del primo Cagli.
Grazie ad una serie di borse di studio da parte dell’Università di Siena e della City University of New York, ho avuto l’opportunità preziosa di studiare documenti sparpagliati ovunque e dunque ricostruire una vicenda drammatica e avvincente. Mi sono anche reso conto che proprio la frammentazione e la schizofrenia stilistica del suo lavoro durante l’esilio sono ciò che rende questo lavoro significativo a livello personale e non solo. Infatti l’eclettismo di Cagli, che lo rende odioso ai cultori della cosiddetta coerenza, è una scelta deliberata ed il prodotto di una scissione identitaria maturata proprio durante l’esilio. Insomma credo che il periodo che ho studiato sia una fase di incubazione fondamentale di una strategia intellettuale postmoderna.
Ho cercato anche di portare avanti una riflessione metodologica sulla monografia d’artista come genere letterario. Fondata tradizionalmente su un modello vasariano di tipo “arte e vita”, la monografia d’artista spesso fonde queste due componenti con l’obiettivo di raggiungere un’ideale unità e completezza dell’artista come soggetto. Lavorando su una produzione frammentaria e su una vicenda fatta di interruzioni, il mio studio cerca di ripensare la monografia d’artista come narrazione che scava lacune e incertezze più che unire i punti noti.
La versione lineare sarebbe come segue. Attaccato, censurato ed infine estromesso dalla vita culturale italiana, Cagli lascia l’Italia a seguito delle leggi razziali e trascorre un primo periodo in Svizzera e poi un anno a Parigi. Riesce infine ad ottenere il visto per gli Stati Uniti grazie al supporto, tra gli altri, di Alfred Barr, allora direttore del MoMA. Una volta in America si trova nell’ambiente dei surrealisti in esilio. Espone alla galleria surrealista di Julien Levy, ma poco dopo si arruola nell’esercito americano. Agli anni di addestramento sulla costa ovest (tra California, Oregon e stato di Washington) segue un breve periodo a Londra, lo sbarco in Normandia e la campagna militare in Francia, Belgio e Germania con la prima armata dell’esercito USA, che culmina nell’aprile 1945 con la liberazione di alcuni campi di concentramento tedeschi – il più importante è Buchenwald. Grazie ad un accordo con l’esercito, Cagli può continuare a lavorare come artista e ad esporre per tutto il periodo. Infatti realizza almeno due cicli di pitture murali per accampamenti militari in California e documenta la propria esperienza dell’addestramento e della guerra in una serie di disegni che vengono esposti e pubblicati in tempo reale sia in Europa che in America. Per esempio una mostra di suoi disegni inaugura a Londra proprio il giorno dello sbarco in Normandia. Cagli ovviamente non vede la mostra perché impegnato nelle manovre militari. Alcuni suoi disegni sono anche distribuiti in Italia grazie ad una rivista in lingua italiana, stampata a Londra, intitolata "Il Mese". Dopo la guerra rientra a New York dove riprende l’attività artistica a pieno ritmo, incoraggiato da importanti riconoscimenti, come il Guggenheim Fellowship del 1946 e l’emergere di un nuovo interesse da parte del pubblico americano per l’arte italiana. Inoltre è impegnato nell’ambito del balletto, collaborando con Lincoln Kirstein e George Balanchine. Decide però di rientrare in Italia, dove viene aspramente contestato. L’ostilità con cui viene accolto - le accuse di essere stato fascista, e di essere attualmente un agente del mercantilismo americano lasciano trapelare toni antisemiti e omofobi tutt’altro che velati – non è diversa da quella riservata ai professori universitari ebrei che nel dopoguerra non sono reintegrati. Ecco, questo potrebbe essere un riassunto delle vicende narrate nel libro come se si trattasse di una linea chiara.
Ma quello che ho cercato di fare, invece, è di scavare nelle pause. Come quando Cagli disegna figure bibliche e santi che vagano con aria stralunata per i paesaggi dell’Oregon come se si chiedessero "cosa ci sto a fare qui?". Manca una direzione, manca un pubblico e manca un autore.

Cagli a Camp Callan, California, 1942
LB: Il libro appartiene a una collana di Donzelli intitolata "Italiani dall'esilio". Immagino sia possibile cercare un legante tra i libri di questa collana e le esperienze di esilio nel piano editoriale del direttore della collana stessa, Renato Camurri. La domanda allora diventa questa: l'esilio di Cagli diventa emblematico e paradigmatico di qualcosa? In che cosa invece è un caso unico?
RB: L’arrivo degli artisti e intellettuali europei - soprattutto francesi e tedeschi – negli Stati Uniti a ridosso della Seconda guerra mondiale è un fatto ben noto che è ormai entrato a far parte del canone storico artistico. Invece la vicenda umana e intellettuale dei molti italiani – ebrei, antifascisti o altro – che hanno raggiunto l’America alla vigilia del conflitto deve essere ancora esplorato. È anche in divenire una valutazione del ruolo svolto collettivamente dagli italiani in esilio come ponti culturali o traduttori culturali tra Italia e Stati Uniti a cavallo della guerra. Dunque la collana diretta da Camurri ha il grande merito di affrontare un fenomeno storico definendone le caratteristiche comuni così come le specificità.
Se l’ambiguità e la contraddittorietà delle politiche culturali del regime fascista hanno reso difficile la ricezione internazionale dell’arte moderna italiana, la migrazione in America di un artista come Cagli manda in cortocircuito il sistema di lettura definito da istituzioni come il MoMA, che hanno costruito intorno alla fuga degli artisti dalle dittature europee un vero e proprio mito di origine. Quindi lo studio della storia degli italiani in esilio e, nello specifico, della vicenda di Cagli è una grande opportunità di revisione e ampliamento di un mito fondante.

Cagli e Olson, Y & X copertina e cello
LB: Cagli e i letterati, da Olson a Bontempelli. Al di là del lieve grado di parentela che lega Cagli e Bontempelli, che rapporto è? Chi prende e chi dà? Allargando la visuale in una panoramica, quali situazioni e legami si creano tra Cagli e gli scrittori?
RB: Una caratteristica fondamentale di Cagli è certamente lo sforzo continuo a contaminare e collaborare al di fuori dei confini di una singola disciplina o linguaggio: non solo con letterati ma anche con musicisti, architetti, matematici e molto altro. Bontempelli ha certamente un ruolo di mentore per il giovane Cagli. È suo zio acquisito e, anche se già dalla fine degli anni Venti si è allontanato da Amelia Della Pergola, zia materna di Cagli, Bontempelli mantiene il rapporto e incoraggia il giovane pittore, sostenendone le prime pubblicazioni e mostre nel corso degli anni Trenta. Certamente tematiche fondamentali nel lavoro di Cagli, come il primordio, sono ispirate a Bontempelli. È significativo che anche nel 1947, quando espone per la prima volta in Italia dopo la guerra, chieda a Bontempelli di introdurlo in catalogo nonostante il suo lavoro attuale sia molto lontano dal tipo di pittura che Bontempelli aveva sostenuto e incoraggiato negli anni Trenta.
Nel caso di Olson è quasi il contrario. Nonostante Cagli e lo scrittore americano siano coetanei, al loro incontro nel 1940 la disparità tra loro è evidente. Mentre Cagli ha una solida carriera d’artista alle spalle, come abbiamo visto, Olson sta ancora lavorando alla sua tesi ed ha pubblicato ben poco. Cagli lo incoraggia a portare avanti la sua vocazione di poeta e a mettere insieme il suo primo libro di poesie, Y & X, che è un dialogo tra i versi di Olson e i disegni di Cagli.

LB: Si parla da anni di "sistema dell'arte", un sistema globale ormai. Il suo libro consente di intravedere un frangente in cui questa globalizzazione del sistema non è ancora del tutto compiuta e si scorge una specificità tra i vari sistemi dell'arte nazionali (persino intranazionali, con le differenze che potremmo osservare tra città come Milano e Roma, ad esempio). Cosa aggiunge il caso di Corrado Cagli alle riflessioni che solitamente si fanno sul sistema dell'arte contemporanea?
RB: Non è certo nuova la tensione tra prospettive globali, che rischiano di diluire o di rimanere in superficie e un’attenzione alle specificità locali, che rischiano di risultare irrilevanti o quanto meno provinciali. Studiare un artista come Cagli, che nei tempi di Facebook verrebbe definito un networker, è un’alternativa a entrambi i sistemi. Non solo Cagli si adopera, sin dai primi anni, a mettere in dialogo e ad avviare collaborazioni tra luoghi e ambienti culturali distanti (prima tra Roma e Milano, poi con Parigi e infine con New York), ma fa anche di tutto per facilitare il confronto tra parametri o valori incongruenti tra loro. Anche per questo si è trovato spesso nel mezzo di polemiche e di contestazioni. Come quando, nel 1949, il MoMA presenta l’arte italiana del dopoguerra come un “rinascimento” dopo la fine del fascismo e Cagli scrive polemicamente che in realtà non è mai venuta meno la continuità tra il prima e il dopo.

LB: Mi piacerebbe chiudere questa intervista con un'opera scelta tra quelle del periodo studiato nel libro e sulle motivazioni di questa scelta. Grazie.
RB: Vorrei concludere con due opere invece di una perché, al solito, rappresentano meglio la resistenza strategica da parte di Cagli a ogni forma di sintesi risolutiva. Si tratta di due opere che fa all’indomani della guerra e nel momento in cui decide di rientrare in Italia. Uno è intitolato “Il ritorno di Ulisse” e rappresenta un atelier immaginario con immaginarie opere dipinte. Varie linee e diversi sistemi prospettici, tanti artisti o personaggi cercano di collegare il tutto, ma qualsiasi sforzo di trovare una coerenza spaziale o una logica rappresentativa risulta frustrante. Allo stesso tempo Cagli disegna “Polifemo”, il cui corpo è definito con precisione e solidità manierista ma la cui testa sembra esplodere. In quello stesso momento Cagli torna in Italia con quadri astratti sulla quarta dimensione, con disegni dettagliatissimi degli orrori di Buchenwald, ma anche con un passato fascista che riemerge in superficie e che Cagli non fa nulla per coprire (il suo affresco per l’Opera Nazionale Balilla a Roma era stato censurato e ora viene riportato alla luce e dalle macerie del suo studio bombardato riemergono i suoi lavori degli anni Trenta). Insomma ritorna a Roma come Ulisse e come Polifemo allo stesso tempo. È un outsider in quanto ebreo e in quanto gay. E il fatto che abbia combattuto la guerra con l’esercito americano non gli viene perdonato. Insomma non c’è da stupirsi che la sua prima mostra del dopoguerra finisca a cazzotti.


Il ritorno di Ulisse, 1946, disegno a olio su carta intelata, cm 47 × 60

Polifemo, 1946, inchiostro su carta, cm 32 × 23

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