Il 26
gennaio 1924 Paul Klee ha detto permettetemi
di ricorrere a un paragone, il paragone con l’albero. In questo mondo
proteiforme, l’artista si è dato da fare e, ammettiamolo, almeno in parte ci si
è, alla chetichella, raccapezzato. È così bene orientato da poter imporre un
ordine alla fuga delle parvenze e delle esperienze. Quest’orientamento nelle
cose della natura e della vita, questo complesso, ramificato assetto, mi sia
concesso di paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all’artista
i succhi, che ne penetrano la persona e l’occhio. L’artista si trova dunque
nella condizione del tronco. Incalzato e commosso dalla possanza di quel
fluire, egli trasmette nell’opera ciò che ha visto. E come la chioma
dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così
avviene con l’opera. Nessuno vorrà certo pretendere che l’albero formi la sua
chioma sul modello della radice. […] Ma
appunto all’artista a volte si vogliono interdire queste deviazioni dal
modello, rese necessarie dai mezzi figurativi stessi. Presi dalla foga, si è
giunti persino a incolparlo di impotenza e premeditata falsificazione.1
Scipione,
stando a quanto ci dice Amelia Rosselli2,
scrisse i suoi versi tra il 1928 e il
1930. Dunque in questo segmento dovrebbe collocarsi la poesia Coro d’estate:
Un
uomo nudo cammina:
è
bianco come un albero senza corteccia
Io
sono la voce dell’albero che cade,
la
mia corteccia sarà accarezzata
quando
si vedrà che dentro sono bianco.
Le
mie radici sono d’avorio e sono
nascoste
– la terra fine le ricopre.
Il
mio corpo è rotondo,
l’aria
sola mi toccava.
Gli
uccelli hanno nidificato nei miei rami,
i
loro occhi vedevano tutte le mie braccia,
le
foglie li nascondevano.
[…]
Scipione3 introduce una
vegetalizzazione del proprio corpo anche nelle lettere private, e in
particolare in quelli che si riveleranno essere gli ultimi mesi della sua vita:
in una lettera
a un Reverendo, del 17 giugno 1933, scrive: Lei
mi credeva passato a… miglior vita. Invece Scipione ha la pelle durissima, è un
tronco tenace e abbarbicato alla terra, ma i suoi rami tendono al cielo, come
quelli di tutti gli alberi; in una lettera di qualche mese successiva (8
ottobre 1933), indirizzata a Enrico Falqui, si legge: sono un albero duro da abbattere, benché sia vuoto come certi ulivi;
ancora però non ho la durezza dell’ulivo. Tutte le mie fibre devono stringersi
e saldarsi per andare solo in una direzione. Le dieci poesie pervenuteci
presentano ricorrenze tematiche e linguistiche significative, che rasentano
nevrosi stilistica. La scrittura mantiene costantemente una temperatura
elevatissima, e di fatto si sviluppa a partire da due nuclei insieme dolorosi e
produttivi: il dissidio interiore e la malattia. In un’altra lettera a un
Reverendo, stavolta senza data, Scipione scrive: non ho rispettato alcuna cosa ed ero dominato dalla lussuria infame.
Dentro il mio corpo c’era questa bestia immonda che si ravvoltolava nelle mie
membra, che pure una volta erano solo di Dio. La mia fantasia diventò del tutto
corrotta e servì a farmi precipitare in una abiettitudine morale tremenda. Ero
un invasato, sfatto dal male e male stesso. Finché non mi raggiunse finalmente
il male fisico, e io ricaddi ammalato. Analogamente, Agostino di Ippona ha
scritto che mi
comandi certamente di astenermi dai desideri della carne e dai desideri degli
occhi e dall’ambizione del mondo. […] Sopravvivono però nella mia memoria, di cui
ho parlato a lungo, le immagini di questi diletti, che vi ha impresso la
consuetudine. Vi scorrazzano fievoli mentre sono desto; però durante il sonno
non solo suscitano piaceri, ma addirittura consenso e qualcosa di molto simile
all’atto stesso. L’illusione di questa immagine nella mia anima è cosi potente
sulla mia carne, che false visioni m’inducono nel sonno ad atti, cui non m’induce
la realtà nella veglia4. In Scipione, il ritmo purezza-peccato
si configura come circadiano; così si presenta la mattina in una lettera a
Libero De Libero, (spedita da Collepardo, il 22 agosto 1930): Dio! Come è bella questa vita libera. Il mio
sangue torna chiaro e mi sveglio al mattino col senso di felicità che non
conoscevo, e così l’imbrunire, prima nella
poesia Estate: […] Le stelle cadono accese/per bruciare il
mondo,/ ma nessuno tende le mani per abbracciarle/ e si smorzano, tuffandosi
nel buio./ La carne cerca nelle carni le sorgenti/ e trova gli occhi/ che si
schiudono come fiori5, e poi nella poesia Il giorno è andato lontano: Il giorno è andato lontano/ e io mi sento un
uomo di grande statura./ Non c’è ombra attorno al mio corpo6./ Io
vedo i monti, io sento il fiume./ I colori si sono spenti,/ le radici degli
alberi frugano la terra./ Nel mondo opaco i desideri prendono corpo. E tanto
1. Estate, quanto 2. Il giorno è andato lontano, si
concludono con una invocazione: 1. Cristo
dalle da bere,/ ché vuol peccare/ e farsi perdonare, e 2. Dio, poni il tuo braccio sopra la mia testa/
e fa’ che io veda il giorno di domani7
– 7bis. Poi c’è la malattia. Nelle lettere, Scipione riduce la
tubercolosi che lo affligge a ciò che non gli permette lavorare, e la tratta
con lucido pragmatismo; in una lettera a Marino Mazzacurati del 15 gennaio
1933, scrive: forse farò un’operazione al
torace per colare della paraffina nella grande lesione che mi si è formata in
un polmone. È roba di alta chirurgia, ma a Milano c’è uno specialista che opera
con successo e voglio tentare. Mi sembra tanto che io abbia tutto da guadagnare
e niente da perdere. Se devo vivere, voglio vivere per lavorare; ma solamente
per trascinarmi curandomi e per rimanere in vita, non mi sembra una cosa buona8. Questo oscillare tra
svuotamento e torsione, si risolve ad esempio nella poesia Solstizio:
Mise le mani per terra ed era simile
ad una bestia.
La terra ha tutti i nascondigli,
gli scarabei ronzano nell’aria.
La testa alla radice dei capelli brucia,
le spalle si aprono, le viscere si commuovono.
Non ci sono voci:
la terra s’alza, il ventre suona vuoto,
i seni s’allungano, precipitano verso terra,
le dita ritorte dei piedi,
i ginocchi, le dita delle mani toccano la terra.
Il sole si è fermato
lungo le reni. Corre un vento pieno di polline.
Roberto Bolaño ha scritto che scrivere della
malattia, specialmente se si è gravemente malati, può essere una tortura.
Scrivere della malattia se si è non solo gravemente malati ma anche
ipocondriaci, è un atto di masochismo o di disperazione. Ma può anche essere un
atto liberatorio. È allettante – lo so che è una tentazione malvagia – ma
tuttavia è allettante esercitare la tirannia del male per qualche minuto, come
quelle vecchiette minute che si incontrano nelle sale di attesa dell’ospedale,
che si lanciano nella spiegazione degli aspetti clinici o medici o
farmacologici della loro vita, invece di spiegare gli aspetti politici o
sessuali o legati al lavoro. Vecchiette minute che danno l’impressione di
trascendere il bene e il male9 – 9bis.
Cercando di trovare una sintesi iconografica, l’attitudine insieme creaturale10 e apocalittica delle
poesie di Scipione determina una topografia a imbuto rovesciato (in presenza di
una forza di gravità che spinge verso l’altro), dove la conquista della salvezza
– e della bellezza – passa per l’espiazione delle colpe, con tutto il dolore che
il passaggio da un regno ad un altro può comportare. I segnali giungono per via
uditiva11: Sento gli strilli degli angioli/ che vogliono
la mia salvezza (Sento gli strilli
degli angioli), oppure il canto scava
la sua forma nell’aria/ ma il cielo è in attesa/ dei gridi che lo squarciano
(Nessuno t’aspetta), o attraverso la
trascrizione di allucinazioni coloristiche: la
via bianca era come una benda/ sui miei occhi./ Udii rumore di verde vicino:/
apparve un cavallo nero/ guardò intorno e scese lentamente/ immergendosi nel
bianco/ poi nitrì/ e il suo grido scese come un brivido sulla montagna./ Stette
immobile a subirne l’eco/ e fuggì via.
(Andavo ad appostarmi…). Giuliano
Santoro ha scritto che lo zombie mette in
discussione una delle leggi di natura fondamentali: la morte. Mettere a
verifica il dogma della presunta immodificabilità della “natura” e le sue
presunte “regole” è un ottimo modo per assumere un punto di vista radicale su
tutto ciò che ci circonda. Il concetto “natura” come oggetto da tutelare invece
che come costruzione discorsiva e materiale che si modifica continuamente
assieme all’uomo è tipico, ad esempio delle ideologie razziste o delle pratiche
sessiste. […] Il non-morto incrocia la figura del migrante, di colui cioè che muore nella società tradizionale da cui proviene per approdare all’altro mondo12. Così
Scipione ha scritto che tutto si restringe
in modo implacabile intorno a me, ma io non sarò schiacciato. Perché avere
terrore o paura di questo? E poi ancora non è il caso di parlarne, ché durerà
ancora forse uno o due anni, se va bene. E due anni sono lunghi come due
secoli, sono otto stagioni! Ancora due primavere! Due estati. C’è ancora tempo
di lavorare, di ridere, di giocare e di dormire13.
Note
1 Visione e orientamento
nell’ambito dei mezzi figurativi e loro assetto spaziale, in Confessione creatrice e altri
scritti, Abscondita, 2004
2 Tutti
i riferimenti a poesie e a pagine di diario sono estratti da Scipione, Carte segrete (Einaudi, 1982)
3
Scipione e non Gino Bonichi, come si legge nella firma delle lettere
4
Agostino di Ippona, Le Confessioni,
X, 10, 41
5
In una pagina del diario, datata 14 marzo 1932, si legge: però in quell’ora che accade il fenomeno dell’abbandono del
sole tutti gli esseri vivono per poco intensamente. Gli uccelli si dimenano
cantano e gridano. All’uomo si accelera, sale la temperature e quindi la
circolazione del sangue. La sua mente è lucida. I fiori addirittura si muovono
per chiudersi. C’è tutto un guizzo, un rimescolio, poi tutto si acqueta e fa
economia
6 In
merito al verso Non c’è ombra attorno al
mio corpo: una ipotesi che sento di suggerire, al di là della più evidente
ragione per la quale di notte non c’è il sole che fa proiettare le ombre, è quella
in cui il soggetto stesso corrisponde all’ombra, che giustificherebbe anche la grande statura del verso precedente; per
quanto riguarda il rapporto tra corpo-albero e corpo-ombra (e relative
proiezioni), si suggeriscono i versi riepilogativi sotto di te i semi divengono lucidi,/ gli alberi divorano la loro ombra (Nessuno t’aspetta)
7
E così conclude Agostino: in quei momenti, Signore Dio mio, non sono forse più io? Eppure sono
molto diverso da me stesso nel tempo in cui passo dalla veglia al sonno e
finché torno dal sonno alla veglia. Dov’è allora la ragione, che durante la
veglia mi fa resistere a quelle suggestioni e rimanere incrollabile all’assalto
della stessa realtà? Si rinserra con gli occhi, si assopisce con i sensi del
corpo? Ma allora da dove nasce la resistenza che spesso opponiamo anche nel
sonno, quando, memori del nostro proposito, vi rimaniamo immacolatamente fedeli
e non accordiamo l’assenso ad alcuna di tali seduzioni? In verità sono due
stati tanto diversi, che anche nel primo caso la nostra coscienza al risveglio
torna in pace, e la stessa distanza fra i due stati ci fa riconoscere che non
abbiamo compiuto noi quanto in noi si è compiuto comunque, con nostro rammarico
7bis La scansione purezza-peccato
si presenta anche nella forma sublimata della scrittura, così in Le nubi sono sospese nell’aria: […] Nell’aria c’è il fuoco,/ il tuono scoppia/ e
la folgore scrive nel cielo/ i caratteri di Dio, invece in Tutto ci abbandona…: […] ma i vizi degli altri scrivono in nero/ e
nei laghi degli occhi/ nuotano le anguille cattive
8 La degenza produce effetti
collaterali logoranti, così in una lettera a Libero De Libero, del 1 settembre
1930: ora dovrei parlarti della mia
solitudine. Anche tu conosci questa bestia: essa inaridisce il cuore, sa
scavare, come una talpa, e come essa ha il pelo morbidissimo impalpabile, ed è
del suo stesso colore, grigia
9 Roberto Bolaño, El
gaucho insufrible (Editorial Anagrama, 2003), mia la traduzione
9bis
Circa lo scrivere oppure il non scrivere del male in rapporto alla
stilizzazione, Giorgio Cosmacini, nel libro L’arte
lunga – Storia della medicina dall’antichità a oggi (Edizioni Laterza,
1997), ci fa notare: un secolo di
crisi? Ma il Trecento non è il «secolo d’oro» di Dante, del Petrarca, del
Boccaccio? Sì, ma l’Inferno reale non è
quello poetico dantesco, bensì quello in cui arde e si consuma l’Europa nel
triennio compreso fra l’autunno del 1347 e i primi mesi del 1350. La morìa che
oscura il continente e ne riduce di un terzo la popolazione è la «morte nera»
che falcia inesorabilmente le «belle membra» della musa ispiratrice del Canzoniere
petrarchesco, Laura de Sade, spentasi in
Avignone il 3 aprile 1348
10
le mani s’alzano a cercare/ per toccare
le cose create (Il giorno è andato
lontano), oppure: e tutte le cose
create vogliono toccarlo (Le nubi
sono sospese nell’aria)
11
Sul suono dell’Apocalisse, si legga Gianni Garrera, Super Apocalypsim Musica, in
Apocalisse di Giovanni, (Diabasis, 2003):quando la voce del Signore è una forza schiantante (Sal 29, 3-5) che fa
udire la sua voce (Is 30, 30): sono gli angeli della faccia a urlare, quali
veicoli clamorosi del silenzio divino. La musica angelica non è la voce di Dio,
ma Fantasma clamoroso della voce di Dio. Anche le sette trombe rientrano nei
misteri fragorosi plasmati in questo silenzio, perché sono gli spasmi degli
angeli intorno al Dio di diaspro seduto immobile nel trono. Se l’essenza di Dio
è trascendente e inattingibile, si può partecipare ed entrare in contatto
soltanto con le operazioni o energie divine, l’essenza è silenzio, perché Dio è
sine strepitu (S. Agostino, De
vera religione, LV, 110), sono le
manifestazioni che sono assordanti
12 Giuliano
Santoro, La città dei morti - Appunti per una filosofia politica degli
zombie, in L’alba degli zombie (Gargoyle Books, 2011)
13 Lettera a Enrico Falqui, del 27
gennaio 1933