domenica 7 agosto 2016

"La politica dell'impossibile" di Stig Dagerman: per non morire di vergogna

Quote #12

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Dal 1991 la casa editrice Iperborea prosegue nella proposizione delle opere dello scrittore svedese Stig Dagerman, nato nel 1923 e morto suicida all'età di 31 anni. Dopo Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte e Perché i bambini devono ubbidire? è la volta della traduzione dei saggi e contributi giornalistici usciti a Stoccolma nel 1958 col titolo Essäer och journalistik. La politica dell'impossibile (pp. 144, traduzione, cura e utile prefazione di Fulvio Ferrari, postfazione di Goffredo Fofi, euro 15) raccoglie diciassette interventi sui temi più disparati, tutti anticipati da un breve cappello introduttivo del curatore che contestualizza lo scritto e l’occasione per cui Dagerman si è pronunciato. Quello che davvero colpisce nella capacità di analisi nell’anarchico autore de Il serpente è quanto un tempo, con un’espressione un po’ scolastica e desueta, si sarebbe chiamato “spirito critico”. Che affronti i temi della poesia, il suo punto di vista sull’anarchismo, le nascenti ONU o NATO, che venga interrogato sul significato dei “classici”, sul compito della letteratura, sul mondialismo e il “movimento dei cittadini del mondo”, sul nascente dibattito Est/Ovest, Dagerman offre ai suoi lettori punti di vista mai scontati e ruminati e una chiara visione dei pericoli che corrono le democrazie europee degli oligocratici, una cultura già allora relegata all’intrattenimento, e la figura dello scrittore, che Dagerman vede inevitabilmente inserito in un qualche ruolo, ma per il quale rivendica libertà di immaginazione e lavoro in modi e toni nuovi per l’epoca. Leggendo questi testi pensavo a un’altra espressione scolastica e desueta, ovvero quella del “ruolo dello scrittore”. Potrei concludere, prima di lasciarvi all’ampio stralcio che ho scelto, che leggendo Dagerman queste espressioni desuete che talvolta potrebbero apparirci come inservibili fossili linguistici suonano un po’ meno ischeletrite, ancora vibranti in un’atmosfera di drammatica utopia.

Il brano che segue è tratto dallo scritto “Lo scrittore e la coscienza” del 1945 (mutatis mutandis notate come certe sue osservazioni sulla poesia, sulla sua popolarità e comprensione e quindi sul suo declassamento siano perfettamente mutuabili e adattabili al nostro tempo).

[…] Come chiunque altro, lo scrittore ha dovuto fare esperienza della propria dipendenza dall’arbitrio di un potere esterno e ha dovuto rendersi conto di quanto la sua libertà, al pari di quella altrui, sia condizionata. Del tutto apparente, per esempio, è la libertà di movimento, visto che ogni persona è data in prestito a se stessa per un periodo che è qualcun altro a decidere. E come risultano fragili qualsiasi riforma sociale e qualsiasi utopia in un sistema mondiale in cui la catastrofe è l’unica previsione certa! Eppure è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza – che rappresenta forse il dilemma di tutti i socialisti del mondo d’oggi – che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici, e tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna. Se in questa situazione mi si accusa dicendo «La tua poesia non è capita dal popolo, dalle masse, dagli operai, non è abbastanza sociale», io ho il diritto di rispondere che un tale ragionamento si basa su una concezione sbagliata, quella secondo cui per essere sociale la poesia deve essere «capita» da tutti. Per «capire» si intende purtroppo poterla comprendere senza alcuno sforzo del pensiero, più o meno come si comprende un annuncio o una insegna al neon. Per certi presunti rappresentanti del «popolo», la poesia deve essere l’annuncio pubblicitario del mondo nuovo, ma se il testo è abbastanza gustoso può anche parlare dei piaceri dell’estate o della pesca ai gamberi ed essere ugualmente letteratura per il «popolo». Per loro la poesia ha smesso di costituire un messaggio da essere umano a essere umano. L’hanno declassata a gioco di società. Non hanno mai capito che nasce invece da una necessità: non è un lavoro di falegnameria fatto con ritmi e rime, che possa essere praticato nei momenti liberi da rivoluzionari in pensione che non hanno mai preso sul serio la letteratura. Gridano alla reazione se si imbattono in un brano poetico che non si può imparare a memoria in cinque minuti o che non rende immediatamente accessibile il suo pensiero, ma sono loro a essere reazionari, sia perché negano il dovere dello scrittore di creare secondo la sua necessità, sia perché mettono in discussione la possibilità che la poesia riguardi l’essere umano, non in quanto gioco di società, ma come pietra di paragone della sua sincerità nei confronti della vita. […]
Mi auguro che questo ampio stralcio tratto da La politica dell'impossibile di Stig Dagerman sappia funzionare come invito alla ricerca e alla lettura del libro

1 commento:


  1. Mi pare che la facoltà anarchica della libertà assunta ed esercitata da Dagerman come intellettuale nella propria vita, affiori a tratti chiarissima negli scritti, siano essi in forma di romanzo o altro, dove tra 'libero' e 'servo arbitrio', egli sceglie sempre di sottolineare anche l'agon che inevitabilmente si pone tra i due: il loro contendersi il senso di quella libertà; di 'sfruttare' (mettere a frutto) quella caratteristica dell'umano che ci rende curiosi indagatori del mondo e di noi stessi.
    Forse è anche per questo aspetto che le sue considerazioni riescono ancora oggi a dirci qualcosa di condivisibile.

    RispondiElimina