Di seguito potete leggere uno scritto di Lorenzo Cardilli apparso in Teoria&Poesia, volume pubblicato dall'editore Biblion (pp. 161, euro 12) per la cura di Paolo Giovannetti e Andrea Inglese. Il libro documenta una giornata di interventi e confronti tenutasi il 16 settembre 2017 alla Libreria Claudiana di Milano. Oltre al contributo di Lorenzo Cardilli, troverete in questo libro gli scritti di Paolo Giovannetti, Andrea Inglese, Giulio Marzaioli, Florinda Fusco, Vincenzo Frungillo, Stefano Ghidinelli, Italo Testa, Mariangela Guatteri, Luigi Severi, Stefano Versace e Simona Menicocci. Ringrazio Lorenzo Cardilli e l'editore Biblion per la gentile concessione.
retorica e immagine
di Lorenzo Cardilli
*L’intervento consiste in una rielaborazione, con alcune aggiunte, di un articolo pubblicato nel 2016 su «Elephant & Castle», intitolato L’immagine nel verso: per uno studio della sintassi figurale del testo poetico.
Almeno
dall’oraziano ut pictura poësis, il
rapporto tra testo poetico e immagine continua a porre problemi pratici e
teorici ai vari attori del sistema letterario. Al di là delle recenti scoperte
su transcodificazione, iconotesti e ibridazione dei linguaggi, l’intermedialità
è un dato concreto con cui da sempre scrittori e lettori fanno i conti. Il
fatto eccede il campo poetico o letterario e riguarda la cultura in generale,
non soltanto alta: si pensi alle immagini parlanti, all’arte sacra medievale –
impensabile senza il testo biblico di partenza – ai carmi figurati e agli
emblemi rinascimentali o, per giungere al presente, al cinema, alla pubblicità
e al videogame. La storia della cultura non può dunque ignorare quella che
Warburg ha chiamato coalescenza naturale
tra parola e immagine.
Le “figure verbali” in poesia, tra semiotica e
finzionalità
Vorrei
raccontare le circostanze materiali che mi hanno portato a seguire questa linea
di ricerca. Nel 2012 avevo scritto un saggio su Quasimodo che provava – in
linea con altri studi sulla poesia ermetica – a leggere i suoi testi come
montaggi di immagini, mettendo in evidenza fenomeni come le brusche transizioni
spaziali, gli effetti di luce, i cromatismi, ecc. Qualche anno dopo mi sono
imbattuto nel volume di Elena Fabietti Immagini
figurali. Uno studio sulla poesia di Baudelaire e Rilke (2015), che applicava
un metodo analogo, cercando anche di giustificarlo dal punto di vista teorico. L’autrice
sostiene, infatti, che il testo poetico presenta una complessità semiotica impossibile
da cogliere per intero attraverso i tradizionali dispositivi
stilistico-retorici. I ‘vecchi strumenti’ – come allegoria e simbolo – derivano
infatti da un «modello mimetico» che presuppone «una relazione verticale tra
segno e significato». Fabietti propone di integrare le categorie tradizionali
con le strategie figurative, basate su un modello semiotico orizzontale
che la studiosa mutua da una rilettura dell’interpretazione tipologico-figurale
codificata da Erich Auerbach. Nell’interpretazione figurale le immagini si
combinano orizzontalmente in un legame non mimetico ma di somiglianza
dissimile; questo scarto teorico permette di liberare le immagini poetiche
dalla ‘semantica insulare’ del singolo tropo, e focalizzarsi sulle loro
reciproche interazioni. Il testo poetico, così, non verrà più letto come un
insieme di rappresentazioni simboliche da interpretare, ma come un continuum di immagini che si offrono
all’occhio della mente, secondo modalità di volta in volta differenti, in
accordo con lo stile adottato.
La nozione di figura non smette di porre questioni che superano il suo contesto d’origine. La figura si rivela allora un prezioso dispositivo euristico nel dare un nome, e una storia, a una serie di processi semiotici e di strategie “figurative” in senso lato, che vanno dalla reversibilità delle immagini in una rete di incessanti rimandi, alla resistenza alla rappresentazione mimetica (somiglianza dissimile), e che non possono essere riassorbiti in categorie semiotico-retoriche più stabili quali quelle di allegoria e simbolo se non perdendo importanti elementi semiotici. […] l’immagine figurale, complicando il quadro delle possibilità figurative della poesia, al di là delle risorse semiotiche dell’allegoria e del simbolo, può forse contribuire a moltiplicare le vie d’accesso al testo poetico.
A
mio avviso, il discorso di Fabietti lasciava aperte due questioni: da un lato,
l’adozione dello schema tipologico come fondamento di una semiosi orizzontale poteva
non essere del tutto soddisfacente. Nonostante la sua orizzontalità, infatti,
l’interpretazione figurale rimane teleologicamente orientata, secondo lo
“schema della promessa”. Ad esempio, il soggiorno di Giona nella pancia della
balena e la morte di Cristo non hanno la stessa importanza agli occhi
dell’esegeta. Dall’altro lato, mi sembrava necessario lavorare in direzione di
una teoria scalabile, cioè svincolata – per quanto possibile – dai puntelli
offerti dalla poetica dei singoli autori. Immagini
figurali, infatti, si sviluppa a partire da agganci di poetica
(specialmente un’interpretazione rilkiana di Baudelaire). L’esportabilità della
teoria, invece, deve passare da una fondazione estetica, che legittimi a
livello simbolico e pragmatico l’atto di leggere i testi poetici come sequenze
di immagini verbali, nella prospettiva di una transmedialità “intrinseca” e non
necessariamente supportata da riferimenti diretti.
Ne L’immagine nel verso, dunque, ho cercato
di sviluppare il concetto di semiosi orizzontale, combinando principalmente tre
spunti teorici: l’iconologia di W.J.T. Mitchell, la psicologia della Gestalt di Rudolf Arnheim e il montaggio
di Sergej Ejzenštein. Tutto questo tenendo sullo sfondo – come cornice euristica
– il pensiero di Franco Brioschi, in particolare la “semantica della finzione”,
che a mio avviso resta fondamentale anche per lo studio della poesia. Se, come gli
altri testi letterari, anche il testo poetico modellizza l’esperienza del
mondo, esso implica la mimesi di una pratica – la visione – che innerva la vita
percettiva della maggioranza degli individui.
Contrariamente
a quanto sostiene Jonathan Culler nel suo Theory
of the Lyric, infatti, credo che la funzione mimetica del testo poetico
rimanga centrale, benché insufficiente a descriverne i processi semantici e pragmatici.
Culler ha dato una spinta decisiva all’analisi degli aspetti ritualistici e
performativi della lirica; tuttavia, ha sacrificato per esigenze dialettiche la
componente finzionale-imitativa. Inoltre, la sua concezione del modello
finzionale è troppo schiacciata sulle categorie di fictional speaker e di narratività. Un testo poetico, infatti, può
contenere affermazioni e valori riferiti al mondo reale, ma mantenere, allo
stesso tempo, un grado di costruzione discorsiva che implica un tasso ineliminabile
di finzionalità. Ad esempio, This Be the Verse di Philip Larkin è
sicuramente un “discorso epidittico” – come a ragione sostiene Culler nel suo
volume; ciò non significa, però, che nel testo vengano completamente a mancare
processi immaginativi e finzionali, se non altro perché il testo impone al
lettore come verità (personale e poi generale) una versione del mondo in cui il
concepimento implica la trasmissione di uno stigma doloroso, che cresce su se
stesso di generazione in generazione. Si tratta, in questo caso, di una
finzionalità discorsiva che riguarda meno la letteratura e più la comunicazione
verbale tout court. Ad ogni modo, è
ingiusto far collassare la finzionalità sulla narratività. È molto più facile considerare
universi simulati l’Odissea o la Commedia piuttosto che il Tu ne quaesieris o l’Infinito. Ma se la semantica della
finzione vale per romanzi e poemi, non c’è ragione per escludere dai suoi
processi testi lirici, frammentari o sperimentali. Si dovrà poi – di volta in
volta – valutare la tipologia e l’estensione della simulazione che il testo
implica. Ad esempio, il mondo simulato dall’Orlando
furioso è molto dettagliato: presuppone cronotropi più o meno realistici ma
sempre ben strutturati, punti di vista definiti e personaggi dalla soggettività
riconoscibile. Al contrario, La
perfezione della neve di Zanzotto è più simile a un patchwork di frame semantici
e immagini, montati in modo apparentemente caotico: tuttavia, per quanto
labile, anche in questo caso estremo il valore modellizzante non viene meno. È
sicuramente molto più agevole orientarsi in un poema piuttosto che in una
lirica di La Beltà o Millimetri; tuttavia, anche il testo più
sperimentale presuppone – magari per via negativa – strutture percettive e «impegni
ontologici» legati all’esperienza. E tra questi, la visione occupa una
posizione di preminenza. Brioschi nota come le vecchie ‘forme pure’ kantiane
siano ineliminabili nella nostra esperienza dei mondi finzionali:
in una storia, così come in una teoria, ciò che è fittizio entra in rapporto con elementi e strutture su cui vertono impegni ontologici reali per noi irrevocabili: se non altro, la dimensione spaziotemporale che sarà l’orizzonte e lo sfondo di qualsiasi interpretazione (Brioschi1998: 216-217).
La componente visiva, dunque, eredita dalla spazialità
intrinseca a ogni mondo (o frame) simulato
il suo carattere fondativo e trascendentale: l’‘occhio’ è una delle vie maestre
attraverso cui lo percepiamo, al contempo conoscendolo in modo produttivo.
Dall’“annidamento” alla teoria del montaggio
Secondo
l’iconologo W.J.T. Mitchell, anche la letteratura può considerarsi, a pieno
titolo, un medium visuale. Da un lato, infatti, la materialità dell’atto di lettura
si basa sulla percezione visiva; dall’altro, tramite strategie come la
disposizione grafica o le tecniche descrittive, il testo letterario permette al
lettore di esperire uno spazio finzionale o «virtuale»:
la letteratura, con tecniche come l’ékphrasis e la descrizione, ma anche con strategie più sottili di disposizione formale, implica esperienze virtuali o immaginative di spazio e visione che pur essendo espresse indirettamente, attraverso il linguaggio, non per questo sono meno reali.
Nel saggio I media visuali non esistono,
l’iconologo ribadisce che la “pura otticità” è un falso mito teorico e che
tutti i media sono “misti”. A questo proposito, Mitchell introduce più oltre la
categoria di annidamento, «in cui un medium appare dentro un
altro come suo contenuto». La riflessione sull’annidamento e su altre forme di
combinazione mediale porta Mitchell a confrontarsi proprio con la poesia,
partendo dal problema dell’ékphrasis:
La regola cruciale dell’ékphrasis, comunque, è che il medium “altro”, l’oggetto visuale, grafico o plastico, non sia mai reso visibile o tangibile tranne che per mezzo del medium del linguaggio. Si potrebbe chiamare ékphrasis una forma di annidamento senza tatto o sutura, un tipo di azione-a-distanza tra due tracce sensoriali e semiotiche rigorosamente separate, che richiede un completamento nella mente del lettore. Questo è il motivo per cui la poesia rimane il più ingegnoso e flessibile medium principale del sensus communis, a dispetto dei tanti spettacolari stratagemmi multimediali inventati per dare l’assalto alle nostre sensibilità collettive.
La
prospettiva dell’iconologo è a mio avviso estensibile dall’ékphrasis
alla poesia in generale, fino a comprendere l’intera testualità: non c’è motivo
per concepire l’“annidamento senza sutura” del figurale come un privilegio
della poesia, e nella fattispecie della poesia che descriva opere d’arte.
Forzando la categoria di Mitchell in direzione non tematica, possiamo concepire
il visuale come “annidato” nelle parole, una componente intrinseca e non
“sostanziale” della significazione verbale. Interessante il rilievo di Mitchell
sul “completamento” del fruitore: Nelson Goodman lo chiamerebbe integrazione,
uno dei fondamentali modi di fabbricare mondi a cui è dedicato il suo Vedere
e costruire il mondo del 1978 (il titolo originale è appunto Ways of
Worldmaking). Pensare al testo come a una serie di istruzioni per la
costruzione di un mondo o di una «mondo-versione» aiuta a rivedere anche i
vecchi cliché legati al predominio dell’ermeneutica. L’attività del
fruitore non è confinata all'interpretazione, ma si articola in una serie di
pratiche che comprendono l’interpretazione senza tuttavia esaurirsi in essa: l’homo
fictus si orienta attivamente in un modello di mondo in cui il testo
semiotico – di qualunque composizione o complessità – costituisce
contemporaneamente il supporto e la controparte interazionale.
Appoggiandosi
alle teorie di Rudolf Arnheim, invece, è possibile riflettere sulle
caratteristiche dell’immagine verbale, considerata sia nella lingua comune sia
in quella letteraria. Nel suo Il pensiero
visivo (Torino, Einaudi, 1974), un classico della Gestaltpsychologie, Arnheim subordina il linguaggio al pensiero, già
attivo nella percezione ed esso stesso costituito da immagini:
Ciò che rende il linguaggio tanto valido per pensare, pertanto, non potrà essere il fatto di pensare in parole. Deve consistere nell’aiuto fornito dalle parole al pensiero mentre esso opera in un suo «medium» più appropriato, quale quello dell’immaginazione visuale. […] La virtù principale del «medium» visuale è quella di rappresentare le forme in uno spazio bidimensionale e tridimensionale, in confronto con la sequenza monodimensionale del linguaggio verbale. Questo spazio polidimensionale non soltanto offre al pensiero efficaci modelli di oggetti fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente le dimensioni che occorrono al ragionamento teorico.
Arnheim
non sembra molto frequentato nel mondo della teoria letteraria, probabilmente
per il suo deciso ridimensionamento del linguaggio. Tuttavia, bisogna evitare radicalismi
e semplificazioni: non si può schiacciare il linguaggio sull’immagine,
sacrificandone in modo ingenuo la specificità mediale. Una teoria delle
immagini verbali mira alla ricchezza semiotica del testo letterario, e non
intende in nessun modo ridurre la comunicazione linguistica alla componente visuale.
A questo proposito, il pensiero di Arnheim permette di isolare due rilevanti
proprietà specifiche dell’immagine verbale: la linearità e la libertà di
montaggio.
Per quanto riguarda la linearità, bisogna richiamarsi
alla celebre distinzione dell’estetica: il linguaggio verbale funziona in modo lineare,
perché è costruito da una sequenza di segni; la percezione visiva, invece, è
simultanea e multidimensionale. Le immagini mentali suscitate da sequenze di
parole risentono di questa discrasia costitutiva: l’immagine mentale impone al
medium visuale – potenzialmente bidimensionale o tridimensionale – il medium
monodimensionale del linguaggio”. Sempre ne Il
pensiero visivo, Arnheim scrive:
Un’immagine pittorica si presenta totalmente, in simultaneità. Un’immagine letteraria riuscita cresce attraverso quanto si potrebbe chiamare aumento per aggiustamenti successivi. Ogni parola, ogni frase, viene corretta dalla successiva in qualche cosa che si accosti di più al significato totale cui si mira. Questo costruire attraverso il mutamento graduale dell’immagine anima il «medium» letterario.
Quello che Arnheim chiama “accrescimento graduale” è dunque
una conseguenza del supporto linguistico a partire da cui costruiamo le
immagini mentali, quali che siano le integrazioni ‘percettive’ e ‘produttive’
di volta in volta attuate.
La percezione, inoltre, non è fatta soltanto di immagini
statiche o frame isolati: la visione di immagini continue in movimento è
un’esperienza di base a cui, sul piano linguistico, corrisponde il dinamismo
intrinseco delle immagini verbali. Veniamo così alla libertà di montaggio:
per certi aspetti la sintassi figurale pare addirittura meno vincolata di
quella delle immagini concrete. Il medium
verbale compensa infatti le restrizioni dovute al suo impiego (generalmente)
monodirezionale con un’estrema flessibilità combinatoria:
Non è possibile prendere quadri o pezzi di quadri e metterli insieme per produrre nuove combinazioni con la facilità con cui è possibile combinare parole o ideogrammi. I montaggi pittorici mostrano le linee di giuntura, mentre le immagini prodotte dalle parole si fondono in insiemi unificati. […] Le forme del linguaggio verbale sono attrezzate per l’evocazione di massa delle immagini.
Considerata sotto questo aspetto, la capacità figurale
del linguaggio sorpassa quella dei ‘cosiddetti’ media visuali. Questa proprietà
viene ampiamente sfruttata, ad esempio, dagli stili fortemente analogici della
poesia simbolista o ermetica, oppure dai vari collage delle avanguardie.
Linearità e libertà
spingono entrambe in direzione del montaggio: studiare le immagini letterarie
significa seguire le modalità con cui le immagini sono giustapposte in quell’«accrescimento
graduale» (o sequenza di “inquadrature”) prodotto nel testo e riprodotto
nell’immaginazione, cioè tramite associazioni o visualizzazioni mentali.
A questo proposito, uno dei contributi più interessanti
sul tema del montaggio verbale in poesia non viene né dalla critica letteraria
né dalle arti figurative, ma dal cinema: Sergej Ejzenštein, nel suo pionieristico
Montaž 1938 (poi Parola e immagine, in Forma e
tecnica del film e lezioni di regia, Torino, Einaudi, 1964), impiega testi
letterari e poetici per spiegare il montaggio cinematografico. Il regista
affronta la questione in una prospettiva che potremmo definire transestetica. Infatti,
per Ejzenštein il montaggio non riguarda soltanto il cinema, ma le arti in generale,
e persino gli stessi meccanismi della percezione. Ha, inoltre, anche un valore
performativo, perché costringe gli spettatori a creare e integrare, come
attestano ad esempio le ricerche sul cosiddetto effetto Kulešov. Negli anni 20,
Lev Kulešov provò che gli spettatori interpretavano molto diversamente lo
stesso primo piano di un attore a seconda delle immagini associate in sequenza:
l’accostamento delle immagini, infatti, realizza una vera e propria
polarizzazione semantica, che richiede il completamento del fruitore. Il
montaggio produce, così, un effetto performativo, che riguarda non solo le
“integrazioni”, ma anche – più in generale – la “riesecuzione” o ampliamento
del processo creativo: «la forza del montaggio consiste proprio nell’attrarre le
emozioni e le riflessioni dello spettatore nel processo creativo. Lo spettatore,
infatti, è portato a seguire l’identico cammino creativo che l’autore ha
percorso nel creare la sua immagine». Come per Arnheim, anche per Ejzenštein
l’oggetto estetico comporta una sinergia tra percezione, comprensione e
visualizzazione per immagini: «sappiamo che alla base della creazione della
forma si trovano procedimenti di pensiero fondati sulla sensazione e
sull’immagine».
gli esempi letterari di montaggio tolti dalla migliore tradizione classica in cui i rapporti di questa nuova forma di espressione con le forme d’arte confinanti (ad es., il cinema) esistevano appena o non esistevano affatto, sono i più indicativi, i più interessanti, e forse i più istruttivi. Tuttavia, sia nel campo del sonoro sia nel campo del visivo, o nella combinazione suono-immagine; sia nella creazione di un’immagine, o di una situazione, o nella «magica» incarnazione davanti ai nostri occhi delle immagini di una dramatis persona, sia in Milton sia in Majakovskij, dovunque troviamo il montaggio.
Il montaggio è un meccanismo estetico-percettivo
ugualmente presente nelle diverse forme d’arte, anche e soprattutto anteriori
all’avvento del cinema. Per quanto riguarda l’ambito del letterario, la
sintassi figurale – o anche montaggio verbale – costituisce un terreno di
importanza non secondaria per rendere conto della morfologia retorica del testo
e dunque della sua “ricchezza semiotica”. I presupposti teorici fin qui
esaminati (semiosi orizzontale, annidamento e ‘montaggio interiore’) sembrano
avere un’implicazione comune: studiare i meccanismi figurali in poesia
significa affrontare prevalentemente problemi di montaggio.
Le strategie figurali
Leggere il testo poetico come una catena di immagini
“montate” ad arte tra loro vuol dire individuare degli schemi costruttivi che
prescindano – almeno nel metodo – dai soggetti rappresentati. Così come per il
metro, per la retorica o per la sintassi, anche alle immagini verbali spetta il
proprio bagaglio di tecniche. Ne L’immagine
nel verso, ma anche nelle applicazioni pratiche che ho dedicato alla poesia
di Quasimodo, Zanzotto e Fiori, ho cercato di individuare alcune strategie
figurali (o meccanismi), che strutturano l’esperienza visuale offerta dai testi
poetici. Riporto di seguito una breve sintesi, relativa a 4 categorie di base.
La selezione dei
dettagli, in primo luogo, è un procedimento molto frequente nel testo
poetico: “scorciare” descrizioni o scene presentando alcuni dettagli piuttosto
che altri ha un valore eminentemente interpretativo. All’interno di generi
poetici (tendenzialmente) brevi come la lirica, la scelta del dettaglio è più
che essenziale: il modello di mondo proposto dal testo è basato su pochissimi
elementi estremamente significativi. Dal passero di Lesbia agli occhi di
Clizia, passando per la trafila di senhals e feticismi, nei dettagli si
giocano i massimi investimenti semantici e patetici della lirica. Poesie anche
lontanissime, come un’ode oraziana e un exemplum
del primo Fiori, condividono un fuoco speciale sui dettagli che – oltre a
catturare attenzione e immaginazione del lettore – possono svolgere un ruolo significativo
nella diegesi del componimento.
In secondo luogo, il montaggio
delle figure consiste nei modi particolari in cui le immagini verbali
vengono accostate all’interno del testo poetico. Si avranno così ‘transizioni
dolci’ o ‘stacchi bruschi’, in cui le figure sono montate senza preparazione o
addirittura in maniera inconseguente. Diverse velocità e modalità di montaggio
possono contribuire non poco alla caratterizzazione degli stili individuali e
delle koinài stilistiche. Si pensi all’ermetismo, e – al suo
“interno” – alla differenza tra il primo e il secondo Quasimodo. Oppure, all’usus videndi di Fiori, che, oltre a
tematizzare esplicitamente il vedere in moltissimi componimenti, fa un uso specificamente
“raffigurativo” della similitudine, associando due configurazioni o stati di
cose in base al loro isomorfismo logico-figurale.
La collocazione
dell’occhio o del punto di vista (inteso in senso letterale e non
strettamente narratologico) può giocare un ruolo fondamentale nella sintassi
delle immagini poetiche, specie quando il testo presenta personaggi implicati
in uno sviluppo narrativo. Carrellate, campi e controcampi, soggettive a
focalizzazione interna (o ‘ideali’), in cui le immagini provengono
dall’interiorità di un personaggio (ad esempio rammemorante): tutte queste
strategie sono riconducibili alla visione prospettica che il testo poetico ci
forza ad assumere di volta in volta, vincolandoci al suo ‘occhio’. Pensiamo ai
raffinati “movimenti di macchina” nella prima parte del XXVI canto dell’Inferno (in cui si passa dal campo lungo
sulla bolgia al primo piano della fiamma cornuta, che si avvicina a Dante). Secondo
un principio “pittorico” e non “cinematografico”, invece, le poesie
post-ermetiche del primo Zanzotto (come, ad esempio, La fredda tromba in Dietro il
paesaggio) evocano una spazialità analogica, che finisce per assomigliare a
quella di un quadro. Le immagini, in questo caso, richiedono una fruizione
“areale” piuttosto che lineare, come nelle descrizioni spaziali più
tradizionali.
In ultimo, la qualità delle immagini riguarda le caratteristiche specifiche delle figure
poetiche, considerate singolarmente a prescindere dalla loro collocazione in
sequenza. La qualità delle immagini è legata a parametri come la “definizione”,
il cromatismo, gli effetti luministici, la ricorrenza di certi stili o
tipologie di inquadrature, il maggiore o minore livello di astrazione. La
combinazione di queste variabili genera una “maniera” particolare, anch’essa
riconducibile allo stile personale e a costanti di corrente. Per quanto
riguarda luminismo, cromatismo e nitidezza delle immagini, si vedano i
componimenti di Orazio, Dino Campana (pensiamo all’insistenza sul viola nel
poema in prosa La notte)
e degli ermetici Gatto e Quasimodo.
La tassonomia che ho abbozzato non va intesa in modo
rigido: da un lato, questi fenomeni si danno spesso in simultaneità, e
scomporli può nuocere all’analisi; dall’altro, le strategie figurali vanno
adattate agli usi dei corpora presi
in considerazione. Nell’ambito del singolo componimento, le tecniche sono poi
legate ai soggetti concreti, con tutte le implicazioni e le interferenze
semantiche del caso. Ad ogni modo, studiare le immagini poetiche significa
aumentare gli sforzi in direzione di una teoria olistica dello stile, piuttosto
che introdurre ulteriori motivi per sezionare gli organismi testuali.
Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo, Torino, Einaudi, 1974.
Franco Brioschi, Semantica della finzione, in Id., Critica della ragion poetica, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 195-218.
Lorenzo Cardilli, I meccanismi figurali in Salvatore Quasimodo: tecnica, critica, ideologia, «Chroniques italiennes», n. 24 (3/2012), http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr/numeros/Web24.html.
Lorenzo Cardilli, recensione a Elena Fabietti, Immagini figurali. Uno studio sulla poesia di Baudelaire e Rilke, «Acme», 68, n. 2, (2015), pp. 207-209.
Lorenzo Cardilli, L’immagine nel verso: per uno studio della sintassi figurale del testo
poetico, «Elephant & Castle», 15 (2016), <http://cav.unibg.it/elephant_castle/web/saggi/l-immagine-nel-verso-per-uno-studio-della-sintassi-figurale-del-testo-poetico/234>.
Lorenzo Cardilli, Figura e occhio in La bella vista di Umberto Fiori, «Nuova Corrente», 160, luglio-dicembre 2017, pp. 63-77.
Jonathan Culler, Theory of the Lyric, Cambridge, Harvard University Press, 2015.
Riccardo Donati, Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione, Firenze, Le Lettere, 2014.
Sergej Ejzenštein, Montaz 1938, poi Parola e immagine, in Id., Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Torino, Einaudi, 1964, pp. 225-266.
Elena Fabietti, Le vie della figuralità in Auerbach, in I. Paccagnella - E. Gregori (a cura di), Mimesis. L’eredità di Auerbach. Atti del XXXV Convegno Interuniversitario (Bressanone / Innsbruck, 5-8 luglio 2007), Padova, Esedra, 2009, pp. 113-121.
Elena Fabietti, Immagini figurali. Uno studio sulla poesia di Baudelaire e Rilke, Cuneo, Nerosubianco, 2015.
Nelson Goodman, Vedere e costruire il mondo, Roma-Bari, Laterza, 2008.
Joseph Luzzi, Verbal montage and visual apostrophe: Zanzotto’s «Filò» and Fellini’s Voce della luna, in Modern Language Notes, 126: 1, 2011, pp. 179-199.
W.J.T. Mitchell, I media visuali non esistono, in Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, Palermo, :duepunti edizioni, 2008, pp. 81-95.
Orazio, Odi e epodi, a cura di A. Traina - E. Mandruzzato, Milano, Bur, 2002.
Cesare Segre, La pelle di San Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte, Torino, Einaudi, 2003.
© Biblion Edizioni. Per gentile concessione dell'editore e dell'autore.
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