giovedì 4 ottobre 2018

"Fortini nell'acquario. La vita comoda del poeta scomodo". Uno scritto di Antonio Turolo


Fortini nell’acquario
La vita comoda del poeta scomodo

di Antonio Turolo


Le celebrazioni per il cinquantennio dei moti sessantottini sono state anticipate dai festeggiamenti per il centenario della nascita di Franco Fortini (1917-2017).
Accendo un mappamondo sul tavolo al mio fianco ed ecco illuminarsi una rete inaspettata di “eventi” in suo onore: da Torino a Roma, da Milano a Losanna, da Siena a Varsavia: sembra che l’Europa tutta in una festosa staffetta abbia voluto rendere omaggio all’intellettuale fiorentino.



La sala è gremita in massima parte da studenti liceali e universitari - ricevuti da giovanissimi “hostess” e “steward” tirati a lucido - i quali hanno fatto la firma per ottenere i “crediti” della conferenza, ricevendo in cambio una cartellina di plastica con dentro dei fogli e una penna che dopo qualche clic si rompe. Prendono pigramente appunti, e guardano di nascosto nei loro zainetti l’ora sugli smartphone.
Nelle prime file ascoltatori e signore più attempati seguono con attenzione, annuendo frequentemente.
Al tavolo dei relatori, uomini dai capelli grigi o bianchi si scambiano convenevoli: Non ha bisogno di presentazioni, È un piacevole dovere dare la parola, Come meglio non si potrebbe dire.
Emozionatissimi e accuratamente vestiti, due neo-laureati aspettano in disparte che venga il loro turno.
Nella stanza a fianco un nugolo zelante di camerieri finisce di allestire il buffet.


1) Fortini lo scorbutico

Tutto questo festoso scampanio di kermesse suona un po’ stonato e incongruo, riferito a chi è stato descritto concordemente, da avversari e amici, come iracondo e intrattabile.
È vero che solitamente non ci interessa il carattere di uno scrittore, ma solo la sua opera. Ma con Fortini forse è il caso di soffermarsi anche su questo punto, talmente tante sono le deposizioni in tal senso, a cominciare da Grazia Cherchi che, citando Manzoni, ebbe a dire di lui: "Che sant’uomo, ma che tormento."

Alla rinfusa:

Cesare Garboli: “Se c’è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l’oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini”;

Pier Vincenzo Mengaldo: “L’uomo come si sa era molto difficile […] attaccava sempre a destra e a sinistra, in fondo anche per farsi del male […] A me voleva bene […] ma questo non gli ha impedito di snudare la lancia contro di me più volte, a voce e per iscritto, a ragione e a torto.”

Italo Calvino: “A Franco Fortini un giorno bisognerebbe spaccare la faccia”.[1]
Franco Loi:
http://www.letteratura.rai.it/articoli/franco-loi-lirascibile-fortini/26280/default.aspx
Da parte mia, comincio col segnalare un episodio che, pur minimo, mi è sempre parso una punta di volgarità da parte di Fortini, il quale, in una lettera a Pasolini, lo esorta a lasciar perdere le svenevolezze (parola che mi disturba un po’, per il suo vago machismo), alla Gianfranco Contini:
dovrei comandarti umiltà; emigra per qualche anno in un luogo solitario e freddo, spogliati delle svenevolezze alla Contini, scrivi un libro di ricerca filologica o critica.[2]
Naturalmente, non solo come filologo e critico letterario, ma anche come scrittore, il maestro di Domodossola vale molto di più di Fortini.

Ora, che Contini scrivesse in modo prezioso è indubbio (ed esiste già una certa bibliografia al riguardo). Ma si tratta di un’oscurità che arricchisce. Al polo opposto, per capirci, di quella di un Armando Verdiglione.

Ne approfitto per una parentesi. Mi vado convincendo che alcuni scrittori e critici, cresciuti quando dominava la temperie ermetica (Carlo Bo; i frequentatori delle Giubbe Rosse, con le loro esangui liturgie), ne siano rimasti come scioccati, senza riprendersi più: Cesare Cases deprime Gadda (che non piaceva neanche a Fortini) ed esalta Primo Levi; Mengaldo pure esalta Levi e Calvino, mentre arriva a parlare, con metafora di dubbio gusto, per lo stile poeticizzante esemplificato dai Frantumi di Boine e dai Pesci rossi di Cecchi di “AIDS della prosa italiana.”[3]

Anche se tutti costoro sanno staccare in positivo (Montale) e Contini dalla koinè ermetica. Così scriveva Calvino a Pasolini nel ’56:

(Però, porcamiseria, perché scrivi così difficile? State rimettendo in voga un gusto dello scrivere difficile che non è quello sfuggente degli ermetici perché è invece sforzo di precisione, ma che ha dietro il divertimento universitario continiano di origine tedesca; però con l’allusività ermetica ha quel tanto di parentela da dargli un’aria demodé…) [4]
Così Fortini, all’indomani della scomparsa di Contini, nel febbraio del ’90, gli dedica un necrologio fortemente ammirato (Il re Mida della critica), pur ricordandolo come “il padre occulto dell’Ermetismo fiorentino”, e criticandone di sfuggita la “scrittura iperletteraria”.[5]

Forse la generazione di chi scrive, essendosi formata quando la stella ermetica e della prosa d’arte era già da tempo in declino, può guardare con meno acrimonia a quella fase stilistica.


Torniamo all’indole di Fortini, apriamo Verifica dei poteri. Un libro importante, nella produzione del Nostro.[6]

Non ho né intenzione né titoli per entrare nel merito delle tesi che vi si discutono. Ma mi impressiona un dettaglio: non ho mai visto un Indice delle cose notevoli così presuntuoso: ci sono le voci Cultura, Economia, Impegno, Letteratura, Poesia, Religione, ognuna corredata da alcune formulette riassuntive, prima del rinvio alla pagina del volume.

C’è anche il lemma Tempo:

“Il futuro non è che il presente di un altro”, 28; passaggio dalla storia alla metastoria, 131; sincronicità tendenziale del presente e del passato, 135; il Terzo Mondo è il nostro futuro, 135; simultanea realtà della durata e degli intervalli 137 […]
E avanti così.
Non metto a fuoco immediatamente cosa mi ricorda.

Ma poi il pensiero corre al catechismo cattolico di una volta.
Così le rispostine di San Pio X del 1905:
11. Che cosa ci insegna il Credo?
Il Credo c’insegna i principali articoli della nostra fede.
12. Che cosa ci insegna il Pater noster? Il pater noster c’insegna tutto quello che dobbiamo sperare da Dio. E tutto quello che dobbiamo a Lui domandare.[7]
Può bastare. Il resto lo insegnano, ai devoti di Fortini, i suoi libri, epitome definitiva della filosofia occidentale da Talete ai giorni nostri. 

Non si può negare che Fortini sia riuscito a mettere in atto, e direi incarnare la volontà dichiarata in un’arringa del 1967:
Storia ed esperienza mi hanno insegnato che si deve oggi tendere non ad unire ma a dividere. A dividere sempre più violentemente il mondo, a promuovere l’approfondita, la sola vera, la sola feconda divisione.[8]
Anche Pasolini amava “dividere”, benché alcuni suoi conoscenti riferiscano di una sua “gentilezza” o addirittura “timidezza” (Contini). Non saprei. 

Non starò qui a riassumere l’ultimo dissidio tra Fortini e Pasolini, legato ai “brutti versi” contro il Sessantotto pubblicati sull’«Espresso». Tempo dopo la morte di Pasolini, Fortini ebbe a confessare che
il dolore (oggi non mutato e neanche lavorato dal tempo) fu di non aver potuto risolvere le nostre ostilità e vincere il silenzio degli ultimi sei anni.[9] 
Fatto oggetto di più di trenta processi, a me personalmente dispiace la componente esibizionistica di Pasolini, di cui è accusato, sia pur per esserne scagionato subito dopo, dal suo scopritore e sommo nume tutelare:
Entrato con tutti gli onori nelle file della società detta “affluente” Pasolini si avvalse degli stessi strumenti di cui essa gli faceva copia per fustigarla in piena faccia. La società “affluente” sorrideva o applaudiva sotto le percosse, lieta che la sua liberalità si ornasse di un tanto eretico accarezzato, scambiandolo certo per un esibizionista compiaciuto di paradossi.Pasolini invece combatteva seriamente (benché, è da temere, con la tattica meno efficace, posto il ruolo di contraddittore che gli era ufficialmente assegnato) contro il cosiddetto consumismo e i dogmi di comportamento che esso importava.[10]
Sempre a proposito di Pasolini, trovo molto interessante – e dai contenuti del tutto condivisibili - il caustico autoritratto che Fortini, scoprendosi il fianco, serve all’amico in una lettera del gennaio del ’57:
Aggiungi che io, personalmente, non compio nemmeno quella funzione di “fotografo” degli abissi che tu, modestamente, ti attribuisci: me ne sto tranquillo nella mia casa piccolo borghese, fra amici piccolo borghesi e la realtà proletaria nord italiana (così seria e decisiva!) la vedo mediatamente, molto mediatamente, certo più mediatamente di te.[11]
E il suo interlocutore ebbe buon gioco a rivoltargli contro le stesse parole:
No, invece tu sordo, cieco, tappato in casa, con un’idea tutta ideologica degli operai e in genere del mondo, stai a fare il giudice di coloro che si spendono, e, spendendosi, sbagliano, eccome sbagliano.[12]
Sono convinto che fosse così.

Pasolini dava del “piccolo borghese” con facilità un po’ a tutti quanti, e le sue “fotografie” degli “abissi” del proletariato di Roma e poi dell’Africa non si prestavano a palingenesi marxiste. Fortini però, come tanti teorici della rivoluzione, aveva una conoscenza tutta astratta e libresca delle classi sociali subalterne che avrebbe voluto liberare.

Nel 1977 Fortini così concludeva un suo ritratto di Pasolini:
anche chi, per coerenza a una propria idea di coerenza e di rivoluzione credette di dover opporre alla disperata voracità e genialità di Pasolini una maschera di insensibilità filistea, onora quella sua fulminea parabola autodistruttiva e disprezza la prudente amministrazione di sé che è stata di tanti suoi critici.[13]
Ecco. La “prudente amministrazione di sé” che Fortini affermava di disprezzare nei critici di Pasolini (e la frecciata era rivolta in primo luogo alla “Nuova-Avanguardia invecchiata”), è una formula che meglio ancora di “piccolo borghese” secondo me si attaglia all’ultimo periodo di Franco Fortini, di cui mi occupo in questo scritto. Il giovane partigiano della Val d’Ossola, così come il fervente collaboratore del Politecnico e dell’Avanti non esistevano più.

In apparente contraddizione con il suo carattere iracondo, l’ultimo Fortini seppe scavarsi una confortevole nicchia, destreggiandosi tra editoria, accademia, e giornalismo.
Sconosciuto ai più, era (ed è) tuttavia riverito e osannato da un gruppo di devoti, che lo confortavano nell'illusione di riuscire a graffiare e mordere la realtà sociale.

Un passo avanti.

Anzi, più di uno, perché molto oltre il carattere di Fortini si spinge Edoardo Sanguineti, in un’intervista del 2003, che merita una lunga citazione:

Fortini era un uomo che non mi piaceva assolutamente. La posizione anti- avanguardia non è la sua posizione originaria. In verità un giorno Fortini viene a casa mia, quando sembrava che Einaudi – in seguito all’attenzione rivoltaci dal “Menabò” di Vittorini e Calvino già nel 1962 – volesse sposare la causa dell’Avanguardia e sostiene che avevamo ragione noi e che la nostra posizione era quella corretta. Egli faceva un discorso di puro opportunismo […] ma il suo atteggiamento opportunistico è costante! Vengo però all’accusa. Fortini era un conservatore letterario e, secondo me, anche politico: era un anticomunista viscerale, odiava il partito furibondamente e aveva costruito una sua metafisica della rivoluzione che è una faccenda tutta idealistica e conservativa […]. Fortini ha sempre difeso la forma dell’alta poesia borghese e da sottomontaliano com’era in partenza poi è restato sempre tale.[14]
A dire il vero mi sembra sleale rievocare un episodio – la visita di Fortini – a nove anni dalla sua scomparsa, a meno che Sanguineti non ne abbia parlato anche in precedenza, in un testo che non ho presente.

Ad ogni modo si sa che le liti in famiglia (qui tra marxisti), sono sempre le più laceranti. Andrà poi fatta la tara alle avverse posizioni (quelle note, almeno), dei due rispetto al “Gruppo 63” e ai Novissimi.

Ma si stenta a credere che l’opportunista descritto da un intellettuale pur sempre di rango come Sanguineti sia lo stesso Fortini cui valentissimi critici e linguisti come Mengaldo e Cases si prosternano reiteratamente.[15]



La porta in fondo alla sala ogni tanto si apre, con un fastidioso cigolio.
Sul palco le relazioni si susseguono tranquille.
Le professoresse però fanno fatica a smorzare il brusio crescente degli studenti: Domani ho verifica di Inglese Devo andare a allenamento Non voglio perdere l’ultimo autobus. E anche loro sono un po’ provate, dopo un’ora e mezza. Hanno già ascoltato: “Bontà dei cattivi maestri”, “Metrica e rivoluzione”, e ora si prende giustamente il suo tempo il laureato premiato, per la sua tesi “Splendore della figura etymologica in Guerra no, Guerriglia sì!”
Arriva un cronista di una tivù locale, con un cameraman al seguito, che inquadra la sala nel punto dove è più affollata.
L’oratore che “presiede” il convegno decreta finalmente l’intervallo.
Gli studenti non hanno più remore, ed escono, portandosi dietro i loro zainetti. Una folata di aria fredda entra dalla porta, insieme a una musichetta che pochi sanno interpretare.
Durante la pausa avviene la trasformazione dei fortinologi più astuti in dorotei. Si allontanano dai giovani premiati, per non farsi sentire, per uno scrupolo residuo, e cercando di non fare nomi si danno alla pratica della simonia: Hai insistito col nostro comune amico Se prima faccio vincere il figlio Un posto libero nei programmi del mattino.
Avranno avuto diciotto anni anche loro. Saranno stati davvero appassionati di poesia. Deludendo i familiari avranno deciso di scriverla o studiarla. Ma oggi non si direbbe. I loro occhi parlano solo di Miscellanee, Omaggi a, Carriere & Sistemazioni, Fondi da sollecitare. Le giacche sono un po’ spiegazzate, ma solo i più audaci rinunciano alla cravatta. Finisce con uno strofinio di pance, di schiene, di mani. Segno che il mercato è andato bene.


2) L’acquario di Fortini

Fortini non disdegnò nei primi anni Ottanta di collaborare con il Corriere della Sera, diretto da Alberto Cavallari[16]. Questo il commento di Cases:
Eravamo in molti, tra gli amici di Fortini, a essere perplessi quando egli iniziò la collaborazione a quel quotidiano. Eravamo tutti antichi romani […]. Ma vedere Fortini l’Uticense apporre la sua firma accanto a quella di costoro, nella speranza di soverchiarne la voce, nientemeno che sul “Corriere”, questo non poteva non preoccupare. Invece aveva ragione lui. Avvenne l’imprevedibile, molto spesso il “Corriere”spariva e restava solo Fortini.[17]
Cases adduce qualche esempio di questo imprevedibile sabotaggio. Nel primo Fortini critica la decisione dell’Alfa Romeo di aver messo in cassa integrazione dei “lavoratori sindacalmente attivi”, ma non in sintonia con gli orientamenti dei sindacati maggiori. E ha ragione, a mio parere. Solo la conclusione vira verso un’utopia retorica e discutibile:
[Il ceto operaio] esprime minoranze che […] lanciano verso l’avvenire la loro protesta [...] e nella rivendicazione dei propri diritti secondo lo stato di diritto recano in salvo, al di là della presente figura del nostro tempo, l’esigenza (e la possibilità) di un altro diritto.[18]
Un altro intervento è il “memorabile articolo” (Cases) sull’invasione statunitense di Grenada, del novembre 1983. Fortini riferisce di aver visto qualche giorno prima al telegiornale, dei militari americani che trascinavano per i piedi i corpi di soldati o civili da loro stessi uccisi. Evoca Achille e il cadavere di Ettore, Napoleone, Hitler, e – va detto a suo merito – Piazzale Loreto.

Nel finale si fa prendere la mano, e rivolge una specie di appello a tutte le donne italiane: 
Mie concittadine, una scelta vi è lasciata. Salvo imprevisti, i vostri figli o trascineranno con la faccia a terra i corpi dei propri coetanei, o a quel medesimo modo saranno trascinati. Da gente che parli la loro stessa o un’altra lingua non importa […] perché per far sopravvivere l’impero uno o dieci o cinquant’anni bisogna atterrire l’avversario e i suoi parenti, le donne che si affacciano ai casolari dell’Appennino, i ragazzi che di nottetempo possono sparare sulle sentinelle dell’occupante.[19]
Questo articolo suscitò le proteste di un gruppo di giornalisti, capitanati dal futuro direttore Piero Ostellino, “probabilmente in funzione di uno scontro professionale e politico con la direzione” secondo Fortini, tant’è vero che l’anno successivo cessò la sua collaborazione col Corriere.

Ripeto che a me sembra condivisibile il contenuto dei due “pezzi”. Tranne la tirata conclusiva riportata sopra, con quel tono esaltato da comizio, come se tutte le sue concittadine fossero in ascolto, mentre si trattava di un articoletto, pubblicato a pag. 3 nella rubrica “Commenti & Opinioni”. Trovo anche scontato l’antiamericanismo di maniera, che ricorre in certi intellettuali dell’estrema sinistra, come Dario Fo. Ma nel complesso sono d’accordo con quanto dice Fortini.

Quello che mi appare incomprensibile è l’iperbolica valutazione dell’impatto di quei suoi scritti sulla realtà italiana, da parte dei suoi estimatori. Soltanto l’amicizia e la comunanza ideologica possono aver indotto i frequentatori intimi di Fortini ad ingigantirne la portata, assecondando la mania di grandezza dell’autore. Ho detto di Cases, ma Mengaldo ancora nel 2004 si ostina a parlare di una collaborazione “rivoluzionaria, ma per questo a un certo punto bloccata, di Fortini al ‘Corriere’”[20]. 
Mentre più brutalmente bisognerebbe chiedersi: quanti si accorsero all’epoca dell’articolo su Grenada e ne discussero? E quanti in Italia si ricordano oggi dell’articolo di Fortini? Non molti, credo che si dovrebbe rispondere. 
Valeva la pena di spendere il proprio prestigio – tanto o poco che fosse – per un risultato così modesto?

Fortini si illudeva – confortato in ciò dai suoi accoliti – di incidere a fondo sulla società italiana, da posizioni marxiste. Doveva sentirsi come un novello David, che con la sua umile fionda assesta colpi micidiali al sistema del capitalismo occidentale. Ma così non era.

Quest’anno ricorre il cinquantenario del Sessantotto, dicevo all’inizio. E tutti quelli che leggono qualcosa associano i fatti di Valle Giulia ai “brutti versi” pubblicati al riguardo da Pasolini sull’«Espresso». Giusto o sbagliato che fosse, a lui, che molti considerano un gemello siamese di Fortini, toccò in sorte di essere conosciuto e discusso, ben oltre gli anni Settanta.

Mi chiedo spesso quale fu l’ultimo intellettuale italiano che riuscì con i suoi romanzi o i suoi saggi a lasciare un segno nella società italiana. Penso che, purtroppo, sia stata Oriana Fallaci. Più di Italo Calvino o di Umberto Eco. Malgrado il suo basso livello letterario, e le sue tesi francamente razziste, l’autrice della Trilogia, fu molto conosciuta e tradotta anche fuori d’Italia.
Fortini invece si muoveva come in un acquario editorial-accademico-giornalistico. Gli abitanti di un acquario per natura non sono consapevoli di viverci dentro, e scambiano il loro ambiente per la realtà storica. Così i suoi adepti si sono crogiolati, e, ne sono sicuro, continueranno a bearsi, nell’illusione che la diffusione del verbo di Fortini e la loro stessa esegesi (edizioni critiche e commentate, recensioni sulle terze pagine dei quotidiani, dibattiti a qualche festival letterario o trasmissione radiofonica), serva a modificare in positivo l’Italia, se non l’Europa e tutto il mondo occidentale. E Internet rafforza questa illusione, dando l’impressione di parlare all’intero orbe terracqueo.[21]

Esiste anche un topos utopico-profetico, che suona più o meno così: In futuro ci sarà qualcuno che raccoglierà i frutti del seme piantato, riprenderà in mano la bandiera lasciata cadere, e allora sì che… Mi permetto di rispondere che no, non ci sarà nessuno: è solo una bella fantasia autoconsolatoria.[22]

Ma andiamo avanti, e fermiamoci su un altro episodio. Cinque anni dopo l’articolo su Grenada, nel marzo del 1988, Fortini indirizza un proprio scritto ad “un gruppo di detenuti e condannati per terrorismo o partecipazione a banda armata” nel carcere di San Vittore. A proposito della violenza degli anni Settanta punta il dito contro:
un sistema ufficiale oppressivo e violento, controllato sempre più apertamente dai poteri economici, fondato anche su corruzione e furto legali o praticati con la complicità di istituzioni dello Stato sempre più infiltrate e disposte a vanificare quanto, di regime democratico e parlamentare, si lasciava sussistere.[23]
e sostiene in sostanza che i terroristi sbagliarono per ragioni politiche, e non morali. Non si trattiene dal citare Marx, Nietzsche, Freud, Sartre. E, in aggiunta, Manzoni.

Anche qui mi domando quale effetto si riproponesse di ottenere sui terroristi in carcere Fortini (dietro cui si staglia l’orrida ombra di Toni Negri). E se qualcuno di loro avesse mai letto un suo libro.

All’articolo di Fortini, e ad uno di analogo tenore di Rossana Rossanda, reagì Beniamino Placido su Repubblica con sapida ironia, criticando il “sofistico giustificazionismo” dei pensatori del Manifesto, definendoli “rivoluzionari del dopocena”, più detestabili dei terroristi stessi. 


Parole sante, per quanto mi riguarda.

Placido aggiungeva poi, incidentalmente, un dettaglio singolare, e cioè che Fortini era andato a insegnare “senza vergogna” nel Sudafrica razzista. Fortini perse le staffe e controreplicò affermando che sì, era stato in Sudafrica come visiting professor nel 1984, “per testimoniare dell’ignobile regime razzista di quel paese”, e che in quell’occasione aveva anche viaggiato da Johannesburg a Durban “per assistere a una famosa gara podistica.” Dandosi in questo modo la zappa sui piedi.[24]


Si è visto che Fortini non usava mezze misure: per lui esistevano solo amici o avversari, ed era facile essere depennati dalla lista dei primi. Sembra però che anche nei suoi confronti valesse questa polarità: da un lato c’era chi lo derideva, dall’altro chi lo venerava acriticamente, spesso suoi sodali o complici ideologici.[25] Personalmente ero un suo tiepido ammiratore, ma ora sono giunto a disprezzarne la megalomania. 

Fortini è un caso estremo in cui il narcisismo del poeta si sposa e raddoppia il narcisismo dell’estremista politico.[26] Quindi Fortini continuava a scagliare i suoi inascoltati anatemi anti-capitalistici tra una gitarella in Sudafrica e un flirt con i terroristi. Si poteva fare di peggio? Sembra difficile, ma ci riuscì Edoardo Sanguineti. L’episodio è piuttosto noto.

Gennaio 2007. Sanguineti è candidato alle primarie del centrosinistra come sindaco di Genova. In un’intervista dichiara, a proposito della rivolta cinese di piazza Tienanmen del 1989:
Quelli erano veramente dei ragazzi – poveretti – sedotti da mitologie occidentali, un poco come quelli che esultarono quando cadde il muro. Insomma erano dei ragazzi che volevano la Coca-Cola.[27]
Protestarono subito i suoi stessi sostenitori: Rifondazione comunista e PDCI, e la polemica finì per un po’ sui giornali. Un’affermazione del genere, all’interno di una patinata rivista culturale, o in un ovattato convegno letterario, sarebbe stata forse applaudita come una simpatica boutade, o uno di quei brillanti paradossi di cui tanto si compiaceva l’autore. Invece Sanguineti era uscito senza avvedersene dal suo ambiente e le sue parole furono prese per quelle che erano: una vergognosa battutaccia a favore di una sanguinaria dittatura.

Ecco la prova del nove per il nostro discorso dell’acquario. 

E non ha proprio nessuna importanza che, a seconda delle interpretazioni, egli volesse sottolineare la vulnerabilità della Cina al consumismo, o piuttosto confrontare il numero di vittime di Piazza Tienanmen con quelle di Pinochet. 
La lezione da trarre è che intellettuali famosi si trovano a commettere lo stesso grave errore dell’uomo della strada o dei peggiori politicanti: esprimere indulgenza o comprensione per i terroristi o per le dittature del loro stesso segno politico. 

3. Conclusione

Nel Vangelo di Luca è narrata la celebre parabola di un fariseo, che ritto in piedi, si rivolge a Dio, con un grande concetto di sé (mentre un pubblicano non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo). Mi sembra che l’immagine faccia al nostro caso. “Chi si esalta sarà umiliato” è la morale evangelica. Fuori di metafora, penso che la figura di Fortini andrebbe non umiliata, ma fortemente ridimensionata. Il gettare luce sulle sue anche gravi contraddizioni finirebbe col giovare alla sua comprensione, forse meglio di tante vacue e retoriche celebrazioni.



Si riprende.
Si sono fatte le cinque di sera. Fuori è già buio.
Andati via gli studenti, resistono impavide le prime file.
La porta in fondo continua ad aprirsi, finché uno degli organizzatori, spazientito, si alza dal palco e va a presidiarla. Ma senza molto successo.
La musichetta di prima si fa più forte e fastidiosa: è il ritornello pubblicitario del vicino Centro Commerciale.
Inizia a circolare la notizia di un black-bloc che avrebbe lanciato una molotov in pieno centro. Un brivido di piacere percorre i convegnisti.
Il presidente si informa su cosa sia un black-bloc, e sorride compiaciuto. Ma l’euforia dura poco: si trattava di un semplice petardo,
scoppiato tra le mani di un ragazzino.
Il vento freddo da insolente si fa furioso, con le porte ormai spalancate.
Le signore e i signori si infilano giacche e cappotti.
Il relatore è smarrito: proprio nel mezzo di Si può essere comunisti speciali?
Il suo vicino gli fa segno con le mani di tagliare, ma lui è determinato a leggere le sue pagine fino in fondo.
Dagli ascoltatori ormai in piedi parte un applauso di quelli che incitano l’oratore a farla finita.
La situazione è risolta brillantemente dal presidente, che con un balzo sale sul palco e sorridendo paonazzo dice: Bene, concludiamo questa splendida giornata con l’Internazionale, naturalmente nell’ultima versione di Fortini.
Il fonico armeggia un po’ con l’audio, e finalmente la musica parte.
Ma non c’è niente da fare: il jingle del Centro Commerciale sovrasta l’Inno.
“Trasferiamoci nella sala vicina, dove la generosità degli Sponsor offre a tutti noi un modesto buffet” riesce a dire il presidente.
I convegnisti si riparano nella sala accanto.
Restano per terra le cartelline sparse e calpestate del Convegno, con l’elenco di tutti gli sponsor, tra cui figura in bella evidenza anche il vicino Centro Commerciale.
Segregate dietro una porticina secondaria le addette alla pulizia con il loro armamentario di secchi e spazzoloni aspettano con pazienza che i convegnisti abbiano finito di mangiare.


Note


[1] Vedi nell’ordine: A. Berardinelli, Franco Fortini, l’eretico che divenne ortodosso, «Il Venerdì di Repubblica», 3 novembre 2017; P. Di Stefano, Franco Fortini, in nome del futuro, «Il Corriere della sera», 7 settembre 2017; S. Brugnolo, Passato e presente. Conversazione con Pier Vincenzo Mengaldo, www.academia.edu, p. 55; D. Ponchiroli, La parabola dello Sputnik - Diario 1956-1958, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2017.

[2] In F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p.126.

[3] Cfr. almeno C. Cases, Un ingegnere de letteratura, in Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1987, pagg. 41-69; P.V. Mengaldo, Aspetti tipologici della narrativa italiana del Novecento, in La tradizione del Novececento - Quinta serie, Carocci, 2017, p. 62.

[4] Calvino allude alla “Prefazione” al Canzoniere italiano; cfr. P.P. Pasolini, Lettere, II, 1955-1975, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1988, pagg. 175-176.

[5] Cfr. Il re Mida della critica, in Disobbedienze, II, Manifestolibri, 1996, pagg.72-74. Devo dire anzi che la conclusione dell’articolo è l’unica pagina fortiniana, tra quelle rilette di recente, che mi renda l’autore un po’ simpatico: rievocando un convegno a New York del 1973, racconta che gli toccò parlare subito dopo il discorso inaugurale di Contini: “Ero più agitato che per l’esame di latino con Giorgio Pasquali. Dissi quel che dovevo dire nel microfono, sentendo nella schiena i suoi sguardi di indifferente ironia”.

[6] Ho sottomano un’edizione Garzanti del 1974, su licenza del Saggiatore.

[7] Catechismo Maggiore della Chiesa Cattolica, Roma, Tipografia Vaticana, 1905.

[8] Intervento alla manifestazione per la libertà del Vietnam, tenuta in piazza Strozzi a Firenze il 23 aprile 1967, in Memorie per dopo domani tre scritti 1945 1967 e 1980, Siena, Quaderni di Barbablù, 1984.

[9] Cfr. Attraverso Pasolini, cit. p.143; per la disputa sul Sessantotto, p. 38 e segg., e 208 e segg.

[10] G. Contini, Testimonianza per Pier Paolo Pasolini, in Ultimi esercizî ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1989, pagg. 389-395, a pag 363. Testo da leggere integralmente, per la sua altezza stilistica e umana (a partire dal solenne incipit: “La vecchiaia ha tristi privilegi”); e che contiene l’illuminante definizione di Pasolini non “umile”, ma “competente in umiltà”.

[11] Cfr. P.P.Pasolini, Lettere 1955-1975, cit., pag. 258.

[12] P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, cit. alle pagg. 444-445. Più sopra, nella stessa lettera, Pasolini accusa Fortini, nel linguaggio dell’epoca, di omofobia nei suoi confronti. Fortini nell’Introduzione ad Attraverso Pasolini (cit., pagg. XIV-XV) scriverà: “Non ho nessuna difficoltà a scorgere i questa relazione con Pasolini vivo o morto un esemplare degli psichismi – che probabilmente un analista chiamerebbe “omosessuali” […] Psichismi un di ammirazione, devozione, stima e reciproca competitiva aggressività.” Sul tema, Fortini contribuì anche ad un omaggio ad uno scrittore fiorentino che aveva frequentato da giovane, cfr. Intorno al cuore di Piero Santi, a cura di A. Papi, Bologna, Il Cassero, 1989.

[13] Cfr. Poeti italiani del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1977, ora in Attraverso Pasolini cit., p.172.

Aggiungo che rompere con Pasolini non doveva essere difficile, ma era proprio necessario agire allo stesso modo con il mite Geno Pampaloni, insieme al quale e a Gianfranco Folena “interrogava” da giovane Le occasioni di Montale? Il motivo dell’ennesimo strappo furono le polemiche seguite ad un articolo sul Corriere di cui parlerò più avanti. Cfr. Un giorno o l’altro, Macerata, Quodlibet, 2006, pagg. 141-144, dove tra l’altro si trova questa affermazione di incredibile esaltazione e agghiacciante durezza: “Il mio corrispondente e io non abbiamo molto da vivere. Dovrei perdonarlo ed esserne perdonato? Sì se fossimo soli al mondo. No, perché non lo siamo. Per un “rispetto umano” verso quelli che verranno e anche da noi potranno imparare.” Su tutto ciò, cfr. M. Capati, Franco Fortini e Geno Pampaloni, Calliope online, s.d.

[14] M. Gezzi, “A me della poesia importa pochissimo”. Incontro con Edoardo Sanguineti, «Atelier», VIII, 32, 2003, pagg. 54-58, alle pagg. 54-55.

[15] Sono entrambi studiosi che stimo; da Mengaldo in particolare ho imparato molto, e non solo sui poeti del Novecento; ma ho sempre faticato a capire la loro ammirazione per Fortini. Un esempio quasi a caso tra i tanti: Lettera a Franco Fortini sulla sua poesia in La tradizione del Novecento - nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, pagg. 387-406; per Cases, Fortini politico, in Patrie lettere, cit., pp. 151-155 (“Uno medita tutta la vita sui saggi di Fortini senza avere il coraggio di parlarne”).

[16] Ho visto Fortini quattro volte in tutto. La prima fu ad un grosso convegno organizzato nella prima metà degli anni Ottanta all’Università di Venezia: erano presenti sullo stesso palco Fortini, Mario Baratto, Alberto Asor Rosa, Enzo Forcella (che all’epoca dirigeva Rai Radio tre), e altri ancora: ad un certo punto Fortini se ne uscì con un’affermazione: “Non credo a Petrarca per tutti o a Proust per tutti”; Forcella lo interruppe chiedendogli: “E chi non può leggere Petrarca, che cosa dovrebbe leggere?”, al che Fortini si inalberò e, rosso in viso, rispose: “Il Vangelo, perdio!”, tra gli applausi estasiati della platea. (In seguito, Fortini su «Repubblica» rievocò questa battuta, ma fu bacchettato da Umberto Eco, che gli ricordò come il Vangelo sia un libro solo in apparenza facile).

Lo ascoltai poi un paio di volte al “Circolo filologico linguistico padovano”. Nel marzo del 1985 parlò della propria traduzione del Lycidas di Milton. Ricordo bene che esordì chiedendosi se fosse possibile, come nel suo caso, tradurre dall’inglese, senza sapere bene l’inglese: finì con autorizzarsi da solo. La sua (scarsa) conoscenza del tedesco meriterebbe un paragrafo a parte: cfr. almeno, a proposito della traduzione del Faust, Cesare Cases: “Sapevo quel che lui diceva senza ambagi nella conferenza, e cioè che il tedesco lui non lo sapeva benché avesse sposato una svizzera tedesca” (sua moglie Ruth Leiser), cfr. Confessioni di un ottuagenario, Roma, Donzelli, 2003, pag. 74.

Nella stessa sede padovana, nel giugno del 1987 presentò la propria raccolta di Nuovi saggi italiani.

Lo vidi per l’ultima volta nel febbraio del 1992, ai funerali di Gianfranco Folena.

[17] C. Cases, Fortini politico, cit., pag. 151.

[18] La sentenza del pretore e la sentenza dell’Alfa, 31 agosto 1982. Tutti gli articoli sono stati poi raccolti, a volte con titolo diverso, in Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti, 1985.

[19] Quei morti strascinati con la faccia in giù, nel « Corriere» del 3 novembre 1983, poi raccolto in Insistenze cit. Una dotta divagazione sul tema è offerta da C. Franzoni, Strascinare i nemici. Rileggendo Fortini, griseldaonline.it

[20] Cfr. P.V. Mengaldo, La critica militante in Italia oggi, in “L’ospite ingrato”, VIII, 1, 2004, pag. 61.

[21] Da qualche tempo è attivissimo nelle televisioni, nei quotidiani e in Internet, un giovane filosofo vetero-marxista che si autodefinisce “allievo indipendente di Hegel e di Marx”. Raccoglie vaste simpatie e altrettanto forti critiche. Si ispira anche a Pasolini. Si deve riconoscere che l’autore di Bentornato Marx, con tutta questa frenesia è più furbo di quanto non fosse Fortini, che dice di apprezzare, nel senso che raggiunge un numero più vasto di lettori.

[22] Gianfranco Folena, uno studioso che preferiva “unire” anziché “dividere”, terminò il suo insegnamento all’Università, prendendo con eleganza le distanze da uno dei sostenitori di Fortini: “La scorsa settimana il mio amico Cases ha concluso la sua ultima lezione augurando a tutti “buona utopia”, perché di utopia c’è bisogno in un mondo sempre più spento e utilitario. Io più banalmente auguro a tutti voi, e specialmente agli studenti buon lavoro e buona speranza […]”, (G. Folena, Antroponimia letteraria (ultima lezione – 23 maggio 1990), in «Rivista Italiana di Onomastica», 1996, II, n. 2, pag. 367. Certo “Buona utopia!” sembra un motto già pronto per essere inciso sotto un busto di bronzo, al contrario di “Buon lavoro”, che però rivela quell’understatement che a Fortini mancava del tutto.

[23] F. Fortini, Non è solo a voi che sto parlando, ora in Disobbedienze. II Gli anni della sconfitta, manifestolibri, 1996.

[24] Beniamino Placido, Dico a voi vedove allegre, «La Repubblica», 29 marzo 1988; e Fortini l’Africano, «La Repubblica», 3 aprile 1988, in cui Fortini chiude così: “Non me ne vergogno. Mi vergogno invece di avere accettato, circa tre anni fa, di farmi intervistare per la Tv (su Manzoni) da Beniamino Placido, e di avergli parlato cortesemente.”

[25] Osservo che tra questi figurano anche molti giovani estimatori della sua poesia. Mi sembra un pessimo criterio di giudizio. La critica letteraria può senza dubbio essere ideologicamente schierata, ma non in modo così grezzo e squadrato: sono marxista ergo mi piace Fortini; sono cattolico ergo preferisco Luzi. Eppure, non altro che questo mi pare di vedere dietro certe accese prese di posizione.

[26] Una parola su di me: ho avuto una formazione cattolica, come quasi tutti quelli della mia età in Veneto, con la quale continuo a dialogare. Ho votato sempre per il Partito Comunista, finché è esistito, e sono abbastanza fiero di averlo fatto nei primi anni Ottanta, quando si sprecavano le ironie sulle “due chiese”.
All’inizio quel decennio Giorgio Gaber irrideva i “grigi compagni del PCI” (Io se fossi Dio). Craxi sembrava “moderno”, Pannella era ancora una novità. I miei riferimenti erano altri: Luciano Lama, cui nel ’77 “il movimento” aveva impedito violentemente di parlare, Guido Rossa, martire del PCI e della CGIL, ucciso dalle Brigate rosse a Genova nel ’79, e anche Emanuele Macaluso, che nel ‘78 aveva ripreso con decisione Rossana Rossanda, la quale aveva creduto di ravvisare, in un celebre articolo, “l’album di famiglia” del Partito Comunista nel linguaggio delle BR. E poi Amendola, Pajetta, e naturalmente Enrico Berlinguer.
(Non riesco a capire come Mengaldo possa tenere insieme l’ammirazione per Berlinguer (“che per cominciare gli piaceva moltissimo anche come uomo”: cfr. Passato e presente cit. pag. 26) con quella per Fortini, che secondo me è il suo opposto quanto a presunzione, mancanza di sobrietà, e inconcludenza.
Di Fortini potevo stimare la vastità della cultura filosofica (sulla quale, cfr. F. Fortini e P. Jachia, Fortini leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993), ma ho imparato a diffidare dell’intransigenza ideologica, e a vederla sempre più come una sorta di snobismo. Voglio dire che per capire il suo ruolo nell’industria culturale italiana bisognava conoscere e condividere troppe premesse e cioè, come già detto, che egli operasse dentro quell’industria con lo scopo di scardinarne le basi, e che questo metodo fosse efficace.
Sto parlando degli anni Settanta e Ottanta, su cui si concentra lo scritto presente.
Il mio problema oggi, essendosi definitivamente estinte le virtù “ popolari”, è che da un lato continuano a non piacermi gli snob, ma altrettanto non mi piace l’italiano medio.

[27] Tra Sanguineti e la sinistra scoppia la crisi, «Il Corriere della sera», 23 gennaio 2007.


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Nota

Antonio Turolo (Mestre 1962), vive a Treviso. Allievo di Gianfranco Folena, ha pubblicato due monografie: Tradizione e rinnovamento nella lingua del Magalotti (Firenze, Accademia della Crusca, 1993) e Teoria e prassi linguistica nel primo Gadda (Pisa, Giardini, 1995). Come poeta è autore di Le parole contate, in Poesia Contemporanea. Sesto quaderno italiano (Milano, Marcos y Marcos, 1998), di Corruptio optimi pessima (Portogruaro, NuovaDimensione, 2007) e di A parte il lato umano (Livorno, Valigie Rosse, Premio Ciampi 2016).

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