sabato 23 marzo 2013

Maddalena Bertolini è "una", nessuna, poi centomila. Un libro di poesia che è come un diedro di montagna

Quando due pareti di roccia si incontrano, in quella loro geometria portentosa e variabile, talvolta friabile, formano un angolo che assume svariate ampiezze, e così creano ombre, temperature differenti, restituzioni nivali e vegetali inedite: se notate questo, se vi siete arrampicati attraversando una simile geometria, allora siete arrampicati in quello che in gergo alpinistico si definisce "diedro", il quale, come nella geometria che si studia a scuola legata ai piani e a una retta, può essere aperto o chiuso a seconda dell'angolo che genera. Un libro potrebbe essere un oggetto utile a esemplificarlo e un libro aperto è un diedro dove potete arrampicarvi, facendo attenzione a non cadere (la caduta, tema caro all’autrice di questo libro, ricorrente, anche se non potrò citare troppe poesie). Scelgo quest'immagine per introdurre alla lettura di una di Maddalena Bertolini, e non soltanto perché sei, la sezione più corposa del libro, è quanto di più bello abbia letto in poesia sulla montagna negli ultimi anni. Da dove scrive Maddalena Bertolini? Da un paese del Trentino, che lei descrive così:

al mio paese le mucche hanno una
stalla sotto al prato del castello
alla sera in una luce di latte
polveroso e fieno le intravedi
mugugnare prima di dormire appese sopra
i loro musi ardono le torri medievali
pendono le mungitrici elettriche
noi ci portiamo sempre i bambini
d’inverno la neve tiene bene sull’erba
in discesa ben tosata chi con le slitte
legnose chi sulle plastiche infiammate

Ho scelto questa poesia perché mi pare introduca bene e sgomberi il campo da facili catalogazioni e invenzioni di tradizioni: non c’è facile nostalgia qui, agli animali vengono donati verbi umani, le torri medievali stanno assieme col ronzio delle mungitrici elettriche, le slitte in legno con quelle (probabilmente rosse) in plastica, l’uso parco delle virgole e la scelta del verso, unito alla scansione ritmica della parola (in altri posti anche l’uso innovativo delle rime) divengono la scansione ritmica principale, la vera intonazione, certe inversioni fanno davvero differenza come quella bellissima tra “in discesa” e “ben tosata” (o tra “sull’erba” e “in discesa”, dipende da come la vedete voi qui). Si noti poi il “latte polveroso”, assai lontano da “il latte in polvere”, i giochi d’accento preziosi e semplici su parole sdrucciole come “àrdono/pèndono”.

Domeniche, pioggia, figli, il fiume Brenta, montagne, lago, lavatrici, mungitrici, stazioni, animali, immigrazioni, mani: confesso che la poesia di Maddalena Bertolini mi ha rapito ed era da tanto che non mi accadeva. Non che sia importante che io affermi queste cose, ma voglio dirvi com'è andata, mettervi in guardia, perché è giusto che sia così, è bene che io incominci così per avvertire chi andrà fino in fondo di questo mio breve scritto, che poi è un semplice elogio, visto che non saprei far altro, in questo specifico caso. Quante volte aprite un libro di poesia contemporanea, leggete un paio di poesie e desistite, perché il cadere della poesia, dell'accento, della parola è un cadere brutto, flaccido? Credo capiti a molti tra quelli che si impegnano nel gesto (impopolare?) di afferrare un libro di poesia, magari di un autore sconosciuto, e nella maggior parte dei casi riporlo a scaffale. Con questo libro è successo il contrario: ho letto una poesia, poi un'altra e quindi mi sono fermato. Così piacevole è stata la sorpresa che volevo credere che anche con gli altri testi sarebbe successo qualcosa di simile. E anziché chiedere a Matteo Fantuzzi di Ladolfi Editore di spedirmi una copia, l'ho banalmente acquistato, con qualche imbarazzo della libraia al momento di puntamento della pistola che legge l'ISBN (hanno dovuto digitare il codice a mano per poterlo scaricare dalle giacenze: l'editoria, sapete, è una questione di logistica, di parabole che finiscono al macero). Una sbirciata alla nota biografica, giusto il tempo di trovare quel bel tacere sull'anno di nascita (di solito onnipresente, e tuttavia diligentemente camuffato all'interno di una poesia dedicata al figlio: “i pantaloni lenti e il ciuffo anni ’60 / (quando sono nata) […]”) e soprattutto lo spazio in testa per registrare il luogo in cui Bertolini vive: Pergine Valsugana. Non che la Valsugana sia una delle più acclamate valli di quella regione, a detta dei più che magari si riempiono la bocca di nomi di valli altoatesine (sudtirolesi?), ma a me quella valle ha sempre mostrato qualcosa, forse per la strada statale che vi passa, magari per lo spot in rima della polenta che occupava tanti miei risvegli radiofonici da piccolo (assieme ad una marca di burro) e di sicuro per le montagne che vi penso affianco, a destra e a sinistra andando, a sinistra e a destra ritornando verso casa. E comunque, sempre col desiderio di non imbrogliare il lettore, vorrei aggiungere che Maddalena Bertolini non è affatto sconosciuta: ha all'attivo libri di poesia e narrativa con editori noti, Franco Loi si è occupato della sua poesia scrivendo, per Le mani delle parole, che il suo è "un parlare che è fatto di sé e dell'altro, che trascina con sé, quasi senza che il dicente se ne accorga, memorie, fiati altrui, essenze dissepolte, sapori del corpo e dell'anima, echi cosmici, influssi lontani e oscuri. "Ho imparato a essere due" dichiara all'inizio di altri versi, e c'è tutto, la copula, la gravidanza, la nascita e persino l'imparare a camminare "con due cuori", e io direi con tanti cuori.". Soltanto che a me, nella presuntuosa e castigata convinzione di essere abbastanza aggiornato sulle cose di poesia che accadono in Italia, il suo nome giungeva nuovo. Tutto qui. E le parole di Loi, scoperte dopo, si rivelano utili anche per questo recente una, che solo in apparenza contraddice quel verso ("Ho imparato a essere due") scelto da Loi.

una
, il libro pubblicato da Giuliano Ladolfi Editore a dicembre 2012 (pp. 78, euro 10, prefazione di Sarah Tardino) ha già avuto modo di farsi apprezzare vincendo il Premio InediTO 2012. A lettura ultimata sono andato a scorrere l'indice (gli indici dei libri di poesia sanno essere poesie a loro volta). Le sezioni si intitolano "una" poi “due”, quindi “quattro” e “sei” per finire con “sono”: bello, piena quest'architettura saltellante tra articoli, numeri, verbi-numeri, oppure verbi invariabili dall'io al "loro", come per la sezione conclusiva. Forte è la tentazione di citare molti testi per intero, e pure quella di procedere ad una quasi catalogazione delle scelte lessicali e di verso compiute dall'autrice. Provo a citare almeno alcune soluzioni e, con esse, anche alcuni testi. Partirei da tutto ciò che è ritmo e dalla rima, letteralmente battuta palmo a palmo dall'autrice, in geometrie variabilissime e inedite: rima facile, difficile, rara, piana, raramente tronca, sdrucciola, baciata, al mezzo, fratta da enjambement. La sua poesia risponde "per le rime" alla realtà che accoglie. Ho pensato per un istante alla professione dell'autrice, ostetrica, e mi è parso di scorgere pure una rima di valore anatomico, quel qualcosa che immette in una cavità anatomica ma anche dalla quale il mondo (o la voce) ha origine (come nel celeberrimo quadro di Courbet), una scena che l'autrice vivrà quotidianamente. Il pensiero si è rafforzato in bambini, dove chiude con "La paura di sporgermi oltre le gambe / del parto e vederlo, il momento preciso / del viso di un uomo" (qui davvero pregna la rima "preciso-viso").

Parlavo di rima e ritmo. In Brenta, ad esempio, c'è un effetto rallenty che trovo inedito, dato dalla configurazione regolare dei distici e dall'ipermetro di quinta posizione, nonché dall'uso efficace del superlativo al terzo verso che poi si conclude con le "ossa" del successivo: "dolce alba sguscia le montagne / le paure di nevi e mari sciolti  // luce lenta bianchissime / ossa di roccia // scivola lo sguardo del sole - riprendimi / sull'orlo dell'ombra // hai fatto l'istante / perché mi raggiunga". Notevole inoltre, a mio avviso, il verbo "sgusciare" in apertura, che rimanda al calcare d'uovo e si stringe, prensile, al calcare osseo della roccia, prima della scivolata del sole e di quel finale che ferma tutto, in un verso che scivola bene fuori dal buio, nel silenzio d'alba, una variante moderna dell'alba dalle dita rosate che possiamo trovare in Omero o in Saffo. Altrove Maddalena Bertolini risponde quasi (inconsciamente?) a chi si lamenta dell’assenza di monosillabi a disposizione dei poeti italiani (di solito sono ragionamenti che arrivano da chi frequenta lingue anglosassoni) e incomincia un testo con “so che tu sei chi mi sta / davanti e non lo sei.”

Una delle poesie che mi sono segnato è fuori sede, sin dalla prima lettura (la rilettura poi crea nuovi circuiti, in un gioco di livelli e piani, appoggi, proprio come la montagna). Ritorna la pioggia, l'alba (stavolta scesa alle caviglie), la rima "luce-seduce", la tautologia centrale su luce-buio e infine quella visione di pensilina, in una stazione, immobile per definizione, che invece vola via con un piccione, in quell'inversione ottica che dev'essere stata la scena che l’ha generata:

tu parti e piove: usciamo presto
con l'alba alle caviglie in questo odore
di cuore calpestato. Io guido e tu hai
addosso la barba e la tenerezza del sonno
la luce finge di non vederlo e ti
seduce. È facile per lei amarti solo perché
al buio non esiste. Tu parti, il treno
si allontana e il temporale si avvicina
la pensilina è una pista d'aereo
la stazione è già volata via come un piccione
a cui ho dato un panino e un bacio

Un’altra poesia, intitolata come il lago, Erdemolo, introduce al paesaggio di Maddalena Bertolini, nel quale l'uomo, con le forme della roccia e dell'acqua, compare quasi sempre (una situazione ravvisabile in più testi), in un passo-paesaggio che ha echi montaliani (il lago, il ghiaccio, un pesce come il resistente salmerino) eppure privo di evidenti montalismi:

il sentiero si asciuga appeso
alle cime del lago. Giugno ha ritirato
le lenzuola della neve, si scoprono
i denti del porfido i suoi morsi
rimasti nel prato e le risate del ghiaccio
dentro l'acqua. Ora sono salvata
qui sono caduta, scivolata nel canalino
come un salmerino presa all'amo
della misericordia, viva vedi
ancora mi dibatto

Nei suoi testi sono felici le incursioni dei mesi, coi loro nomi. Succede anche nell’attacco di una poesia che dice: “è semplice settembre viene / come l’altro lato dell’esistere / le sere sempre più vicine le notti / fredde le finestre chiuse. […]”. Mi fermo. Resisto alla tentazione di riportare troppi testi. Care lettrici e cari lettori di queste righe, credo sia questa una poesia meritevole di tutta la vostra educata attenzione. Educata, sì, come voleva Simone Weil, la quale definiva con efficacia e brevità disarmante una parola sempre più difficile e talvolta fastidiosa, cultura, come "educazione dell'attenzione". Stavolta non c'entrano ormai sfibrate linee lombarde o la scalcinata cerchia romana, pensate piuttosto a un diedro di montagna, alle rime e alabarde di questi ritmi suonati da Pergine Valsugana.

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Si va verso Pasqua, tema poetico, meteorologico-astronomico importante, fosse anche soltanto per Zanzotto. Allora qui l'ultima, davvero, per salutare.


pasqua al vento

senti il paese sbattuto dal vento com'è
contento: i muri si gonfiano, i camini si ergono
le tegole rizzano il pelo e si sgolano
dimmi se non viene voglia di ridere
con tutti i capelli e i cappotti adesso
che l'annuncio è così limpido che
il sole è netto e alto che tutto
il tuo desiderio piantato nel petto
è arieggiato asciugato con le radici
così forti così felici di esserci



3 commenti:

  1. oh, Alberto
    dammi un pizzico e fammi un po' di male perpiacere perpiacere; che sono vere veramente le tue parole e ci ho messo dentro apposta tutto quello che hai trovato... e adesso è tuo: la poesia è di chi la trova.
    riconoscente/riconosciuta, Maddalena

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  2. ...riconoscenti riconosciuti allora! Grazie

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