Pubblico di seguito un'intervista a Raffaele Bedarida, professore di Storia dell'arte all'università Cooper Union di New York, e autore del saggio Corrado Cagli. La pittura, l'esilio, l'America (1938-1947) edito quest'anno da Donzelli (euro 32, pp. XXVI-294, con 16 illustrazioni a colori, prefazione di Enrico Crispolti e presentazione di Paolo Marzotto). Ringrazio l'intervistato unitamente a Francesca Pieri della casa editrice Donzelli.
LB:
E prima di partire per gli Stati Uniti, a 28 anni, che cosa ha già fatto
Corrado Cagli?
LB:
Anche se il libro si focalizza su un decennio significativo della prima parte
del Novecento (1938-1947), partirei dal presente: qual è il punto che si
potrebbe fare sul presente di Corrado Cagli (1910-1976), sulla ricezione della
sua opera, sul suo lascito artistico e intellettuale?
R: Paradossalmente
Cagli è ovunque ma è invisibile. È imprescindibile per la conoscenza dell’arte
italiana del ventesimo secolo, ma non rientra nelle narrative lineari o già
digerite della storia di quei decenni. Naturalmente ci sono state mostre e
pubblicazioni importanti su Cagli grazie al lavoro di studiosi come Enrico
Crispolti e Fabio Benzi. Ma nelle narrazioni complessive del periodo, Cagli
rimane spesso un punto cieco che è significativo proprio nella sua invisibilità.
Per esempio, uno dei suoi disegni di Buchenwald chiudeva Post Zang Tumb Tuum, la grande mostra curata da Celant alla
Fondazione Prada nella primavera 2018. Ma nel percorso della mostra, quel
disegno spariva: non solo non faceva parte delle spettacolari ricostruzioni di
mostre messe in scena da Celant, ma compariva nella sala finale dominata da una
grande tavola centrale, dove i visitatori potevano sfogliare centinaia di libri
e cataloghi sul fascismo. Dunque quando Cagli compariva il percorso narrativo
della mostra era già concluso e il pubblico dava le spalle a quel disegno così
drammatico, ma messo in sordina.
Nella
mia introduzione, ho cercato di delineare come le problematiche metodologiche
che rendono questo artista difficile da collocare, siano proprio le
problematiche con cui dobbiamo fare i conti. Spero il mio libro contribuisca a
questo, insieme al lavoro di altri autori come Michele Dantini o Davide Colombo
che stanno facendo molto per riscrivere la storia del Novecento in Italia
dando, tra l’altro, una nuova centralità a Cagli.
Anche
uscendo dal contesto italiano le cose si stanno smuovendo. Perfino il MoMA sta
organizzando una grande mostra su Lincoln Kirstein, che sarà un po’ una
controstoria del museo. Infatti Kirstein è una figura fondante nella storia del
MoMA, ma la sua idea di modernità è alternativa se non addirittura incompatibile
con quella di Alfred Barr che poi di fatto è prevalsa. In quella mostra Cagli
avrà un ruolo abbastanza importante. Venendo dal MoMA, spero si tratti di una
scossa profonda alle attuali narrazioni dell’arte moderna.
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RB:
La sua carriera negli anni Trenta ha del prodigioso. È una delle voci più
influenti del muralismo a partire dalla Triennale milanese del 1933 e la
pubblicazione del suo manifesto “Muri ai pittori” dello stesso anno (all’età di
23 anni). Nel 1935 è uno dei fondatori e di fatto dirige la galleria e cenacolo
letterario della Cometa con centro a Roma, una succursale a New York e un
salotto letterario a Parigi. Partecipa con posizioni di primissimo piano alle
Quadriennali romane, Biennali di Venezia fino al 1938. Inizialmente lo invitano
addirittura all’edizione del 1939 ma poi viene escluso in quanto “di razza
ebraica”. Ricopre posizioni importanti anche in mostre all’estero, come il
padiglione italiano per l’esposizione universale del 1937 a Parigi – quella di
Guernica per intenderci – e alla mostra Anthology
of Contemporary Italian Painting a New York nel 1938. In altre parole,
pochi mesi prima dell’esilio, Cagli è una figura di spicco dell’arte italiana e
rappresenta il Paese in rassegne internazionali prestigiose.
Da
molti viene visto come esponente di spicco di una via italiana alla modernità,
alternativa al futurismo da una parte ed a Novecento dall’altra. A sostenerlo
sono figure influenti nella politica culturale italiana del periodo, da
Bontempelli a Bottai, ma anche all’estero, dal critico Waldemar George in
Francia al direttore del Carnegie International, Homer Sain-Gaudens negli USA.
Allo
stesso tempo però Cagli diventa il bersaglio principale della fazione più
reazionaria della critica d’arte fascista. Autori come Farinacci o Pensabene
che vogliono importare anche in Italia la campagna nazista contro la cosiddetta
“arte degenerata” vedono in Cagli il male assoluto: oltre al tipo di arte che
fa e che promuove (troppo espressiva, visionaria e destabilizzante per i loro
gusti), Cagli è ebreo, gay e attivo internazionalmente. Insomma, è il bersaglio
ideale per portare avanti una campagna contro l’arte moderna, descritta come
giudaica, degenere e bolscevica.
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Alfred Barr |
LB:
La ricerca confluita nel volume di Donzelli copre un decennio che
sostanzialmente va dalle leggi razziali del 1938, di cui ricordiamo
l'ottantennale proprio in questi giorni, al controverso rientro di Cagli in Italia,
nel clima avvelenato di un dopoguerra. Cosa succede di rilevante in questi
dieci anni d'esilio e perché diventano essenziali per illuminare l'intero
percorso di questo artista? In buona sostanza, chiedo di tratteggiare, se
possibile, la specificità del contributo di questa accurata ricerca.
RB:
Il periodo dell’esilio di Cagli era fino ad oggi poco conosciuto per due motivi
principali: in primo luogo i molti spostamenti e la frammentarietà della sua
vicenda personale rendono logisticamente difficile il reperimento di documenti
sparpagliati per archivi tra Italia e Stati Uniti; allo stesso tempo la
condizione precaria e lo stile di vita nomade del periodo preso in
considerazione hanno interrotto quel flusso notevole di produzione artistica che
aveva caratterizzato i primi anni rendendo il corpus di opere di quel decennio
numericamente inferiore e in certi casi anche qualitativamente meno felici
delle opere esuberanti del primo Cagli.
Grazie
ad una serie di borse di studio da parte dell’Università di Siena e della City
University of New York, ho avuto l’opportunità preziosa di studiare documenti
sparpagliati ovunque e dunque ricostruire una vicenda drammatica e avvincente. Mi
sono anche reso conto che proprio la frammentazione e la schizofrenia
stilistica del suo lavoro durante l’esilio sono ciò che rende questo lavoro
significativo a livello personale e non solo. Infatti l’eclettismo di Cagli,
che lo rende odioso ai cultori della cosiddetta coerenza, è una scelta
deliberata ed il prodotto di una scissione identitaria maturata proprio durante
l’esilio. Insomma credo che il periodo che ho studiato sia una fase di
incubazione fondamentale di una strategia intellettuale postmoderna.
Ho
cercato anche di portare avanti una riflessione metodologica sulla monografia
d’artista come genere letterario. Fondata tradizionalmente su un modello
vasariano di tipo “arte e vita”, la monografia d’artista spesso fonde queste
due componenti con l’obiettivo di raggiungere un’ideale unità e completezza
dell’artista come soggetto. Lavorando su una produzione frammentaria e su una
vicenda fatta di interruzioni, il mio studio cerca di ripensare la monografia
d’artista come narrazione che scava lacune e incertezze più che unire i punti
noti.
La
versione lineare sarebbe come segue. Attaccato, censurato ed infine estromesso
dalla vita culturale italiana, Cagli lascia l’Italia a seguito delle leggi
razziali e trascorre un primo periodo in Svizzera e poi un anno a Parigi. Riesce
infine ad ottenere il visto per gli Stati Uniti grazie al supporto, tra gli
altri, di Alfred Barr, allora direttore del MoMA. Una volta in America si trova
nell’ambiente dei surrealisti in esilio. Espone alla galleria surrealista di
Julien Levy, ma poco dopo si arruola nell’esercito americano. Agli anni di
addestramento sulla costa ovest (tra California, Oregon e stato di Washington)
segue un breve periodo a Londra, lo sbarco in Normandia e la campagna militare
in Francia, Belgio e Germania con la prima armata dell’esercito USA, che
culmina nell’aprile 1945 con la liberazione di alcuni campi di concentramento
tedeschi – il più importante è Buchenwald. Grazie ad un accordo con l’esercito,
Cagli può continuare a lavorare come artista e ad esporre per tutto il periodo.
Infatti realizza almeno due cicli di pitture murali per accampamenti militari
in California e documenta la propria esperienza dell’addestramento e della
guerra in una serie di disegni che vengono esposti e pubblicati in tempo reale
sia in Europa che in America. Per esempio una mostra di suoi disegni inaugura a
Londra proprio il giorno dello sbarco in Normandia. Cagli ovviamente non vede
la mostra perché impegnato nelle manovre militari. Alcuni suoi disegni sono
anche distribuiti in Italia grazie ad una rivista in lingua italiana, stampata
a Londra, intitolata "Il Mese". Dopo la guerra rientra a New York dove riprende
l’attività artistica a pieno ritmo, incoraggiato da importanti riconoscimenti,
come il Guggenheim Fellowship del 1946 e l’emergere di un nuovo interesse da
parte del pubblico americano per l’arte italiana. Inoltre è impegnato
nell’ambito del balletto, collaborando con Lincoln Kirstein e George
Balanchine. Decide però di rientrare in Italia, dove viene aspramente
contestato. L’ostilità con cui viene accolto - le accuse di essere stato
fascista, e di essere attualmente un agente del mercantilismo americano
lasciano trapelare toni antisemiti e omofobi tutt’altro che velati – non è
diversa da quella riservata ai professori universitari ebrei che nel dopoguerra
non sono reintegrati. Ecco, questo potrebbe essere un riassunto delle vicende
narrate nel libro come se si trattasse di una linea chiara.
Ma
quello che ho cercato di fare, invece, è di scavare nelle pause. Come quando
Cagli disegna figure bibliche e santi che vagano con aria stralunata per i
paesaggi dell’Oregon come se si chiedessero "cosa ci sto a fare qui?". Manca una direzione, manca un pubblico e manca un autore.
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Cagli a Camp Callan, California, 1942 |
LB:
Il libro appartiene a una collana di Donzelli intitolata "Italiani
dall'esilio". Immagino sia possibile cercare un legante tra i libri di
questa collana e le esperienze di esilio nel piano editoriale del direttore
della collana stessa, Renato Camurri. La domanda allora diventa questa:
l'esilio di Cagli diventa emblematico e paradigmatico di qualcosa? In che cosa
invece è un caso unico?
RB:
L’arrivo degli artisti e intellettuali europei - soprattutto francesi e
tedeschi – negli Stati Uniti a ridosso della Seconda guerra mondiale è un fatto
ben noto che è ormai entrato a far parte del canone storico artistico. Invece la
vicenda umana e intellettuale dei molti italiani – ebrei, antifascisti o altro
– che hanno raggiunto l’America alla vigilia del conflitto deve essere ancora
esplorato. È anche in divenire una valutazione del ruolo svolto collettivamente
dagli italiani in esilio come ponti culturali o traduttori culturali tra Italia
e Stati Uniti a cavallo della guerra. Dunque la collana diretta da Camurri ha il
grande merito di affrontare un fenomeno storico definendone le caratteristiche
comuni così come le specificità.
Se l’ambiguità e la contraddittorietà delle
politiche culturali del regime fascista hanno reso difficile la ricezione
internazionale dell’arte moderna italiana, la migrazione in America di un
artista come Cagli manda in cortocircuito il sistema di lettura definito da
istituzioni come il MoMA, che hanno costruito intorno alla fuga degli artisti
dalle dittature europee un vero e proprio mito di origine. Quindi lo studio
della storia degli italiani in esilio e, nello specifico, della vicenda di
Cagli è una grande opportunità di revisione e ampliamento di un mito fondante.
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Cagli e Olson, Y & X copertina e cello |
LB:
Cagli e i letterati, da Olson a Bontempelli. Al di là del lieve grado di
parentela che lega Cagli e Bontempelli, che rapporto è? Chi prende e chi dà?
Allargando la visuale in una panoramica, quali situazioni e legami si creano
tra Cagli e gli scrittori?
RB:
Una caratteristica fondamentale di Cagli è certamente lo sforzo continuo a
contaminare e collaborare al di fuori dei confini di una singola disciplina o
linguaggio: non solo con letterati ma anche con musicisti, architetti,
matematici e molto altro. Bontempelli ha certamente un ruolo di mentore per il
giovane Cagli. È suo zio acquisito e, anche se già dalla fine degli anni Venti
si è allontanato da Amelia Della Pergola, zia materna di Cagli, Bontempelli mantiene
il rapporto e incoraggia il giovane pittore, sostenendone le prime
pubblicazioni e mostre nel corso degli anni Trenta. Certamente tematiche
fondamentali nel lavoro di Cagli, come il primordio, sono ispirate a
Bontempelli. È significativo che anche nel 1947, quando espone per la prima
volta in Italia dopo la guerra, chieda a Bontempelli di introdurlo in catalogo
nonostante il suo lavoro attuale sia molto lontano dal tipo di pittura che
Bontempelli aveva sostenuto e incoraggiato negli anni Trenta.
Nel
caso di Olson è quasi il contrario. Nonostante Cagli e lo scrittore americano
siano coetanei, al loro incontro nel 1940 la disparità tra loro è evidente.
Mentre Cagli ha una solida carriera d’artista alle spalle, come abbiamo
visto, Olson sta ancora lavorando alla sua tesi ed ha pubblicato ben poco.
Cagli lo incoraggia a portare avanti la sua vocazione di poeta e a mettere
insieme il suo primo libro di poesie, Y & X,
che è un dialogo tra i versi di Olson e i disegni di Cagli.
LB:
Si parla da anni di "sistema dell'arte", un sistema globale ormai. Il suo libro consente di intravedere un frangente
in cui questa globalizzazione del sistema non è ancora del tutto compiuta e si
scorge una specificità tra i vari sistemi dell'arte nazionali (persino
intranazionali, con le differenze che potremmo osservare tra città come Milano
e Roma, ad esempio). Cosa aggiunge il caso di Corrado Cagli alle riflessioni
che solitamente si fanno sul sistema dell'arte contemporanea?
RB: Non
è certo nuova la tensione tra prospettive globali, che rischiano di diluire o
di rimanere in superficie e un’attenzione alle specificità locali, che
rischiano di risultare irrilevanti o quanto meno provinciali. Studiare un artista
come Cagli, che nei tempi di Facebook verrebbe definito un networker, è un’alternativa a entrambi i sistemi. Non solo Cagli si
adopera, sin dai primi anni, a mettere in dialogo e ad avviare collaborazioni
tra luoghi e ambienti culturali distanti (prima tra Roma e Milano, poi con
Parigi e infine con New York), ma fa anche di tutto per facilitare il confronto
tra parametri o valori incongruenti tra loro. Anche per questo si è trovato
spesso nel mezzo di polemiche e di contestazioni. Come quando, nel 1949, il MoMA presenta
l’arte italiana del dopoguerra come un “rinascimento” dopo la fine del fascismo
e Cagli scrive polemicamente che in realtà non è mai venuta meno la continuità
tra il prima e il dopo.
LB:
Mi piacerebbe chiudere questa intervista con un'opera scelta tra quelle del
periodo studiato nel libro e sulle motivazioni di questa scelta. Grazie.
RB: Vorrei concludere con due opere invece di una perché,
al solito, rappresentano meglio la resistenza strategica da parte di Cagli a
ogni forma di sintesi risolutiva. Si tratta di due opere che fa all’indomani
della guerra e nel momento in cui decide di rientrare in Italia. Uno è
intitolato “Il ritorno di Ulisse” e rappresenta un atelier immaginario con
immaginarie opere dipinte. Varie linee e diversi sistemi prospettici, tanti
artisti o personaggi cercano di collegare il tutto, ma qualsiasi sforzo di
trovare una coerenza spaziale o una logica rappresentativa risulta frustrante. Allo
stesso tempo Cagli disegna “Polifemo”, il cui corpo è definito con precisione e
solidità manierista ma la cui testa sembra esplodere. In quello stesso momento
Cagli torna in Italia con quadri astratti sulla quarta dimensione, con disegni
dettagliatissimi degli orrori di Buchenwald, ma anche con un passato fascista
che riemerge in superficie e che Cagli non fa nulla per coprire (il suo affresco per
l’Opera Nazionale Balilla a Roma era stato censurato e ora viene riportato alla
luce e dalle macerie del suo studio bombardato riemergono i suoi lavori degli
anni Trenta). Insomma ritorna a Roma come Ulisse e come Polifemo allo stesso
tempo. È un outsider in quanto ebreo e in quanto gay. E il fatto che abbia
combattuto la guerra con l’esercito americano non gli viene perdonato. Insomma
non c’è da stupirsi che la sua prima mostra del dopoguerra finisca a cazzotti.![]() |
Il ritorno di Ulisse, 1946, disegno a olio su carta intelata, cm 47 × 60 |
![]() |
Polifemo, 1946, inchiostro su carta, cm 32 × 23 |
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