domenica 28 aprile 2013

Giuseppe Berto e i suoi colloqui col cane Cocai

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #15

Durante gli anni dell'università, a Padova, frequentavo spesso una libreria di remainders. Non sono sicuro sul nome (Compralibro, mi pare) e non so nemmeno se ci sia ancora. Allora andavo in treno a Padova e ci passavo sempre davanti mentre ora, che a Padova ci torno di rado e per lo più con l'auto, questa libreria posta all'incrocio tra Corso del Popolo e Via Trieste, con il Piovego di fronte, resta fuori dai miei giri. Ricordo però una commessa tanto gentile (d'accordo, ero un discreto cliente e pure discreto, nell'altro senso) quanto graziosamente timida e poi il gran assortimento di volumi interessanti a metà prezzo. Tra tutti riaffiorano alla superficie della memoria molti Scheiwiller di poesia (del marchio All'insegna del pesce d'oro), tanta letteratura italiana e universale della Marsilio e persino un'ottima scelta di volumi del Politecnico Einaudi (quelli con il quadrato rosso in copertina, dove il mio indimenticato professore Silvio Lanaro aveva pubblicato L'Italia nuova: identità e sviluppo 1861-1988). Più volte mi capitò in mano il libro di Berto di cui vorrei parlare oggi, ma non so perché alla fine non lo acquistai mai. Qualche giorno fa l'ho preso in biblioteca. Perché vi racconto tutta questa storia? Perché credo che la fisicità del parallelepipedo-libro, in questa mia storiella, abbia un senso. Vedete, non credo sia tanto il fantomatico profumo della carta (a volte mi pare che ci siamo scoperti tutti, dalla sera al mattino, copulanti con carte profumate e forse esageriamo!) a venire a mancare con un'ipotetica affermazione del libro digitale, bensì questa insistenza, ricorrenza o "ingombro fisico", spaziale e mentale, più difficilmente deperibile rispetto al digitale, che il libro-parallelepipedo occupa nella nostra vita e nella nostra memoria e di cui l'odore della carta, tra l'altro assai variabile nel tempo, è soltanto uno degli aspetti considerabili e, almeno per me, il meno rilevante. Prima di addentrarmi nel libro che per tanti anni ho ignorato e ora degnato d'attenzione, preciso che non è per una semplice ragione di vicinanza geografica che mi soffermo oggi su Giuseppe Berto, nato a Mogliano Veneto nel 1914 e morto a Roma il primo novembre 1978. Al di là dei più noti Il cielo è rosso e Il male oscuro, o del profetico (posso usare questo aggettivo con ostentata sicurezza e senza virgolette?) Modesta proposta per prevenire, c'è davvero un nugolo di opere, a torto reputate minori, che andrebbero riscoperte, riproposte, riaccolte dentro i dibattiti. In realtà molte sono ancora disponibili, altre no, altre sono state rese disponibili da poco, come gli scritti giornalistici del periodo 1962-1971, radunati in volume col titolo di Soprappensieri da Nino Aragno, editore che costituisce una delle più belle realtà dell'Italia attuale (pensate, solo per fare un esempio, alle Prose critiche di Caproni, opera coraggiosa e gigante recentemente pubblicata da quest'editore torinese). Proprio nel periodo di questi citati scritti giornalistici si colloca anche la scrittura confluita nel libro Colloqui col cane (Marsilio, 1986, pp. 168, Lire 12.000, io l'ho trovato in biblioteca e credo che in commercio non si trovi facilmente), che altro non è che una raccolta di interventi apparsi su "Il Resto del Carlino" dall'ottobre 1968 al luglio del 1969.

Il lettore bravo a collocare gli eventi salienti di un secolo non mancherà di notare che questi scritti prendono vita nel frangente affacciato sul maggio parigino e sui carri armati nella Primavera di Praga, fatti che ebbero una portata di ripensamento fuori dall'ordinario. E così anche questi scritti sembrano vivere in questa dimensione del ripensamento. Nella sua nota alla fine del libro Cesare De Michelis scrive: "Colloqui col cane è un libro tenero e disperato, dolce e severo: un atto di accusa contro il passato e contro il presente lucido e coerente fino alle conseguenze più estreme, è il racconto del destino di una generazione senza pace che si agita inquieta da più di trent'anni. Non è facile trovare una testimonianza più limpida e amara di una sconfitta epocale che ha investito tutt'intera una cultura e una vita".

Eh già... verrebbe da finir qui, perché il libro è in fondo anche questo, sta anche in queste parole. Ma diciamo un po' meglio che cos'è. Il volume raccoglie gli interventi concepiti in forma dialogica con il cocker spaniel Cocai che si situano su una rupe isolata della Calabria, a Capo Vaticano, in una regione che tra l'altro ritorna persino nel titolo di Intorno alla Calabria, libretto che Berto pubblicò a proprie spese poco prima di morire. Le inquietudini che hanno mosso la generazione di Berto (e pure la successiva) le potete trovare qui, full optionals, e questo libello m'appare oggi quasi come un'epitome di queste, se non fosse che non c'è nulla di strettamente didattico in questi scritti di occasione che si sollevano stanchi dalle lacerazioni della fine di tutte le ideologie, rivisitate in tranquillity fronteggiando il mare della Calabria.

Berto e Cocai
Giuseppe Berto è tuttora e probabilmente rimarrà a lungo una figura troppo spigolosa del nostro panorama. Un atipico troppo nervoso, invischiato con tutti i punti caldi del secolo scorso. Eppure ha ragione De Michelis, e non possiamo che convenire con la struggente bellezza di queste pagine di prosa giornalistica dove trovano posto alcune delle grandi inquietudini del Novecento italiano e non solo, esitazioni del pensiero che per forza di cose ci trasciniamo anche nell'oggi. Forse, neanche tanto tardi, arriveranno a dedicare un Meridiano a Berto, ma in fondo non ce ne frega poi moltissimo. Lo dico solo perché Berto è uno di quegli autori che andrebbero ripresi a prescindere e prima di un'opera di peso come un Meridiano. Negli atti di un convegno a lui dedicato, c'è un intervento di Andrea Zanzotto (che miniera critica fu Zanzotto, da riscoprire passo dopo passo!) che, dopo aver fatto piazza pulita da vulgate che lo volevano troppo "appiccicato alla destra", lo dipinge afflitto da un senso di colpa, fiaccato da una sorta di facchinaggio della penna, divaricato tra un'idea alta della letteratura che egli possedeva e altre forme "minori" che praticò per necessità economica. Uno dei crucci di Berto fu, secondo Zanzotto, il dover ricorrere spesso alla scrittura come mezzo di sussistenza, a differenza di altri scrittori che avevano accettato la professione dell'insegnamento (come Zanzotto stesso) e che grazie a questa riuscirono a svincolarsi dalla necessità della scrittura come mezzo di sostentamento, pur trovando come contraltare la realtà di una professione avvolta spesso da grigia routine. Zanzotto vide addirittura nel rifiuto dell'insegnamento di Berto il suo "errore fondamentale". Un carattere spigoloso e nervoso come quello di Berto, in contrasto anche coi circoli radical-chic della capitale dove morì, ha convissuto persino - ricorda Zanzotto - con un inspiegabile senso di colpa di mancanza di cultura. Berto non ne era privo, e anzi aveva provato ad affrontare a viso aperto il labirinto della sua epoca, spanciando sul muro d'acqua dei temi della psicanalisi nelle opere più note e fortunate. Libri come questo Colloqui col cane, a torto considerati minori, sono a mio avviso tra le possibili fondazioni per ricostruire l'edificio della vicenda intellettuale e morale del nostro paese, le sue aporie, le sue inaggirabili asprezze e vanno a costituire un passaggio obbligato dell'oggi, se davvero vogliamo provare ad uscire dalle discussioni che ammorbano il dibattito pubblico, spesso fomentato da quisquilie che assurgono agli onori di una cronaca impressionistica, tanta è la confusione che fa tra i suoi colori.

Per concludere, lascio ancora una volta la parola al Zanzotto critico e a un passo del già citato intervento (contenuto in Aure e disincanti del Novencento letterario), il quale sembra rivestire bene anche la volumetria di questo libro-parallepipedo, ormai introvabile e, come ho provato a dimostrare, soltanto in apparenza minore:

"Una grave crisi travaglia non solo le ideologie, ma anche le religioni che spesso reagiscono assumendo tratti di carattere implosivo e regressivo. Ed è sempre attuale la battuta di Woody Allen: «Dio è morto, Marx è morto, ed anch'io comincio a non sentirmi troppo bene». Grande è l'urgenza di superare questa stretta, con nuove sintesi. E urge affrontare il problema delle sempre più obsolescenti strutturazioni del pensiero, ma anche del nichilismo che è diventato ormai chiacchiera da salotto, nel guazzabuglio culturale che impera oggi; mentre dalla mattina alla sera ogni novità si dissolve. Ogni sforzo per superare, anche attraverso una ripresa del sentimento religioso, il nichilismo depressivo, è degno di rispetto. E in questo senso Berto se lo merita pienamente. Frattanto, nell'attuale regno del consumo che consuma tutto, è anche sperabile che esso abbia a consumare persino il demonio del nichilismo...".

3 commenti:

  1. Che bello il passo di Zanzotto!

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  2. Io ho provato con i due romanzi più noti, ma niente... mi son fermato... non riuscivo ad andare avanti!!

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