Come nel caso dei precedenti due "Quaderni", l'undicesimo nel 2012 e il dodicesimo nel 2015, di seguito potete leggere un'intervista collettiva agli autori antologizzati in "Quaderni italiani di poesia contemporanea", pubblicazione periodica curata da Franco Buffoni e da diversi anni edita da Marcos y Marcos. Le domande rivolte agli autori di questo "Tredicesimo quaderno italiano" sono le medesime delle passate interviste apparse sulle pagine di cui poco sopra trovate i link.
Ringrazio gli autori Agostino Cornali, Claudia Crocco, Antonio Lanza, Franca Mancinelli, Daniele Orso, Stefano Pini e Jacopo Ramonda. Le prefazioni alle loro raccolte autonome sono di Antonella Anedda, Milo De Angelis, Umberto Fiori, Massimo Gezzi, Fabio Pusterla, Flavio Santi e Niccolò Scaffai.
Per quanto riguarda le presentazioni del volume, ricordo che la prossima sarà a Bergamo alla Fiera dei Librai il 15 aprile (con un'introduzione di Mario Santagostini). Si segnala già ora la presentazione del 24 maggio a Milano presso "Spazio Poesia" nella quale interverranno Franco Buffoni e Massimo Gezzi.
Agostino Cornali
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il
segno?
AC: L’idea del bene di Mario Santagostini, un libro
che ho faticato molto a procurarmi.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano
continuamente il segno?
Ho iniziato a leggere poesia quand’ero abbastanza piccolo,
ben prima di studiarla a scuola, e grazie ad alcune antologie del Novecento che
mi sono capitate per caso tra le mani. Perciò le prime letture sono quelle di
alcuni “classici” italiani del secolo scorso, Montale e Luzi in particolare.
Per quel periodo tra gli stranieri devo citare almeno Borges, Pessoa e qualcosa
di Rimbaud. Ma il più importante di tutti penso sia stato, fin dall’inizio,
Leopardi. Poi ho conosciuto Sereni, Fortini e tra i viventi Pusterla, Santagostini,
De Angelis, Magrelli. Un autore straniero che oggi leggo spesso è Charles
Simic.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua
poesia?
AC: Poiché è stata la lingua che per tanti anni ho prima
studiato e poi insegnato, sarei curioso di leggere un mio testo tradotto in
latino. Tra le lingue moderne, visto il prestigio della letteratura che in
quella lingua si è espressa, direi il francese.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il
tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale
similitudine adotteresti?
AC: Sceglierò un riferimento cinematografico: la corsa verso
il mare del ribelle Antoine Doinel nella scena finale de I quattrocento
colpi di Truffaut.
“Un tempo qui era tutto un bosco,
Gazzaniga
erano selve spaventose e scure”
recita una voce smarrita di cantore,
di custode delle ombre
che a quest'ora s’affollano nei corridoi.
“Adesso attraversiamo gallerie, sottopassaggi, tunnel
il fiume con denti d’acciaio
scava ancora il suo letto,
non trova pace
i nostri figli scendono da corriere azzurre
s’accalcano davanti
alle porte ancora chiuse
non dicono nulla, sono senza fiato
ma con gli occhi cercano qualcuno,
cercano te”
Claudia Crocco
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il
segno?
CC: Carlo Bordini, I costruttori di vulcani. È un
libro del 2010, ma per motivi personali ho avuto una sorta di blocco verso quel
libro, e l’ho letto solo da poco.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano
continuamente il segno?
CC: In prosa o in poesia? In prosa, la prima cosa seria che
ho letto è stata I malavoglia di Verga, in quarta ginnasio; la prima
cosa seria che mi ha lasciato il segno è stata Scuola di nudo di Walter
Siti, all’università; il romanzo che ha avuto più importanza per quello che poi
ho scritto nel XIII Quaderno è I detective selvaggi di Roberto Bolaño.
In poesia è più facile. Il primo libro serio, al liceo: i Canti di
Leopardi; i libri che hanno lasciato il segno, tutti all’università: gli Strumenti
umani di Vittorio Sereni, Somiglianze di Milo De Angelis e Umana
gloria di Mario Benedetti. Nel periodo in cui stavo scrivendo Il libro
dei volti, però, per me stavano diventando importanti anche le prose di
Alessandro Broggi (Avventure minime) e la raccolta The Complete Poems
di Philip Larkin; ah, e poi rileggevo per la prima volta da persona adulta I
mondi di Guido Mazzoni.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua
poesia?
CC: In inglese, perché è quella che conosco meglio.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il
tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale
similitudine adotteresti?
È come riguardare, da trentenni, le puntate di Dawsons’
Creek o di Piccoli problemi di cuore.
Ma sono anche una studiosa (il mio lavoro sulla poesia è per
me più importante di quello per il quale mi intervistate qui), dunque devo
conoscere bene la metrica. Io non ho mai avuto un buon orecchio metrico, non
sono di quelli che riconoscono endecasillabi e settenari al primo ascolto: al
contrario, a un certo punto mi è servito migliorare le mie conoscenze metriche
e farle passare da decenti e molto buone. Ci ho lavorato moltissimo, e, alla
fine di un dottorato, credo di essere in grado di prevedere cose tipo che Joey
e Pacey finiranno insieme. Ma non dureranno.
VETRINA
Il vetro rivela in fretta passando
due persone ferme una gelateria
affollata anche d’inverno soli
l’uno di fronte all’altra, per caso.
La paletta azzurra lui la avvicina
piena alle labbra di lei, la crema nelle pieghe
del rossetto sfumato. Gli sorride,
ha meno freddo, per caso incrociano gli occhi.
Non si conoscono ancora non sanno
di essere meno estranei ora in uno sguardo.
Antonio Lanza
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il
segno?
AL: Mi perdonerà, ma ne intendo citare tre: un libro ancora
inedito, ma di cui sentirete parlare Krankenhaus di Luigi Carotenuto;
uno di una delle migliori poetesse italiane, Maria Attanasio, Blu della
cancellazione; e un libro di uno dei più significativi poeti europei,
Zbigniew Herbert, L’epilogo della tempesta.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano
continuamente il segno?
AL: Le primissime letture, quelle del Liceo e dei primi anni
dell’Università, non posso che definirle superficiali, scolastiche,
disordinate, ma bulimiche. Una telefonata della poetessa calatina Maria
Attanasio, generosa di consigli e suggerimenti, cambiò le cose, e la direzione
stessa delle mie letture: Milo De Angelis, Maurizio Cucchi: mi aprì insomma
alla contemporaneità. Tema dell’addio su un autobus a Catania, tornando
a casa; e poi, curiosamente, il Sereni di Stella variabile, prima ancora
che Gli strumenti umani mi costringesse a letture continue, innamorate.
E ancora il Ripellino di Sinfonietta letto ad alta voce sotto un
cipresso a Etnapolis, i dialoghi di Nel magma di Luzi, il Larkin
metropolitano di Finestre alte, il Bertolucci arioso di Viaggio
d’inverno, il Pusterla di Argéman. E inoltre, il dialogo incessante con
i miei conterranei, i vivi e i morti: Nino De Vita di Fosse Chiti,
l’impervio e vulcanico Angelo Scandurra; il dimenticato ma robusto Fiore
Torrisi, e i classici Stefano D’Arrigo, Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi. Tra i
miei coetanei infine (anche loro, attraverso il farsi dei loro versi e la loro
presenza, “lasciano il segno”): Vincenzo Galvagno, Fernando Lena, Maria Grazia
Insinga, Pietro Russo, Patrizia Sardisco. Ma nell’educazione di un poeta non ci
sono solo gli altri poeti, così mi piacerebbe almeno citare le corpose suite e
i concept album dei Pink Floyd, che mi hanno insegnato il respiro lungo e la
progettualità dell’ispirazione.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua
poesia?
AL: In inglese.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il
tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale
similitudine adotteresti?
AL: L’annegata a cui il poeta pratica un’assistenza
respiratoria d’urgenza. E tenta di salvarla, salvandosi.
Voci dagli altoparlanti
III
E il divieto, cifra
del padre, parla a Etnapolis con voce
maschile: vietato entrare negli ascensori
con il carrello, vietato fumare,
vietato parcheggiare in un posto
riservato ai disabili.
Ma al di qua di questi
deboli steccati, la messe di auguri
di piacevole permanenza, di buoni
acquisti, di felice anno nuovo è
voce accogliente di donna perché alla donna
compete la sfera degli affetti,
i doveri di casa, le calde
mani sul viso.
Franca Mancinelli
Foto di Dino Ignani |
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il
segno?
FM: Un libro di prose scoperto qualche anno fa, che ha una
forza di irradiazione molto intesa, Autoritratto al radiatore di
Cristian Bobin (Gallimard 1997; AnimaMundi edizioni 2012). Un potente
condensato di poesia, di capacità di esporsi nudi a ciò che ogni giorno porta,
tra finestre di vuoto, raggi di luce, piccole presenze che abitano lo spazio
come fiori recisi. È un libro che affronta una perdita, celebrando la vita, i
suoi gesti quotidiani, il suo splendente mistero.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano
continuamente il segno?
FM: Sul mio corpo-tavoletta di argilla sono incise parole.
Mi piace sentirle affondare nel petto, a bocca cucita, sigillata in quel
silenzio da cui affiorano voci, scie di altre bocche. Questo accadeva nella
mia prima adolescenza, quando il mio
corpo era immerso per metà nell’acqua come quello di un anfibio. L’acqua è la
possibilità di un’altra vita nella vita di ogni giorno. Questa stessa valenza
ha per me la parola, quando puoi immergerti, sprofondare nella sua materia. È
forse impossibile riconoscerne i segni, sembra di portarli da sempre, come
un’impronta avvolta attorno a un punto invisibile. A ogni modo i miei primi
torrenti e pozze d’acqua sono stati i libri di Cesare Pavese, Fernando Pessoa,
Rainer Maria Rilke, Dostoevkij.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua
poesia?
FM: L’anno scorso, in questo stesso mese, per un progetto di
scrittura ho frequentato un reparto di pediatria dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna. Mi sono trovata a giocare
con un bambino che non sapeva ancora leggere. Quando ha visto il mio taccuino,
ha iniziato a tracciare nelle pagine bianche linee seghettate e taglienti. Io
ne leggevo ad alta voce il suono, decretandone alla fine la lingua: è
giapponese! Una linea più dolce, come dune mosse dal vento, era l’arabo. Una
linea ondulata il mare. Una linea che si avvolgeva e tornava su stessa, un
uccellino che saltella. Forse in quest’unica aperta lingua dell’infanzia mi
piacerebbe tornare, immergere la forma della mie parole, riplasmarla come in un
fango primordiale.
Amo la possibilità di sostare in questa soglia dove siamo
finalmente liberi dalla necessità di comprendere. Per questo mi piace
immergermi nel suono di lingue sconosciute, di cui non posso intuire il
significato. È la possibilità di arretrare, di defilarsi da ogni vincolo di
comunicazione, in quello spazio muto, di pura percezione, dove le parole
trascorrono sospese, nel loro mistero, come grandi nuvole.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il
tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale
similitudine adotteresti?
FM: Per i versi del mio primo libro, Mala kruna, la
metrica è stata una di quelle sottili reti metalliche che avvolgono i crinali
dei monti soggetti a frane. Conteneva e arginava la mia incertezza. Dopo avere
avvolto e riavvolto a lungo i versi in me, finivo per ricorrere a una istintiva
e alquanto approssimata verifica del conto delle sillabe, picchiettando
nell’aria con i polpastrelli, come su una tastiera invisibile. Se risultava un
endecasillabo, o anche un novenario o un settenario, finivo per affidare le
parole al foglio e riconoscerle. Questo è stato soprattutto per i primi testi.
Poi, già dalle ultime sezioni di Mala kruna, è sempre stato il ritmo,
più della metrica, che ho cercato. Il ritmo è una legge che precede ogni forma
e significato. È un cordone che ci riconnette al primo pulsare del mondo. Con Pasta
madre l’ho sentito all’interno di quella stessa lingua che ricevevo in dono
e a mia volta donavo, perché si compisse nell’altro, in uno spazio di
accoglienza e di ascolto. Con i frammenti che sono nati dopo, Tasche finte,
l’ho lasciato sciogliere oltre la fine del verso. La lingua, come un muscolo
che si era istintivamente contratto, ora mi chiedeva di distendersi.
da Pasta madre (Nino Aragno, 2013)
darò semplici baci di sutura
verserò saliva a ogni giuntura
sarò sbucciata e dolce ai denti.
Ogni mattino ti coglierò un pugno
di fiori dal selciato.
Per te avrò aghi sempreverdi
e sboccerò ogni inverno per bruciarmi.
Daniele Orso
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il
segno?
DO: Dall’interno della specie di Andrea de Alberti.
Non proprio tra gli ultimi ma sicuramente hanno lasciato il segno anche Simon
Armitage, Paul Durcan, Yari Bernasconi.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano
continuamente il segno?
DO: Domanda difficile... Del novecento italiano direi il
gruppo di Officina (Fortini e Pasolini sono ovvi, ma anche Roversi e Leonetti),
corretto in qualche modo dalla scuola milanese (Sereni l'ho amato molto, e poi
Raboni). Come tutti gli anti-novecentisti ho una sterminata ammirazione per
Caproni... Infine Giudici che sento sempre più vicino... Ma tanti altri:
D'Elia, secondo me ingiustamente un po’ trascurato, Benedetti... Tra i
dialettali, Giacomini... E non cito i maestri riconosciuti (Auden, Heaney,
Mandelstam, Brecht...). Ma l’alfabeto l’ho imparato su Saba e Montale. Come
tutti. E poi taccio per ritegno alcuni che hanno a che fare in qualche modo coi
Quaderni... Se però devo proprio dirne uno tra i primi libri di poesia letti,
direi l’antologia del ‘900 di Mengaldo.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua
poesia?
DO: In tedesco. Non lo parlo ma mi affascina. La lingua che
nel bene e nel male ha segnato il ‘900. E poi di Brecht, di Enzensberger, di
Bernhard...
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il
tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale
similitudine adotteresti?
DO: Un bel paio di scarponi. Per quanto vecchi e usurati,
sai che se vuoi affrontare le montagne, anche se possono sembrare scomodi o
pesanti, sono uno strumento che ti aiuta a superare le asperità. Puoi anche
sperimentare nuovi modi per salire le montagne, lasciar perdere qualsiasi
sentiero, o tracciarne di nuovi, ma i riferimenti sono sempre quegli scarponi e
i sentieri già segnati.
*
Tu che godi delle spighe già mature
Ricorda che per farle così gialle
C’è fatica e sudore sulla schiena
E la linfa si è seccata al calore
Dell’estate e alle ore ferme sotto
Al sole e al tremore dell’aria che bolle.
Talvolta molto scarso è il grano.
Talvolta bruciato è il raccolto.
Non puoi dire quanto saranno
I tuoi sforzi compensati. Non questo
È il punto. Non c’è merito né danno.
C’è solo un atto da fare. Fallo.
Niente bravo o applauso finale.
Fieno per le bestie, nel fienile strame.
Stefano Pini
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il
segno?
SP: La pietra di OsipMandel’stam, nell’edizione del
Saggiatore: una steppa che non lascia scampo, una scoperta tardiva ma
importante.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano
continuamente il segno?
SP: Tra le prime: Le illuminazioni di Rimbaud,
incontrate per caso quando ancora ero troppo piccolo per capirci qualcosa, e il
Leopardi scolastico, forse il primo ricordo di lettura poetica consapevole. A
lasciare continuamente il segno, sempre, sono invece Vittorio Sereni, Milo De
Angelis e Mario Benedetti.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua
poesia?
SP: Innanzitutto in inglese: per affezione, conoscenza
diretta della lingua e un certo immaginario condiviso. Poi in portoghese, di
cui mi piacciono il suono e la malcelata malinconia.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il
tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale
similitudine adotteresti?
SP: La descriverei come una marea, con il suo ritmo, le sue
noie, il suo fascino, la sua scientificità. La si può assecondare, ci si può
adattare e anche proteggere dalla marea, ma non la si può ignorare.
Treviglio, via Deledda
L’età mette ordine nei cassetti
le primavere ancora rosa, come le scale
del santuario che sta lì da secoli
e nessuno più teme, nell’orbita del paese.
Si crede in una specie, un conforto
per le ossa azzimate e il suono di un figlio,
le ore contate che fanno un padre.
Si prova qualcosa, a dire che non è la fine.
Jacopo Ramonda
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il
segno?
JR: Via provinciale di Giampiero Neri.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano
continuamente il segno?
JR: I primissimi a colpirmi, durante il liceo, sono stati
Lee Masters, Bukowski ed Eliot. Ma i poeti che hanno veramente lasciato il
segno li ho letti più tardi, quando ho deciso di mollare con la musica per
provare a scrivere seriamente (per seriamente intendo quotidianamente). Si
tratta per lo più di contemporanei: Giampiero Neri, Tiziano Rossi, Umberto
Fiori, Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Guido Mazzoni,
Alessandra Carnaroli, Francesca Genti, Raymond Carver, Russell Edson, Charles
Simic, Mark Strand, Simon Armitage, Billy Collins e altri ancora che mi
piacerebbe citare, ma direi che si tratta di un elenco già troppo lungo.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua
poesia?
JR: In inglese, la lingua di molti miei miti musicali e
letterari.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il
tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale
similitudine adotteresti?
JR: Non so se posso rispondere a questa domanda, dato che
scrivo prose brevi.
Istintivamente, mi viene in mente l'immagine di una città
lontana, lasciata alle spalle, per trasferirsi in un'altra nazione, con varie
affinità e aspetti in comune con la precedente, ma anche con regole, usi e
costumi differenti.
Una lunghissima rincorsa (cut-up n. 157)
Mentre ti aspetto seduto su una panchina, mi lascio
catturare dal modo in cui uno sciame d’api si spinge avanti, contorcendosi e
aggrovigliandosi in un intreccio di orbite ellittiche. L’avanzata del sistema è
una conseguenza delle derive dei suoi componenti, che sembrano rincorrersi tra
loro.
Nell’illusione che il numero dei passi sia proporzionale
alla distanza coperta, procediamo lungo un percorso a spirale, in cui scopriamo
quello che vogliamo dire nell’atto di dirlo, tra errori, dimostrazioni di
coraggio e ripensamenti. La capacità di coordinare i movimenti, e avanzare in
posizione eretta, è un meccanismo che pare studiato apposta per permetterci di
affrontare la lunghissima rincorsa che ci aspetta. Inseguendoci a vicenda, in
nome di una particolare forma di contorsionismo che riconosciamo come amore,
creiamo un groviglio difficilmente districabile d’interdipendenza, speranze,
aspettative disattese o mantenute, e interpretazioni equivoche simili a stelle
cadenti. Un’illusione ottica, originata da uno sciame di meteore che si
rincorrono invano lungo orbite parallele, sulla traiettoria della Terra,
finendo per esserne travolte e sgretolandosi nel contatto con l’atmosfera.
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