martedì 2 ottobre 2018

Uno scritto di Lorenzo Cardilli da "Teoria&Poesia", volume a cura di Paolo Giovannetti e Andrea Inglese

Di seguito potete leggere uno scritto di Lorenzo Cardilli apparso in Teoria&Poesia, volume pubblicato dall'editore Biblion (pp. 161, euro 12) per la cura di Paolo Giovannetti e Andrea Inglese. Il libro documenta una giornata di interventi e confronti tenutasi il 16 settembre 2017 alla Libreria Claudiana di Milano. Oltre al contributo di Lorenzo Cardilli, troverete in questo libro gli scritti di Paolo Giovannetti, Andrea Inglese, Giulio Marzaioli, Florinda Fusco, Vincenzo Frungillo, Stefano Ghidinelli, Italo Testa, Mariangela Guatteri, Luigi Severi, Stefano Versace e Simona Menicocci. Ringrazio Lorenzo Cardilli e l'editore Biblion per la gentile concessione.


Verso una semiosi orizzontale:
retorica e immagine

di Lorenzo Cardilli


*L’intervento consiste in una rielaborazione, con alcune aggiunte, di un articolo pubblicato nel 2016 su «Elephant & Castle», intitolato L’immagine nel verso: per uno studio della sintassi figurale del testo poetico.

Almeno dall’oraziano ut pictura poësis, il rapporto tra testo poetico e immagine continua a porre problemi pratici e teorici ai vari attori del sistema letterario. Al di là delle recenti scoperte su transcodificazione, iconotesti e ibridazione dei linguaggi, l’intermedialità è un dato concreto con cui da sempre scrittori e lettori fanno i conti. Il fatto eccede il campo poetico o letterario e riguarda la cultura in generale, non soltanto alta: si pensi alle immagini parlanti, all’arte sacra medievale – impensabile senza il testo biblico di partenza – ai carmi figurati e agli emblemi rinascimentali o, per giungere al presente, al cinema, alla pubblicità e al videogame. La storia della cultura non può dunque ignorare quella che Warburg ha chiamato coalescenza naturale tra parola e immagine.

Negli ultimi anni ho avviato una ricerca teorica e pratica dedicata al rapporto tra poesia e immagine, affrontato, però, dal punto di vista del testo. La poesia in generale – non solo quella ecfrastica o concreta – ha a che fare con l’immagine, perché la visualità è un costituente primario dei suoi meccanismi semiotici. Insieme agli altri tipi di testo letterario, il testo poetico può essere concepito come una sequenza di immagini verbali (e, quindi, mentali). Certamente, non tutte le poesie sono leggibili in questo modo. Non intendo proporre un principio “sostanziale” e universale, valido per qualunque opera; il mio scopo è arricchire il repertorio di strumenti con cui leggiamo e interpretiamo i testi, studiandone la «ricchezza semiotica» (Fabietti) in modo sempre più accurato. Ad esempio, esistono poesie a figuralità zero, mentre altre ancora abbandonano quasi del tutto il linguaggio verbale. D’altra parte, alcuni stili poetici – individuali o di koinè, come ad esempio l’ermetismo – si prestano particolarmente a una lettura per immagini, per via dei temi trattati, della postura enunciativa e delle loro “inclinazioni” retoriche.

Le “figure verbali” in poesia, tra semiotica e finzionalità

Vorrei raccontare le circostanze materiali che mi hanno portato a seguire questa linea di ricerca. Nel 2012 avevo scritto un saggio su Quasimodo che provava – in linea con altri studi sulla poesia ermetica – a leggere i suoi testi come montaggi di immagini, mettendo in evidenza fenomeni come le brusche transizioni spaziali, gli effetti di luce, i cromatismi, ecc. Qualche anno dopo mi sono imbattuto nel volume di Elena Fabietti Immagini figurali. Uno studio sulla poesia di Baudelaire e Rilke (2015), che applicava un metodo analogo, cercando anche di giustificarlo dal punto di vista teorico. L’autrice sostiene, infatti, che il testo poetico presenta una complessità semiotica impossibile da cogliere per intero attraverso i tradizionali dispositivi stilistico-retorici. I ‘vecchi strumenti’ – come allegoria e simbolo – derivano infatti da un «modello mimetico» che presuppone «una relazione verticale tra segno e significato». Fabietti propone di integrare le categorie tradizionali con le strategie figurative, basate su un modello semiotico orizzontale che la studiosa mutua da una rilettura dell’interpretazione tipologico-figurale codificata da Erich Auerbach. Nell’interpretazione figurale le immagini si combinano orizzontalmente in un legame non mimetico ma di somiglianza dissimile; questo scarto teorico permette di liberare le immagini poetiche dalla ‘semantica insulare’ del singolo tropo, e focalizzarsi sulle loro reciproche interazioni. Il testo poetico, così, non verrà più letto come un insieme di rappresentazioni simboliche da interpretare, ma come un continuum di immagini che si offrono all’occhio della mente, secondo modalità di volta in volta differenti, in accordo con lo stile adottato.
La nozione di figura non smette di porre questioni che superano il suo contesto d’origine. La figura si rivela allora un prezioso dispositivo euristico nel dare un nome, e una storia, a una serie di processi semiotici e di strategie “figurative” in senso lato, che vanno dalla reversibilità delle immagini in una rete di incessanti rimandi, alla resistenza alla rappresentazione mimetica (somiglianza dissimile), e che non possono essere riassorbiti in categorie semiotico-retoriche più stabili quali quelle di allegoria e simbolo se non perdendo importanti elementi semiotici. […] l’immagine figurale, complicando il quadro delle possibilità figurative della poesia, al di là delle risorse semiotiche dell’allegoria e del simbolo, può forse contribuire a moltiplicare le vie d’accesso al testo poetico.
A mio avviso, il discorso di Fabietti lasciava aperte due questioni: da un lato, l’adozione dello schema tipologico come fondamento di una semiosi orizzontale poteva non essere del tutto soddisfacente. Nonostante la sua orizzontalità, infatti, l’interpretazione figurale rimane teleologicamente orientata, secondo lo “schema della promessa”. Ad esempio, il soggiorno di Giona nella pancia della balena e la morte di Cristo non hanno la stessa importanza agli occhi dell’esegeta. Dall’altro lato, mi sembrava necessario lavorare in direzione di una teoria scalabile, cioè svincolata – per quanto possibile – dai puntelli offerti dalla poetica dei singoli autori. Immagini figurali, infatti, si sviluppa a partire da agganci di poetica (specialmente un’interpretazione rilkiana di Baudelaire). L’esportabilità della teoria, invece, deve passare da una fondazione estetica, che legittimi a livello simbolico e pragmatico l’atto di leggere i testi poetici come sequenze di immagini verbali, nella prospettiva di una transmedialità “intrinseca” e non necessariamente supportata da riferimenti diretti.

Ne L’immagine nel verso, dunque, ho cercato di sviluppare il concetto di semiosi orizzontale, combinando principalmente tre spunti teorici: l’iconologia di W.J.T. Mitchell, la psicologia della Gestalt di Rudolf Arnheim e il montaggio di Sergej Ejzenštein. Tutto questo tenendo sullo sfondo – come cornice euristica – il pensiero di Franco Brioschi, in particolare la “semantica della finzione”, che a mio avviso resta fondamentale anche per lo studio della poesia. Se, come gli altri testi letterari, anche il testo poetico modellizza l’esperienza del mondo, esso implica la mimesi di una pratica – la visione – che innerva la vita percettiva della maggioranza degli individui.

Contrariamente a quanto sostiene Jonathan Culler nel suo Theory of the Lyric, infatti, credo che la funzione mimetica del testo poetico rimanga centrale, benché insufficiente a descriverne i processi semantici e pragmatici. Culler ha dato una spinta decisiva all’analisi degli aspetti ritualistici e performativi della lirica; tuttavia, ha sacrificato per esigenze dialettiche la componente finzionale-imitativa. Inoltre, la sua concezione del modello finzionale è troppo schiacciata sulle categorie di fictional speaker e di narratività. Un testo poetico, infatti, può contenere affermazioni e valori riferiti al mondo reale, ma mantenere, allo stesso tempo, un grado di costruzione discorsiva che implica un tasso ineliminabile di finzionalità.  Ad esempio, This Be the Verse di Philip Larkin è sicuramente un “discorso epidittico” – come a ragione sostiene Culler nel suo volume; ciò non significa, però, che nel testo vengano completamente a mancare processi immaginativi e finzionali, se non altro perché il testo impone al lettore come verità (personale e poi generale) una versione del mondo in cui il concepimento implica la trasmissione di uno stigma doloroso, che cresce su se stesso di generazione in generazione. Si tratta, in questo caso, di una finzionalità discorsiva che riguarda meno la letteratura e più la comunicazione verbale tout court. Ad ogni modo, è ingiusto far collassare la finzionalità sulla narratività. È molto più facile considerare universi simulati l’Odissea o la Commedia piuttosto che il Tu ne quaesieris o l’Infinito. Ma se la semantica della finzione vale per romanzi e poemi, non c’è ragione per escludere dai suoi processi testi lirici, frammentari o sperimentali. Si dovrà poi – di volta in volta – valutare la tipologia e l’estensione della simulazione che il testo implica. Ad esempio, il mondo simulato dall’Orlando furioso è molto dettagliato: presuppone cronotropi più o meno realistici ma sempre ben strutturati, punti di vista definiti e personaggi dalla soggettività riconoscibile. Al contrario, La perfezione della neve di Zanzotto è più simile a un patchwork di frame semantici e immagini, montati in modo apparentemente caotico: tuttavia, per quanto labile, anche in questo caso estremo il valore modellizzante non viene meno. È sicuramente molto più agevole orientarsi in un poema piuttosto che in una lirica di La Beltà o Millimetri; tuttavia, anche il testo più sperimentale presuppone – magari per via negativa – strutture percettive e «impegni ontologici» legati all’esperienza. E tra questi, la visione occupa una posizione di preminenza. Brioschi nota come le vecchie ‘forme pure’ kantiane siano ineliminabili nella nostra esperienza dei mondi finzionali:
in una storia, così come in una teoria, ciò che è fittizio entra in rapporto con elementi e strutture su cui vertono impegni ontologici reali per noi irrevocabili: se non altro, la dimensione spaziotemporale che sarà l’orizzonte e lo sfondo di qualsiasi interpretazione (Brioschi1998: 216-217).

La componente visiva, dunque, eredita dalla spazialità intrinseca a ogni mondo (o frame) simulato il suo carattere fondativo e trascendentale: l’‘occhio’ è una delle vie maestre attraverso cui lo percepiamo, al contempo conoscendolo in modo produttivo.

Dall’“annidamento” alla teoria del montaggio

Secondo l’iconologo W.J.T. Mitchell, anche la letteratura può considerarsi, a pieno titolo, un medium visuale. Da un lato, infatti, la materialità dell’atto di lettura si basa sulla percezione visiva; dall’altro, tramite strategie come la disposizione grafica o le tecniche descrittive, il testo letterario permette al lettore di esperire uno spazio finzionale o «virtuale»:
la letteratura, con tecniche come l’ékphrasis e la descrizione, ma anche con strategie più sottili di disposizione formale, implica esperienze virtuali o immaginative di spazio e visione che pur essendo espresse indirettamente, attraverso il linguaggio, non per questo sono meno reali.
Nel saggio I media visuali non esistono, l’iconologo ribadisce che la “pura otticità” è un falso mito teorico e che tutti i media sono “misti”. A questo proposito, Mitchell introduce più oltre la categoria di annidamento, «in cui un medium appare dentro un altro come suo contenuto». La riflessione sull’annidamento e su altre forme di combinazione mediale porta Mitchell a confrontarsi proprio con la poesia, partendo dal problema dell’ékphrasis:
La regola cruciale dell’ékphrasis, comunque, è che il medium “altro”, l’oggetto visuale, grafico o plastico, non sia mai reso visibile o tangibile tranne che per mezzo del medium del linguaggio. Si potrebbe chiamare ékphrasis una forma di annidamento senza tatto o sutura, un tipo di azione-a-distanza tra due tracce sensoriali e semiotiche rigorosamente separate, che richiede un completamento nella mente del lettore. Questo è il motivo per cui la poesia rimane il più ingegnoso e flessibile medium principale del sensus communis, a dispetto dei tanti spettacolari stratagemmi multimediali inventati per dare l’assalto alle nostre sensibilità collettive.
La prospettiva dell’iconologo è a mio avviso estensibile dall’ékphrasis alla poesia in generale, fino a comprendere l’intera testualità: non c’è motivo per concepire l’“annidamento senza sutura” del figurale come un privilegio della poesia, e nella fattispecie della poesia che descriva opere d’arte. Forzando la categoria di Mitchell in direzione non tematica, possiamo concepire il visuale come “annidato” nelle parole, una componente intrinseca e non “sostanziale” della significazione verbale. Interessante il rilievo di Mitchell sul “completamento” del fruitore: Nelson Goodman lo chiamerebbe integrazione, uno dei fondamentali modi di fabbricare mondi a cui è dedicato il suo Vedere e costruire il mondo del 1978 (il titolo originale è appunto Ways of Worldmaking). Pensare al testo come a una serie di istruzioni per la costruzione di un mondo o di una «mondo-versione» aiuta a rivedere anche i vecchi cliché legati al predominio dell’ermeneutica. L’attività del fruitore non è confinata all'interpretazione, ma si articola in una serie di pratiche che comprendono l’interpretazione senza tuttavia esaurirsi in essa: l’homo fictus si orienta attivamente in un modello di mondo in cui il testo semiotico – di qualunque composizione o complessità – costituisce contemporaneamente il supporto e la controparte interazionale.

Appoggiandosi alle teorie di Rudolf Arnheim, invece, è possibile riflettere sulle caratteristiche dell’immagine verbale, considerata sia nella lingua comune sia in quella letteraria. Nel suo Il pensiero visivo (Torino, Einaudi, 1974), un classico della Gestaltpsychologie, Arnheim subordina il linguaggio al pensiero, già attivo nella percezione ed esso stesso costituito da immagini:
Ciò che rende il linguaggio tanto valido per pensare, pertanto, non potrà essere il fatto di pensare in parole. Deve consistere nell’aiuto fornito dalle parole al pensiero mentre esso opera in un suo «medium» più appropriato, quale quello dell’immaginazione visuale. […] La virtù principale del «medium» visuale è quella di rappresentare le forme in uno spazio bidimensionale e tridimensionale, in confronto con la sequenza monodimensionale del linguaggio verbale. Questo spazio polidimensionale non soltanto offre al pensiero efficaci modelli di oggetti fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente le dimensioni che occorrono al ragionamento teorico.
Arnheim non sembra molto frequentato nel mondo della teoria letteraria, probabilmente per il suo deciso ridimensionamento del linguaggio. Tuttavia, bisogna evitare radicalismi e semplificazioni: non si può schiacciare il linguaggio sull’immagine, sacrificandone in modo ingenuo la specificità mediale. Una teoria delle immagini verbali mira alla ricchezza semiotica del testo letterario, e non intende in nessun modo ridurre la comunicazione linguistica alla componente visuale. A questo proposito, il pensiero di Arnheim permette di isolare due rilevanti proprietà specifiche dell’immagine verbale: la linearità e la libertà di montaggio.

Per quanto riguarda la linearità, bisogna richiamarsi alla celebre distinzione dell’estetica: il linguaggio verbale funziona in modo lineare, perché è costruito da una sequenza di segni; la percezione visiva, invece, è simultanea e multidimensionale. Le immagini mentali suscitate da sequenze di parole risentono di questa discrasia costitutiva: l’immagine mentale impone al medium visuale – potenzialmente bidimensionale o tridimensionale – il medium monodimensionale del linguaggio”. Sempre ne Il pensiero visivo, Arnheim scrive:
Un’immagine pittorica si presenta totalmente, in simultaneità. Un’immagine letteraria riuscita cresce attraverso quanto si potrebbe chiamare aumento per aggiustamenti successivi. Ogni parola, ogni frase, viene corretta dalla successiva in qualche cosa che si accosti di più al significato totale cui si mira. Questo costruire attraverso il mutamento graduale dell’immagine anima il «medium» letterario.
Quello che Arnheim chiama “accrescimento graduale” è dunque una conseguenza del supporto linguistico a partire da cui costruiamo le immagini mentali, quali che siano le integrazioni ‘percettive’ e ‘produttive’ di volta in volta attuate.

La percezione, inoltre, non è fatta soltanto di immagini statiche o frame isolati: la visione di immagini continue in movimento è un’esperienza di base a cui, sul piano linguistico, corrisponde il dinamismo intrinseco delle immagini verbali. Veniamo così alla libertà di montaggio: per certi aspetti la sintassi figurale pare addirittura meno vincolata di quella delle immagini concrete. Il medium verbale compensa infatti le restrizioni dovute al suo impiego (generalmente) monodirezionale con un’estrema flessibilità combinatoria:
Non è possibile prendere quadri o pezzi di quadri e metterli insieme per produrre nuove combinazioni con la facilità con cui è possibile combinare parole o ideogrammi. I montaggi pittorici mostrano le linee di giuntura, mentre le immagini prodotte dalle parole si fondono in insiemi unificati. […] Le forme del linguaggio verbale sono attrezzate per l’evocazione di massa delle immagini.
Considerata sotto questo aspetto, la capacità figurale del linguaggio sorpassa quella dei ‘cosiddetti’ media visuali. Questa proprietà viene ampiamente sfruttata, ad esempio, dagli stili fortemente analogici della poesia simbolista o ermetica, oppure dai vari collage delle avanguardie.

Linearità e libertà spingono entrambe in direzione del montaggio: studiare le immagini letterarie significa seguire le modalità con cui le immagini sono giustapposte in quell’«accrescimento graduale» (o sequenza di “inquadrature”) prodotto nel testo e riprodotto nell’immaginazione, cioè tramite associazioni o visualizzazioni mentali.

A questo proposito, uno dei contributi più interessanti sul tema del montaggio verbale in poesia non viene né dalla critica letteraria né dalle arti figurative, ma dal cinema: Sergej Ejzenštein, nel suo pionieristico Montaž 1938 (poi Parola e immagine, in Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Torino, Einaudi, 1964), impiega testi letterari e poetici per spiegare il montaggio cinematografico. Il regista affronta la questione in una prospettiva che potremmo definire transestetica. Infatti, per Ejzenštein il montaggio non riguarda soltanto il cinema, ma le arti in generale, e persino gli stessi meccanismi della percezione. Ha, inoltre, anche un valore performativo, perché costringe gli spettatori a creare e integrare, come attestano ad esempio le ricerche sul cosiddetto effetto Kulešov. Negli anni 20, Lev Kulešov provò che gli spettatori interpretavano molto diversamente lo stesso primo piano di un attore a seconda delle immagini associate in sequenza: l’accostamento delle immagini, infatti, realizza una vera e propria polarizzazione semantica, che richiede il completamento del fruitore. Il montaggio produce, così, un effetto performativo, che riguarda non solo le “integrazioni”, ma anche – più in generale – la “riesecuzione” o ampliamento del processo creativo: «la forza del montaggio consiste proprio nell’attrarre le emozioni e le riflessioni dello spettatore nel processo creativo. Lo spettatore, infatti, è portato a seguire l’identico cammino creativo che l’autore ha percorso nel creare la sua immagine». Come per Arnheim, anche per Ejzenštein l’oggetto estetico comporta una sinergia tra percezione, comprensione e visualizzazione per immagini: «sappiamo che alla base della creazione della forma si trovano procedimenti di pensiero fondati sulla sensazione e sull’immagine».

Tutta la parte finale del saggio è dedicata a un’originale analisi “per inquadrature” dei testi poetici di Puškin, Milton e Majakovskij: il regista prima si sofferma su dei brani della Poltava di Puškin, un poema narrativo a tema storico-imperialista, mettendo in luce l’importanza della selezione dei dettagli e del rapporto immagine/sonoro nella costruzione delle sequenze. Successivamente, prendendo in prestito dalla metrica il concetto di enjambement, lo applica al rapporto tra figurazioni e “articolazioni ritmiche” in alcuni testi di Milton e Majakovskij, mostrando le analogie con il “conflitto” metro/sintassi. Le conclusioni di Ejzenštein non potrebbero essere più nette:
gli esempi letterari di montaggio tolti dalla migliore tradizione classica in cui i rapporti di questa nuova forma di espressione con le forme d’arte confinanti (ad es., il cinema) esistevano appena o non esistevano affatto, sono i più indicativi, i più interessanti, e forse i più istruttivi. Tuttavia, sia nel campo del sonoro sia nel campo del visivo, o nella combinazione suono-immagine; sia nella creazione di un’immagine, o di una situazione, o nella «magica» incarnazione davanti ai nostri occhi delle immagini di una dramatis persona, sia in Milton sia in Majakovskij, dovunque troviamo il montaggio.
Il montaggio è un meccanismo estetico-percettivo ugualmente presente nelle diverse forme d’arte, anche e soprattutto anteriori all’avvento del cinema. Per quanto riguarda l’ambito del letterario, la sintassi figurale – o anche montaggio verbale – costituisce un terreno di importanza non secondaria per rendere conto della morfologia retorica del testo e dunque della sua “ricchezza semiotica”. I presupposti teorici fin qui esaminati (semiosi orizzontale, annidamento e ‘montaggio interiore’) sembrano avere un’implicazione comune: studiare i meccanismi figurali in poesia significa affrontare prevalentemente problemi di montaggio.

Le strategie figurali

Leggere il testo poetico come una catena di immagini “montate” ad arte tra loro vuol dire individuare degli schemi costruttivi che prescindano – almeno nel metodo – dai soggetti rappresentati. Così come per il metro, per la retorica o per la sintassi, anche alle immagini verbali spetta il proprio bagaglio di tecniche. Ne L’immagine nel verso, ma anche nelle applicazioni pratiche che ho dedicato alla poesia di Quasimodo, Zanzotto e Fiori, ho cercato di individuare alcune strategie figurali (o meccanismi), che strutturano l’esperienza visuale offerta dai testi poetici. Riporto di seguito una breve sintesi, relativa a 4 categorie di base.

La selezione dei dettagli, in primo luogo, è un procedimento molto frequente nel testo poetico: “scorciare” descrizioni o scene presentando alcuni dettagli piuttosto che altri ha un valore eminentemente interpretativo. All’interno di generi poetici (tendenzialmente) brevi come la lirica, la scelta del dettaglio è più che essenziale: il modello di mondo proposto dal testo è basato su pochissimi elementi estremamente significativi. Dal passero di Lesbia agli occhi di Clizia, passando per la trafila di senhals e feticismi, nei dettagli si giocano i massimi investimenti semantici e patetici della lirica. Poesie anche lontanissime, come un’ode oraziana e un exemplum del primo Fiori, condividono un fuoco speciale sui dettagli che – oltre a catturare attenzione e immaginazione del lettore – possono svolgere un ruolo significativo nella diegesi del componimento.

In secondo luogo, il montaggio delle figure consiste nei modi particolari in cui le immagini verbali vengono accostate all’interno del testo poetico. Si avranno così ‘transizioni dolci’ o ‘stacchi bruschi’, in cui le figure sono montate senza preparazione o addirittura in maniera inconseguente. Diverse velocità e modalità di montaggio possono contribuire non poco alla caratterizzazione degli stili individuali e delle koinài stilistiche. Si pensi all’ermetismo, e – al suo “interno” – alla differenza tra il primo e il secondo Quasimodo. Oppure, all’usus videndi di Fiori, che, oltre a tematizzare esplicitamente il vedere in moltissimi componimenti, fa un uso specificamente “raffigurativo” della similitudine, associando due configurazioni o stati di cose in base al loro isomorfismo logico-figurale.

La collocazione dell’occhio o del punto di vista (inteso in senso letterale e non strettamente narratologico) può giocare un ruolo fondamentale nella sintassi delle immagini poetiche, specie quando il testo presenta personaggi implicati in uno sviluppo narrativo. Carrellate, campi e controcampi, soggettive a focalizzazione interna (o ‘ideali’), in cui le immagini provengono dall’interiorità di un personaggio (ad esempio rammemorante): tutte queste strategie sono riconducibili alla visione prospettica che il testo poetico ci forza ad assumere di volta in volta, vincolandoci al suo ‘occhio’. Pensiamo ai raffinati “movimenti di macchina” nella prima parte del XXVI canto dell’Inferno (in cui si passa dal campo lungo sulla bolgia al primo piano della fiamma cornuta, che si avvicina a Dante). Secondo un principio “pittorico” e non “cinematografico”, invece, le poesie post-ermetiche del primo Zanzotto (come, ad esempio, La fredda tromba in Dietro il paesaggio) evocano una spazialità analogica, che finisce per assomigliare a quella di un quadro. Le immagini, in questo caso, richiedono una fruizione “areale” piuttosto che lineare, come nelle descrizioni spaziali più tradizionali.

In ultimo, la qualità delle immagini riguarda le caratteristiche specifiche delle figure poetiche, considerate singolarmente a prescindere dalla loro collocazione in sequenza. La qualità delle immagini è legata a parametri come la “definizione”, il cromatismo, gli effetti luministici, la ricorrenza di certi stili o tipologie di inquadrature, il maggiore o minore livello di astrazione. La combinazione di queste variabili genera una “maniera” particolare, anch’essa riconducibile allo stile personale e a costanti di corrente. Per quanto riguarda luminismo, cromatismo e nitidezza delle immagini, si vedano i componimenti di Orazio, Dino Campana (pensiamo all’insistenza sul viola nel poema in prosa La notte) e degli ermetici Gatto e Quasimodo.

La tassonomia che ho abbozzato non va intesa in modo rigido: da un lato, questi fenomeni si danno spesso in simultaneità, e scomporli può nuocere all’analisi; dall’altro, le strategie figurali vanno adattate agli usi dei corpora presi in considerazione. Nell’ambito del singolo componimento, le tecniche sono poi legate ai soggetti concreti, con tutte le implicazioni e le interferenze semantiche del caso. Ad ogni modo, studiare le immagini poetiche significa aumentare gli sforzi in direzione di una teoria olistica dello stile, piuttosto che introdurre ulteriori motivi per sezionare gli organismi testuali.

La ricerca sulle matrici visuali del testo poetico e letterario è soltanto all’inizio, e potrà sicuramente avvantaggiarsi della crescente solidarietà tra le discipline, magari spingendosi verso la psicologia, le scienze cognitive e gli altri universi epistemologici collegati alla cultura della simulazione e alle teorie dell’immagine. Tuttavia, per quanto lontano possa portare l’acribia teorica, è auspicabile che mantenga una radice nell’estetica propriamente letteraria: cioè in un sapere pragmatico che mira a descrivere – con sempre migliore approssimazione – cosa significa orientarsi nel testo, ricavandone insieme piacere e conoscenza.


Bibliografia di massima

Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo, Torino, Einaudi, 1974.

Franco Brioschi, Semantica della finzione, in Id., Critica della ragion poetica, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 195-218.

Lorenzo Cardilli, I meccanismi figurali in Salvatore Quasimodo: tecnica, critica, ideologia, «Chroniques italiennes», n. 24 (3/2012), http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr/numeros/Web24.html.

Lorenzo Cardilli, recensione a Elena Fabietti, Immagini figurali. Uno studio sulla poesia di Baudelaire e Rilke, «Acme», 68, n. 2, (2015), pp. 207-209.

Lorenzo Cardilli, L’immagine nel verso: per uno studio della sintassi figurale del testo
poetico
, «Elephant & Castle», 15 (2016), <http://cav.unibg.it/elephant_castle/web/saggi/l-immagine-nel-verso-per-uno-studio-della-sintassi-figurale-del-testo-poetico/234>.

Lorenzo Cardilli, Figura e occhio in La bella vista di Umberto Fiori, «Nuova Corrente», 160, luglio-dicembre 2017, pp. 63-77.

Jonathan Culler, Theory of the Lyric, Cambridge, Harvard University Press, 2015.

Riccardo Donati, Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione, Firenze, Le Lettere, 2014.

Sergej Ejzenštein, Montaz 1938, poi Parola e immagine, in Id., Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Torino, Einaudi, 1964, pp. 225-266.

Elena Fabietti, Le vie della figuralità in Auerbach, in I. Paccagnella - E. Gregori (a cura di), Mimesis. L’eredità di Auerbach. Atti del XXXV Convegno Interuniversitario (Bressanone / Innsbruck, 5-8 luglio 2007), Padova, Esedra, 2009, pp. 113-121.

Elena Fabietti, Immagini figurali. Uno studio sulla poesia di Baudelaire e Rilke, Cuneo, Nerosubianco, 2015.

Nelson Goodman, Vedere e costruire il mondo, Roma-Bari, Laterza, 2008.

Joseph Luzzi, Verbal montage and visual apostrophe: Zanzotto’s «Filò» and Fellini’s Voce della luna, in Modern Language Notes, 126: 1, 2011, pp. 179-199.

W.J.T. Mitchell, I media visuali non esistono, in Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, Palermo, :duepunti edizioni, 2008, pp. 81-95.

Orazio, Odi e epodi, a cura di A. Traina - E. Mandruzzato, Milano, Bur, 2002.

Cesare Segre, La pelle di San Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte, Torino, Einaudi, 2003.




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