giovedì 31 gennaio 2013

"I padri" di Giulia Rusconi. Collezione, collazione e colazione di padri


I padri di Giulia Rusconi (Ladolfi Editore, pp. 50, euro 10, prefazione di Anna Maria Carpi) è un libro che colpisce, spiazza e lascia attoniti, e tuttavia volenterosi di far ritorno ad esso. L’autrice (veneziana, non ancora trentenne, un'iniziazione alla scrittura che risente molto del vicino-lontano Goffredo Parise e che si ravvisa nell'intelligenza situazionale) ci consegna uno degli esordi più convincenti degli ultimi tempi. Lo segnalo qui rallegrandomi, come è giusto che sia quando un bell'esordio compare, dopo aver fatto lo stesso con il libro di Marco Scarpa (ma in Italia ci sono ottimi primi libri di poesia e vorrei quasi dimostrare la presunzione che questi siano più di quelli che escono in altri paesi europei). Il fatto che per primo mi ha scosso - e che tuttora continua a persuadermi della bontà di questa raccolta - è la scelta netta di un tema preciso, individuabile, attorno al quale viene costruito un libro stringato e rapidissimo di trentuno componimenti che variano dai 7 ai 10 versi. Si tratta di un tema che sta tutto nel semplicissimo titolo scelto dall'autrice e che pure non dice molto. Di certo quel titolo non dice tutto. Inganna, contraddice, perché è questa una poesia di contraddizioni vicinissime, coaugulate persino nel passo breve di alcuni testi (una delle madri, protagoniste di secondo grado, ad esempio, “Non mi insegna niente e mi piace” anche se, poco oltre, "mi insegna a prendere posto / a disegnare contorni.”). Chi ha scritto questi versi lascia cadere tra le pagine una "collezione" di padri che può sfociare in "collazione" e - mi perdonerete i giochi di parole che si susseguono - persino in "colazione". I padri sono collezionati e tenuti tutti dentro a guisa di matrjoska da lei, "la grandissima". Giulia Rusconi - o perlomeno chi dice io in questi componimenti - colleziona, collaziona e fa colazione di padri. In una poesia si arriva addirittura al padre numero "novanta" ("...padre della dimenticanza / parla di Wittgenstein / e di Aufhebung e decostruzionismo"). Naturalmente è forte il senso di straniamento che deriva dalla lettura di un libro che si ingurgita col fiato tirato, a bocconi e pure con qualche sorriso franto, sperduto tra i denti, che sale dal nonsense latente, come nella poesia in cui lei è a cena nella luce rosa "con uno dei miei padri" (curiosa la variatio applicata a "padre", il termine più ricorrente dell'opera) che insegna le buone maniere e dove leggiamo "Io che odio il bolo subisco / questo cimitero. Ma lui / è fra tutti il preferito / poco paterno pochissimo padre.". Se nonsense può sembrare, è altrettanto vero che è questo un versificare che parla schietto a noi della nostra epoca transgender (così come efficacemente notato nella prefazione), più di tanta altra calibratissima e celebralissima poesia. Leggiamo così una carrellata di padri che si sussegue per gesti, situazioni, scene, pensieri, ricordi, moltissimi insegnamenti (in questo ravviso Parise, padre tra i padri, padre di sillabe e di luoghi).

"Padri", al plurale, nella nostra lingua è usato spesso in senso culturale, politico. L'operazione dell'autrice è invece una violenza sul plurale dell'accezione comune della parola "padre" e forse su un recupero etimologico della radice di "padre", "pa-", che rimanda alla “protezione” e al “nutrimento”, non tanto o soltanto materiale. Nella poesia che si apre con la bellissima endiade di sostantivo e aggettivo in enjambement "Tutti mi dicono che sono una donna / e bella e che ho spalle ampie...", troviamo la chiusa bisticciante con la parola "faccia": "Io non cerco che una mano / grande che mi copra tutta la faccia / non mi faccia invecchiare." Di qui la protezione, il nutrire il tempo. I padri di Giulia Rusconi non sono tutti "mali necessari" come pensava Joyce e forse, con un pizzico di blasfemia, si può dire che i padri si scelgono, si conoscono strada facendo ("Ho conosciuto un padre / è il numero duecento / mi ha insegnato che cos’è l’addio") oppure, per sottrazione, si ignorano ("Ho un padre che non conosco / l’ho visto una volta so come si fa / chiamare so che non parla / quasi mai e che vive in una buca / piena di ossa di lupo / occhi di vetro e angeli maestosi."). Talvolta la riluttanza nell'utilizzo delle virgole o di altri segni di punteggiatura conduce a riflettere, eppure non può che confermarsi come scelta consapevole e dettata - suppongo - dalla tornitura del verso, dalla sicurezza delle cose che chi scrive deve assolutamente dire. Rare sono le rime, più facile rilevare delle assonanze in chiusura dei testi, scie vibranti che sembrano fermare la voce a un passo dall'abisso della chiusa, dal contatto tra anime, come in "diventata brutta / ancora ne porto il lutto", oppure, nella poesia del "nuovo padre" (che insegna la pazienza, beve caffè decaffeinato, "...tiene / le mani a riposo sulla fòrmica",  insegna a dire grazie, ad aspettare che cali il sole) quando dice: "... «Fumiamone un’altra / e poi andiamo». Ma piano."

L'apertura del libro, su questo punto della sicurezza del dire e su questa sorta di cannibalismo messo in atto dalla scrittura, non lascia scampo, visto che viene subito sgomberato il campo dall'utilizzo della parola "papà": "Non ti voglio chiamare papà / è troppo infantile / viene in mente la pappa e allora / ti mangio ma orfana / sarò forse perduta." La seconda poesia cade invece ossessivamente sui suoni che rimandano alla radice che ho menzionato (pa-, pa-, -pe-, -po, -pa-, pi-, pa-, pe-, pa-, Pe-):

Mio padre mi insegna a parlare
per la seconda volta.
In una stanza calda mi legge Invernale
e «vile» gli esce fra i denti.
Anch’io ripeto, balbetto 
e inciampo e imparo con lui.
Quando ero piccola mio padre
- l’altro - si è perso
la mia prima parola: era
a Pechino, in viaggio di lavoro.

E le madri? La parola "madre" compare più volte. In questo libro brevissimo c'è posto persino per "alcune" madri. Insegnano il dolore, ad accarezzare, il carteggio o anche niente, come la seconda. In un caso è addirittura chi dice io nei versi ad essere madre-moglie del nono padre, in una sorta di vertiginoso percorso che pare atterrare sui terreni neanche troppo simbolici dell’incesto: "Sono sua madre perché è piccolo / e non sa fare niente. Ma / ha un pene molto grande / che mi convince e non divorzio mai." (Dicevo Parise, ho ripensato a L'odore del sangue.) Il titolo e la ripetizione ossessiva sui padri non deve portare all'errore di gettare in ombra questa epifania di madri che smembra finalmente quell'unico e goffo blocco unigenerazionale (quell'unico viso orribilmente senza età) in cui sembra essersi trasformata la linea madre-figlia, sempre più piatta, talvolta sempre più insipida e frolla (con l'aggiunta surreale persino delle nonne, talvolta). Non credo debba passare in secondo piano questo ricorrere più parsimonioso alle figure di madri. Ed è questo un passaggio chiave per dire che, se la figura dell’uomo esce bastonata da queste pagine (anche se questo non è certo un libro pseudofemminista o neofemminista), la figura femminile non ne esce aumentata a discapito. Tutt’altro.

Scrivevo in apertura della "collazione" di padri. Se prendiamo un qualsiasi dizionario, a questa voce troviamo il significato filologico di confronto tra diverse copie di un testo manoscritto o a stampa. E tutti i padri enumerati nei vari testi ("il mio quinto", "il numero tredici", il ventesimo, "(il nono)", "mio padre numero diciotto", "il numero duecento"...) potrebbero essere assunti a oggetto di collazione con un padre che non di rado l'autrice nomina con un inciso tra trattini: " - l'altro - " (e la silloge che visionai tempo fa e che ha dato vita al libro era intitolata proprio L'altro padre). Ma "collazione" potrebbe darsi anche nell'accezione di quell'istituto giuridico per cui "chi riceve un'eredità deve conferire al patrimonio ereditario tutti i beni che gli erano stati donati in vita dal defunto, in modo da dividerli con gli altri coeredi." In fondo questo è apertamente un libro sull'eredità e nella scrittura viene cannibalisticamente e ripetutamente elaborato un lutto condiviso con gli altri eredi: noi. Anche questo che fa la poesia di Giulia Rusconi.

Il libro si conclude con il testo che riporto per intero:

Quando ero piccola avevo due padri
uno non c’era l’altro c’era
e si scambiavano di posto il venerdì.
Bios mi insegnava a nuotare
a spaccare noccioline coi sassi
Calamus mi insegnava a scrivere
a mettermi in fila per due.
Bios rientrava e sapeva di treni
gli stavo in braccio sulla poltrona.
Calamus lo chiamavo papà
ma per scherzo, e in ombra.

Ecco, ogni padre ha un "posto". Collezione, collazione e collocazione di padri. E la scrittura olfattiva, di cui Parise fu esponente tra i più grandi (pure quel naso aquilino gli giovò), compare qui nella poesia conclusiva che fornisce la traccia, il contorno e le pareti dove sbattere la testa in questo libro-rompicapo, matrjoska o cubo di Rubik, che si potrebbe estendere e rigirare davvero all'infinito. E non a caso, proprio in questo testo conclusivo, ricompare la parola “papà”. Che cosa se ne fa l’io di queste poesie di tutti questi padri? "Li colleziono li metto in fila / sulla libreria e li conto sempre / e li classifico per età / per ordine di importanza / li seziono gli scambio le teste / qualcuna fa fatica a staccarsi dal collo." 

Rem tene, verba sequentur. Il vero di questo libro è nell'appropriazione primaria e istantanea della materia da cui prende abbrivio e che via via tratteggia inesorabilmente, la quale sta a monte, nei fori, nelle lacerazioni o pezzi mancanti che lascia intravedere tra un padre e l'altro (“Il contatto sì il pezzo mancante / della casa delle cose”). Le parole che Giulia Rusconi ha disposto per plasmarla sono venute poi e, con ogni probabilità, altre ne verranno. La sua è una poesia che parte a risemantizzare le parole il cui significato è dato per scontato. Ed è anche questo che mi fa pensare che l’autrice, contrariamente ad altre opere prime di poesia, avesse davvero qualcosa da dire, che abbia fatto bene a scrivere questo libro e che faccia bene a noi, ora, leggerlo, mangiarlo, deglutirlo senza alcuna concessione al tragico (“io al tragico sono negata”), ma con due piedi che piuttosto saltellano impazienti nei sempre più indispensabili e a noi congeniali spazi del grottesco.

lunedì 28 gennaio 2013

Guido Morselli quarant'anni dopo la morte. Intervista con Valentina Fortichiari

Librobreve intervista #10

Cade quest'anno il quarantennale della morte di Guido Morselli. Quest'intervista vorrebbe essere un piccolo approfondimento di alcuni aspetti della sua opera e allo stesso tempo un invito alla lettura. Lo facciamo proprio con chi, circa trent'anni fa, scrisse Invito alla lettura di Guido Morselli (Mursia). Valentina Fortichiari, ora all'ufficio stampa di Longanesi, ha curato per Adelphi diversi libri dello scrittore nato a Bologna e ritiratosi poi - come noto - in provincia di Varese. Ripercorrendo alcune vicende biografiche e bibliografiche ricaveremo un ritratto di scrittore la cui opera non accusa molto il trascorrere dei decenni, un artista colmo di stile, affamato di creatività vera (non certo quella che oggi viene passata per "creatività"). La tenuta delle sue opere, in un momento in cui anche i romanzi e le poesie sembrano portare stampigliata la data di scadenza "Best before", si sostanzia nello stile e nella sua ricerca inquieta e dovrebbe farci pensare ad un classico. L'intervista si chiude su alcuni consigli di lettura di libri (brevi) di Morselli e mi auguro costituisca una cavalcata piacevole tra domande e risposte, sia per i morselliani della prima ora sia per chi non ha ancora letto nulla di questo scrittore.

----

LB: Il 2012, anno del centenario della nascita di Morselli, mi pare trascorso senza particolari iniziative. 
RISPSOTA: Affatto. Il Premio dedicato a Morselli lo ha ricordato a Varese; a Milano è stata organizzato un ricordo alla Sala del Grechetto (in collaborazione con il Premio Chiara e l'Unione  Lettori) con la sottoscritta, Giulio Giorello e Romano Oldrini.

LB: Quest'anno cade invece il quarantennale della morte dello scrittore, una ricorrenza assai più significativa, sia perché dalla morte inizia la sua vicenda editoriale sia perché, a mio personalissimo avviso, le ricorrenze delle morti hanno forse un po' più senso di quelle delle nascite. Le risultano iniziative particolari in programma per questo 2013 e degne di menzione? 
RISPOSTA: Mi ha fornito un'ottima idea.

LB: Quarant'anni fa il suicidio dello scrittore. Di lì, grazie anche all'interessamento dell'amico Dante Isella, cominciò la vicenda editoriale postuma con Adelphi, con pubblicazioni che si sono succedute a ritmo costante per tutto il secondo lustro degli anni Settanta e poi, rallentando, anche negli anni Ottanta e Novanta. Si può affermare che lei ha seguito costantemente le vicende dello scrittore, sin da un precoce Invito alla lettura uscito da Mursia: può tratteggiare i passaggi più significativi dell'interesse che ha suscitato l'opera di Morselli nel suo complesso o determinati titoli in particolare? 
RISPOSTA: Oltre a Invito uscì da Rizzoli Immagini di una vita, da me curato, con uno scritto di Giuseppe Pontiggia (2001). L'interesse più significativo nei riguardi dello scrittore ha accompagnato di anno in anno la pubblicazione delle sue opere soprattutto da parte di Adelphi (dagli anni Settanta a fine Novecento). Dal famoso saluto di Giulio Nascimbeni "È nato un Gattopardo del Nord" (anni '70), ai tanti contributi critico-giornalistici, un elemento si può notare: è mancato un vero studio ponderoso, una analisi corposa e esauriente. Anche di recente saggi continuano a uscire, su aspetti specifici, e qualche editore minore (penso alle Nuove Edizioni Magenta di Varese) propone al pubblico saggi di Morselli (Realismo e fantasia), epistolari. Ma al momento  il 'caso' Morselli pare languire. Per ragioni soprattutto di costi Adelphi ha interrotto l'Opera Omnia nella collana La Nave Argo. Peccato: Guido Morselli sta degnamente tra i grandi del Novecento, ma è come se lo si fosse relegato in una nicchia minore, nonostante l'attualità e la 'tenuta' della sua narrativa. Come se si continuasse  perversamente a ignorarlo, come fu quando Morselli era in vita.

LB: Non è difficile immaginare il perché dei tanti rifiuti editoriali ricevuti da Morselli in vita, sui quali si concentrano, a detta di molti, anche i moventi del suicidio. Con il senno del poi, riconosciamo che la sua prosa e i suoi interessi speculativi erano sostanzialmente assai lontani dai binari principali della letteratura italiana del dopoguerra, quel solco netto neorealista e quella traccia indelebile depositata segnatamente da due organizzatori di cultura come Calvino e Vittorini. Anche per questo, oggi, i suoi interessi e la sua prosa ci appaiono assai più duraturi, intramontabili, caldamente attuali. Oggi non possiamo che rimanere affascinati da un autore che in quegli stessi anni si spendeva addirittura nelle ambientazioni future di Roma senza papa e in una bellissima storia controfattuale dedicata ad un evento capitale come la Prima guerra mondiale (mi riferisco naturalmente a Contro-passato prossimo). Si avvicina anche il Centenario della Prima guerra mondiale. Potrebbe ripercorrere il senso di quel libro e di quella vivida ricostruzione dell'Edelweiss Expedition? 
RISPOSTA: Prima di tutto ribadisco che sarebbe sbagliato interpretare il suicidio attraverso la delusione per i numerosi rifiuti editoriali. L'ho sempre sostenuto e ne sono tuttora convinta. Nel gesto drammatico del suicidio entrano motivazioni molteplici, complesse, non riconducibili a questa sola spiegazione. E poi, sicuramente, la sua formidabile capacità di 'stare fuori' dalle mode, di precorrerle, di essere totalmente inassimilabile al suo tempo, è la stessa che oggi lo fa suonare straordinariamente moderno e attuale. Venendo a Contro-passato prossimo, fu una trovata estremamente felice, raccontata con la leggerezza densissima della sua prosa elegante, ironica, quasi 'britannica' nella compostezza  quasi trasparente. La fantasia non faceva difetto a Morselli, ma Guido era anche capace di 'documentarsi' con acribia rara e sapeva dare vita a un affresco storico (anzi antistorico, una ricreazione della Storia tramutata in controstoria) dove personaggi reali stavano sulla pagina accanto a protagonisti totalmente di invenzione. Forse questo può ben dirsi il suo romanzo più compiuto e ricco, ma quanta fatica, quante 'battaglie' editoriali dovette costargli: addirittura un Intermezzo  tra l'Autore e il suo Editore, che fu scritto per 'ragionare' sul libro ma che alla fine non produsse i risultati sperati. Anche Contro-passato non arrivò alla pubblicazione.

LB: La grande lezione di Morselli s'attesta, tra le altre cose, nella rivisitazione del romanzo storico, non certo nell'accezione manzoniana dell'espressione. Crede sia questo uno dei punti-cardine da dove ripartire ogni volta che si prende in considerazione la sua opera, pure ad un livello scolastico e didattico? Ma si studia (si sfiora) Morselli a scuola, oggi? 
RISPOSTA: Si studia a livello universitario: ancora arrivano da me studenti con tesi.  Ma non direi che Morselli si è limitato a una rivisitazione del romanzo storico: intanto i generi nei quali si è cimentato attestano sconfinamenti nel teatro, nel racconto, nella saggistica, nel giornalismo. Se poi stiamo solo sulla narrativa, i romanzi hanno spaziato nella ricchezza di spunti e di tematiche. Morselli infine è stato fortunatamente immune dal virus autobiografico (persino nel Diario parla poco di sé e molto della realtà che lo circonda, di letture e di lavori intrapresi; insomma un diario di scrittore). 

LB: C'è stato appunto un Morselli giornalista e saggista che va tenuto sempre a mente. Penso ad esempio alla sua recensione del fortunato Il caso e la necessità del biologo Jacques Monod. Si può forse far discendere il Morselli scrittore dai saggi importanti che fece uscire già negli anni Quaranta, anche per i continui rimandi metaletterari e metafilosofici. Può sintetizzare i momenti salienti del percorso di giornalista durante il Ventennio fascista e saggista poi? 
RISPOSTA: La parentesi giornalistica poco ha contato nel ventennio fascista: non era giornalistico il passo della sua scrittura più felice, la pasta della scrittura.  Articoli e saggi gli servirono in un certo senso per allenare la scrittura, per cimentarsi come era naturale in percorsi ovvii per un umanista e per un giovane che aveva percorso l'Europa nel classico Grand Tour e, dopo la laurea in Giurisprudenza, seguiva  le sue inclinazioni naturali più nel versante letterario ma era attento a tutti i fermenti culturali della sua epoca. Se saggi come Realismo e fantasia (il più ricco ma anche il primo, che contiene in nuce molti dei temi morselliani sviluppati poi nei romanzi),  Fede e critica,  persino il brevissimo e lucido Capitolo breve sul suicidio mostrano una intelligente capacità argomentativa, non sono però tra le opere migliori di Morselli, che resta narratore puro e che, a suo dire, volle sempre considerarsi dilettante, avverso allo specialismo imperante.  La sua narrativa ha conosciuto fasi anche di interruzione, pause e riprese, ma è proprio la matura stagione dei grandi romanzi (dagli anni Sessanta sino alla sua scomparsa) a indicare anche le preferenze dello scrittore.

"Casina rosa" (foto Chiodetti)
LB: Alla lettura di alcune note biografiche, colpisce l'apertura di Morselli anche al teatro e al cinema. Quel che ne ricaviamo è un artista sempre pressato dallo sforzo della ricerca della forma più congeniale. Concorda? Può brevemente tornare anche sugli esiti delle opere di teatro e sui tentativi di sceneggiature cinematografiche? 
RISPOSTA: Certo che concordo: Morselli aveva una 'fame' di creatività che comprendeva tra l'altro anche l'uso della immagine. Si cimentò nella fotografia (con esiti eccellenti) e nell'uso della cinepresa. Del resto nei romanzi le immagini sono determinanti e quasi tratteggiate con l'occhio di uno sceneggiatore. Ovvia dunque anche la sua curiosità per tali generi: i suoi lavori rimasero incompiuti in parte, non rivisti e non sistemati per la pubblicazione o diffusione quanto i romanzi. Evidentemente lo stesso Morselli era consapevole di non aver raggiunto risultati soddisfacenti. Propendo a considerarli lavori minori, nel rispetto delle intenzioni  dell'Autore. Non credo neppure che Morselli ne avrebbe autorizzata la divulgazione.  

LB: A lei va riconosciuta una sorta di "lunga fedeltà" all'autore. Il suo Invito alla lettura di Guido Morselli (1984), assieme all'altrettanto efficace libro di Simona Costa per il Castoro (1981),  costituisce un caposaldo. Da dove nasce il suo affiancamento pieno e duraturo alla vicenda editoriale di Morselli, che poi sfocia nelle varie curatele delle opere pubblicate da Adelphi? 
Nasce dalla fortuna di ricevere un compito da Adelphi all'inizio dell'avventura morselliana (1975, appena laureata): quello di inventariare tutti gli scritti rimasti nei vari scatoloni custoditi a Varese da Maria Bruna Bassi. Quel compito mi permise di entrare nel mondo di uno scrittore tanto profondamente: una esperienza unica, che ancora perdura.

LB: Pensare al suo libro e a quello di Simona Costa è per me un'occasione di riflessione su questo genere di collane (rispettivamente di Mursia e de La Nuova Italia che li ospitavano), le quali oggi non godono più di molta considerazione. Sotto le vesti di  "libri di servizio" si nascondevano dei piccoli capolavori di sintesi e di impegno critico, ai quali oggi sarebbe stupido rinunciare in un panorama di grande disorientamento. Nella realtà mi pare che molti snobbino questo genere di collane (ed è il motivo per cui non si vendono/vedono più). Vorrei un suo parere a riguardo, dal momento che l'editoria costituisce anche lo scenario del suo lavoro attuale. 
RISPOSTA: È vero: si trattava di studi seri, di primo approccio alla conoscenza degli scrittori, e forse proprio per questo non del tutto sufficienti. L'Editoria conosce momenti, stagioni. Evidentemente quelle pubblicazioni non assolvono più un compito che oggi si preferisce affidare alla lettura diretta. Non bisogna stupirsene. Oggi anche l'insegnamento è cambiato. Bisogna adeguarsi a una fruizione diversa dei capolavori. Del resto basta scorrere le classifiche, specchio dei gusti contemporanei del pubblico, delle mode editoriali. L'Editoria ha chiuso il 2012 con una crisi preoccupante, che riflette la crisi più ampia del Paese. Per sopravvivere bisogna rivedere i criteri, le scelte e adeguarsi. Morselli si chiederebbe se il romanzo è morto. Il romanzo classico, forse.  Si cimenterebbe con il genere 'giallo', mi sono sempre chiesta?

LB: Sua è anche la cura dei diari dell'autore. In quale rapporto di illuminazione reciproca stanno i diari e le opere dell'autore, se possibile con riferimento particolare a quell'opera "conclusiva" ed eccezionale che si incontra in Dissipatio H.G.? 
Come ho detto i numerosi quaderni, dai quali si è ricavata la scelta pubblicata da Adelphi, sono in prevalenza diari e appunti di uno scrittore e possono illuminare sul retroterra culturale di Morselli, sugli anni di formazione, sul percorso di gusto e gli itinerari della sua mente ondivaga, onnivora, mobilissima. Alcuni libri sono nati sui diari (Uomini e amori). Per altri i richiami diaristici indicano la direzione degli studi, delle suggestioni, delle letture che li hanno accompagnati. E infine anche, ma in misura minore, degli stati d'animo. 

LB: Può ricostruire a grandi linee il profilo della fortuna di Morselli al di fuori dei confini italiani? Esiste qualche isola di attenzione particolare che vale la pena menzionare?
RISPOSTA: Morselli è stato ampiamente tradotto all'estero, in Europa ma non solo. Ricordo un inglese di Durham, pazzo di Morselli, che nel tradurre i suoi romanzi mi faceva molte domande per meglio capire l'uso di certi termini italiani. Venne in pellegrinaggio a Gavirate. Bisognerebbe però consultare tutte le edizioni e la storia dei diritti venduti da Adelphi e qui mi fermo. Un percorso che non ho seguito capillarmente. Come anche l'esito della fortuna critica all'estero.

LB: Trovo che uno degli aspetti più interessanti sia il ricorrere di quel ragionamento percussivo attorno ai tamburi dello specialismo e del dilettantismo. Soprattutto il ricorrere del "dilettantismo", riferito al proprio percorso, è a mio avviso uno dei lasciti più potenti della riflessione morselliana. Qual è il suo pensiero a riguardo? 
RISPOSTA: Concordo in pieno. Questa sua visione culturale e insieme filosofia di vita, questa sua capacità di understatement, il non prendersi mai sul serio e il ritenersi comunque sempre un dilettante, è ciò che ha permesso allo scrittore  di toccare vette alte con la sana consapevolezza della relatività del tutto. Oggi Morselli avrebbe tuonato contro l'esasperante specialismo, l'ipertecnologia che sta invadendo campi anche letterari. Il libro in digitale gli avrebbe fatto orrore. Non si sarebbe piegato alle attuali logiche del mercato, alle leggi del marketing, e via di seguito.

LB: Se dovesse oggi, a distanza di anni, "invitare alla lettura" di Morselli menzionando tre vettori di interesse verso la sua opera, cosa direbbe ai lettori di questo blog?
RISPOSTA: Consiglierei di leggere ancora i libri di Guido Morselli per l’intelligenza, la molteplicità dei mondi raccontati, la prosa perfetta.

LB: Quale il più bel "libro breve" di Morselli? 
RISPOSTA: Comincerei da Divertimento 1889, un piccolo gioiello, e se il virus attecchisse continuerei con Dissipatio H.G. e poi percorrerei tutta la parabola creativa morselliana. Certamente la noia non starebbe mai in agguato.

giovedì 24 gennaio 2013

Le prossime presentazioni del libro "Pertiche"

Di libro breve si tratta. Segnalo allora sinteticamente le prossime presentazioni di PerticheGrazie sin d'ora a chi vorrà partecipare.


Un particolare della sala di Teatro Capovolto
visto da Agnese Sormani














Venerdì 25 gennaio 2013 - Ore 21:00
Negli spazi dell’associazione Teatro Capovolto, a Carbonera (Treviso), presentazione e lettura da Pertiche (2012, La Vita Felice). 
Introduce la serata Gian Mario Villalta. 
Prima lettura del poemetto sulla Prima guerra mondiale Nella demenza che non sa impazzire con la presenza del percussionista Lucio Bonaldo. 
Per INFO e PRENOTAZIONI: cell. 3332109071 - 3402519136, evento Facebook qui.

Domenica 10 febbraio 2013
Alla fattoria “Rio Selva” (Preganziol, Treviso). 
Chi fosse interessato a questa formula inedita di pranzo seguito da letture di poesia può chiedere informazioni via email (vedi in fondo al blog) o al numero 347/7980873.
All'evento parteciperanno, con le loro poesie, anche Gian Mario Villalta e Mary Barbara Tolusso.
Evento ideato e curato da Marco Scarpa.

Giovedì 7 marzo 2013 - Ore 19:00
All’osteria da Filo (ex Poppa), Santa Croce, 1539 Venezia (Campo San Giacomo dall’Orio, Tel. 0415246554), presentazione e lettura da Pertiche nell’ambito della rassegna “La poesia del giovedì” organizzata da Giulia Rusconi e Maddalena Lotter.

lunedì 21 gennaio 2013

"La poesia del giovedì" all'Osteria da Filo: Marco Scarpa

Entra nel vivo la rassegna "La poesia del giovedì" curata da Maddalena Lotter e Giulia Rusconi. Con cadenza quindicinale, l'Osteria da Filo (ex Poppa) a Venezia (Santa Croce 1539, Campo San Giacomo dall'Orio) diventa teatro delle voci dei poeti invitati dalle curatrici.


Giovedì 24 gennaio 2013
Osteria da Filo, Venezia, h. 19:00
Presentazione e reading di Marco Scarpa
Allla chitarra: Daniele Scarano
info: portalepoesie@gmail.com


Marco Scarpa è nato a Treviso nel 1982. Laureato in Ingegneria Biomedica, si occupa di chirurgia vertebrale come Product Specialist. Per quanto concerne la poesia ha collaborato con il teatro Comunale di Vicenza, inserendo sue poesie collegate alla musica nell’ambito della stagione di musica sinfonica 2011/2012. Mac(‘)ero è la sua prima raccolta poetica, pubblicata per Raffaelli Editore (Rimini 2012). Tra i riconoscimenti, si segnala la menzione al Premio Lorenzo Montano per la raccolta “Bailamme”nel 2010 e la menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano per la raccolta MacEro nel 2011. Si dedica inoltre all’organizzazione di incontri di poesia in luoghi spesso inusuali, gravitando tra Treviso e la sua provincia.
















Di seguito un paio di poesie di Marco Scarpa. Ricordo che il suo libro d'esordio Mac(')ero è stato recensito qui.


OTTIMIZZAZIONE



L'indole presta l'affondo, il bavaglio
alle male parole ordinate nei ripiani:
la visione del frigo vuoto, la soluzione
in una lista, l'intera faccenda
liquidata in più punti. Lo smarrimento
quando schiacciati riemergono, minuti
sopra le vertebre, oltre le rughe, segnati
dagli inganni. Le corse, le schiene spezzate
e l'ultima frase "Ho tentato di tutto
               ma le ore scivolavano".

(da Mac(')ero, Raffaelli Editore, Rimini 2012) 


Ti curo il male esposto, la ferita aperta
la parte che getta sangue sulle strade
tu vomita tutto, svuota le membra
non tenere in vista squarcio alcuno
spingilo in gola il male
è questione privata, sputa lontano
gli aghi, gli spilli, le idee acuminate,
i dolori più grossi senza farti scoprire
spera che i segni rimangano superficiali,
ci sono cerotti adatti ad ogni dimensione.
Vieni dentro quattro mura, tutto è lindo,
ci sono specialisti che sanno cosa fare
mettono le toppe ad ogni cicatrice, hanno
studiato per anni le patologie
“se quello troveranno quello cureranno”
gli altri ti vedranno bene anche se dentro
ti rimarranno macchie, scie di sofferenza,
spasmi, ulcere vaghe. Tu imparerai
i sintomi, le avvisaglie, saprai farti forza,
tratterrai lungo le arterie le lamentele.
Stare bene è anche questo, avere
denti buoni per sfatare il male.

(Testo inedito)

domenica 20 gennaio 2013

da "Sfavorevole agli addii" di Nathan Zach

Una poesia da#17













Ormai sedici anni fa, nel 1996, Donzelli proponeva nella bella traduzione di Ariel Rathaus una scelta di poesie del poeta israeliano Nathan Zach. Sfavorevole agli addii (pp. 96, euro 9,30, di probabile difficile reperibilità) costituì l'esordio di Zach nel nostro paese. Tre anni fa seguì Einaudi la quale, sempre per la cura di Ariel Rathaus, pubblicò Sento cadere qualcosa. Poesie scelte 1960-2008. Questa pubblicazione si differenziò da quella della casa editrice romana per l’audace e affascinante scelta del testo ebraico a fronte. Chi conosce questa lingua ci racconta di un ebraico cristallino, vicino alla lingua parlata e pertanto - va riconosciuto - penso si possa dire che il lavoro di traduzione di Rathaus sia ottimo. Difficilissima è la valutazione di una traduzione non potendo attingere all’originale, però, pur nella piena ignoranza della lingua di partenza, mi pare di poter serenamente affermare che anche la lingua ricreata da Rathaus sia efficacissima. Di questo poeta, nato a Berlino nel 1930 da padre ebreo tedesco e madre italiana, riporto soltanto una poesia, la prima di Sfavorevole agli addii. Credo che questa manciata di versi sia sufficiente a sollevare quell’interesse per l’approfondimento che chi vorrà potrà portare avanti, eventualmente anche in prosa (sempre Donzelli ha pubblicato nel 2003, nella versione di Elena Loewenthal, forse la nostra principale traduttrice dall’ebraico, L'omino del pane e altre storie).













Sii prudente. La tua vita apri
solo a venti che portano carezza
di lontananza. Sopporta la mancanza, la voce
alza soltanto in notti di solitudine. Sappi
il giorno, il tempo giusto, l'attimo, e non
incalzare. Volgiti a ciò che tace. L'ombra che giace
sotto il guscio di carne sappi benedire, non
nasconderti dentro le parole. Siedi con sapienza
di verme, raziocinio di lombrico. Non aspettare.

mercoledì 16 gennaio 2013

Long Play e altri volteggi della puntina. Ritorna l'Adorno in musica

Trovo tempestiva e opportuna questa proposizione di alcuni scritti musicali di Theodor Wiesengrund Adorno. Long play e altri volteggi della puntina (Castelvecchi, pp. 64, euro 9) è un volumetto che rimette in circolo alcuni dei contributi più rilevanti della riflessione adorniana sulla musica. Dicevo "tempestiva" e "oppurtuna": tempestiva perché è bene tornare a parlare di musica e di critica musicale con chi ha insegnato a farlo, tanto più in un periodo dove le preoccupazioni sulla smaterializzazione della musica sembrano soverchiare qualsiasi altro dibattimento; opportuna perché, come ottimamente riesce anche Massimo Carboni nell'utile prefazione, una pubblicazione del genere contribuisce ad allontanare Adorno da quell'inutile casella di "apocalittico" in cui è stato più volte rinchiuso, operazione che ha contribuito non poco ad inaridire il portato della sua riflessione. Chi scopre Adorno, anche nel dialogo con gli artisti e i poeti, nelle lettere ad esempio, potrà invece iniziare ad apprezzare un filosofo persino simpatico, immerso nelle relazioni umane, tutt'altro che apocalittico (e tantomeno "integrato"), una persona posseduta da una sorta di dàimon che lo porta a formulare riflessioni basilari sul quel rapporto dialogico tra opera e critica, sulla critica come esigenza-interrogativo intimo posto dall'opera, sugli scarti e sui ritardi costituzionali tra opera e critica, sentite come due facce di un'unica pagina, le quali dovrebbero tornare a esser visitate e sfogliate con un unicum. In altre parole abbiamo facile gioco a dire che la critica è morta (quasi una frase di comodo che ricorre nei contesti più disparati, ormai); se la critica è morta allora con lei è morta anche la musica, è morta la poesia e sono davvero morte le altre arti. Ma non voglio arrivare al galoppo a Hegel o a quello che ha innescato la sua riflessione sull'arte. Torneremo alla fine su questo punto importantissimo che interfaccia opera, critica e oggi anche il giornalismo; l'importante ora è mettere a fuoco subito questa profonda necessità reciproca di critica e opera che Adorno torna a ricompattare, soprattutto nell'ultimo contributo di questo libretto.

Il volume si apre con Volteggi della puntina, saggio sul grammofono e sul fonografo: qui potrete leggere la celebre similitudine tra piatto del fonografo e tornio del vasaio ("Il piatto dei fonografi è paragonabile al tornio del vasaio: la massa sonora viene plasmata su di esso e la materia è già data. Ma il vaso sonoro che così nasce resta vuoto. Sarà l'ascoltatore a riempirlo"); il libro poi prosegue con il brevissimo e incisivo saggio sulla Forma del disco, e affonda quindi nella rivoluzione del "long play" nel successivo terzo contributo intitolato Opera e long play. Il tutto si chiude con un più articolato intervento a una conferenza del 1967, qui tradotto col titolo di Riflessioni sulla critica musicale. Si tratta senza dubbio del saggio più interessante, dove la riflessione si condensa e, per come è strutturata, per come questa si apre, presenta persino una certa intercambiabilità del discorso con altre critiche immaginabili dal lettore (letteraria, d'arte). Affrontando questi quattro contributi in sequenza non è difficile chiedersi, semplicemente: e oggi? Che cosa è successo alla musica, oggi? Quella della smaterializzazione è solo una finta "rivoluzione" o è una realtà che mina alla base l'essenza di questa pratica umana, l'arte che più di ogni altra dialoga con l'incertezza, il non sapere davvero dove la musica inizia e dove finisce (per riprendere qui un celebre pensiero di Vinko Globokar). Da critici, forse bisognerebbe tornare a interrogare gli artisti ponendo domande terra-terra, elementari: anche questo in parte sembra essere l'insegnamento adorniano, con buona pace di chi l'aveva posto nel severo "piedistallo" profetico e apocalittico.

Conclusa la lettura sale come un automatismo una domanda: ma perché il filosofo e sociologo Adorno si interessava così tanto di musica? Adorno, con la sua riflessione, ci ricorda implicitamente qualcosa di semplice e importante: la musica è sempre stata parte fondamentale della riflessione filosofica. Dai pitagorici a Nietzsche, passando per Leibniz o Bloch (di Carlo Migliaccio, Musica e utopia. La filosofia della musica di  Ernst Bloch), la speculazione filosofica sulla e nella musica ha significato eo ipso una parte fondante e costitutiva del percorso filosofico dell'uomo. Oggi in questa si registrano sbandamenti, divagazioni, vago entertainment e si rischia di perdere quest'unità costitutiva dell'essere umano tra filosofia e musica, una conquista antica e precoce che stiamo progressivamente smarrendo. Pensiamo anche a compositori come John Cage, all'inevitabile riflessione attorno (dentro?) al silenzio, a Luciano Berio, alle frequentazioni tra musica e teoria della Gestalt, al Wittgenstein musicale, oppure interroghiamoci sull'esistenza di una grandissima percussionista sorda come Evelyn Glennie, alla quale anche il giovane filosofo italiano Andrea Baldini ha dedicato studi pionieristici in un paper intitolato Touching the sound che mi è capitato di leggere tempo addietro, su consiglio del sempre stimolante Davide Sparti.

E allora ritorno sul binomio arte-critica sollevato in apertura, per rispondere in un sol colpo (ma c'è sempre spazio per i commenti, se vorrete) a interrogativi caduti lungo il percorso di chi vi scrive. Ci ritorno perché ci ho pensato continuamente durante tutta la lettura del quarto saggio di questo libro. Qualche volta, ad esempio, più o meno esplicitamente, mi è stato chiesto se con un blog del genere (e prima ancora con le riviste) intendevo fare giornalismo o critica. La risposta è ovviamente negativa per entrambi i casi. Del giornalismo sono sempre mancati i soldi per i quali, da quando il giornalismo esiste, il giornalismo si fa, con esiti che vanno dal deprecabile all'eccezionale. Per fare critica mi mancano invece innumerevoli (troppi) requisiti, culturali e probabilmente pure morali. Il punto non è quel che faccio io, ma la convinzione fondamentalista di molti, cioè che sia necessario schierarsi nettamente sul versante giornalistico o su quello critico, dimenticando anche ciò che comunemente finisce sotto l'etichetta di divulgazione e che è spesso la base della crescita culturale. Tale netto schieramento di campo, a mio avviso, oggi si configura impraticabile. Il buon giornalismo ha lasciato intuire enormi potenzialità, ben più incisive della critica, mentre la critica spesso si è racchiusa a guardarsi l'ombelico in cimiteri disciplinari alimentati soltanto dai lumini della "pubblichite" accademica. La questione è troppo ampia e andrebbe affrontata con una certa "tensione rilassata" di fondo, senza fondamentalismi appunto, consapevoli che il mondo non è finito il mese scorso e probabilmente non finirà domani. Finito, soprattutto in accezione diversa, estetica, è l'uomo. Anche un recente scritto di Claudio Giunta su Gianfranco Contini mi aiuta nel ragionamento e mi conforta: Contini è stato quasi certamente il critico letterario più intelligente e importante del secolo scorso, una figura capitale per la cultura italiana e non solo. Eppure non è detto che abbia necessariamente scritto le cose importanti e abbia depositato i saperi oggi irrinunciabili. Claudio Giunta riconosce ampiamente i meriti del maestro, la sua intelligenza difficilmente raggiungibile, ricordata dalle tante iniziative del 2012 appena concluso, anno del centenario della nascita. Anche chi scrive non può che silenziosamente accodarsi in questo duraturo attestato di stima intellettuale e morale. Ma allo stesso tempo, tra i primi a dimostrarlo, Giunta ha il coraggio di concedere al critico e linguista di Domodossola un'iniziale irrecuperabile distanza, consapevole e giusta, condivisibile, che gli fa concludere che "le cose di cui lui si è occupato non sono esattamente le cose che a me interessano, e che i problemi che lui si è posto – le domande che ha fatto ai libri, diciamo – non sono esattamente quelli la cui soluzione, o (meglio) la cui riformulazione a me sta a cuore." (Tra l'altro, sia detto per inciso, non dovremmo dimenticare pure l'umiltà di Contini, il suo lavoro "sporco" che l'ha portato ad essere il critico che tutti stimiamo: quanti sedicenti critici sarebbero oggi disposti a immergersi in quel lavoro? Quanti critici fondamentalisti richiamano per sé l'etichetta di critico senza un grammo di quell'immensa fatica?). Detto in altre parole, non è forse nel Breviario di ecdotica o in altri scritti continiani che rintracceremo le mosse più interessanti per raccapezzarci in questo tempo difficile. I confini sono frastagliati: abbiamo bisogno di leggere questo Adorno, abbiamo bisogno di studiare Contini e continuare a stimarlo, in tutti i sensi del verbo "stimare", abbiamo estremo bisogno di comprendere i movimenti della scienza d'oggi, come abbiamo estrema necessità di capire da dove potrebbe venire una rottura di continuità importante, che illumini un po' questo tempo e che faccia vivere anche alle intersezioni tra arte, critica, scienza e politica una nuova fiorente stagione. 

Perdonerete quest'incursione, dove ho accennato persino ai territori disordinati di questo blog. Prendetevela con Adorno. Si parva licet... Ma tutta questa tirata serviva per rispondere a domande che mi sono state poste strada facendo, in questi anni, spesi anche tra riviste e blog, per ribadire ancora una volta che i fondamentalismi non ci fanno per niente bene. E per rimediare almeno un po' vi lascio a Evelyn Glennie... o preferivate Globokar?



domenica 13 gennaio 2013

"Paesaggio e tempo" di Michael Jakob

Ripescaggi #18












----
Non ricordo bene dove uscì questa recensione. Avrete capito che non sono ordinatissimo nell'archivio dei miei file e in fin dei conti il blog è anche un tentativo di dare più ordine, un archivio pubblico e pubblicato, nella speranza che risulti talvolta utile a qualcuno e non solo agli studenti che cercano riassunti per le loro tesine (vi riconosco, anche dalle parole chiave, e da certi commenti che avete lasciato: questo non è un blog per studenti svogliati, l'avrete capito). Forse la recensione alla fine non uscì nemmeno con la rivista con cui la concordai (credo fosse "La Mosca di Milano") ed ecco che allora, per non buttar via nulla, la pubblico ora qui. Si tratta di un breve scritto su Paesaggio e tempo di Michael Jakob (Meltemi, 2009, pp. 141). Saprete che la casa editrice Meltemi purtroppo non pubblica più dal 2010, dopo sedici anni di attività in cui aveva seminato titoli e tradotto autori davvero interessanti.
----

Ecco una domanda che potrebbe gettare in confusione il lettore: quando è comparso il paesaggio? Da tempo, e in particolar modo con quest’ultima opera tradotta in italiano, a questo intrigante interrogativo prova a rispondere Michael Jakob, comparatista e teorico del paesaggio, che in tanti conosceranno per la direzione, insieme a Maura Formica, della collana “di monte in monte” della casa editrice Tararà di Verbania (La lettera del Ventoso del “Petrarca alpinista” ne costituisce ad oggi la perla più bella). Paesaggio e tempo è un’opera costantemente in movimento tra riflessione teorica, filosofica e letteraria, confronto con l’attualità e offerta di spunti visivi sui quali aggrappare una riflessione (il volume è infatti corredato di bellissime immagini funzionali al discorso dell’autore).

Per quanto concerne il primo aspetto della riflessione teorica, filosofica e letteraria sul concetto di paesaggio, Jakob si muove con la destrezza del comparatista tra la comparsa di questo in epoca ellenistica e poi romana, le alterne vicende nel Medioevo, fino al massimo splendore nell’Europa dell’Ottocento. La letteratura, i viaggi, il diffondersi delle immagini hanno portato l’idea di paesaggio ad essere il crocevia di una serie di relazioni umane, economiche e simboliche.

Oggi di paesaggio si discute molto e la legislazione si sta adoperando per la sua tutela, anche se i pericoli denunciati da Salvatore Settis nel suo fortunato Italia Spa sono a molti ben noti. Jakob affronta le minacce che incombono con la musealizzazione, la manipolazione e la virtualizzazione del nostro rapporto con la natura e il paesaggio. Non è difficile comprendere dove lo studioso voglia andare a parare: ci sono indubbiamente dei pericoli latenti e, prendendo come spunto la musealizzazione, per l’uomo della strada non è difficile notare il proliferare di aree protette che, pur sorte per nobili e talvolta benemeriti intenti, rappresentano anche lo specchio di un rapporto difficile, viziato, fors’anche malato dell’uomo con il paesaggio.

Il tempo citato nel titolo costituisce l’altra grande faccia del ragionamento di Jakob. Vi è un momento della storia in cui paesaggio e tempo diventano compagni inseparabili. Questo avviene nelle rappresentazioni del paesaggio di certa pittura e segnatamente, in seguito, nell’arte cinematografica del Ventesimo secolo. La comparsa del fattore temporale è determinante per la vita del paesaggio di oggi, per come lo conosciamo e per come lo studiamo ed è in questo frangente che l’analisi di Jakob mostra i tratti più innovativi. Tanto è fondamentale il fattore temporale che siamo arrivati a studiare certi paesaggi in funzione della mancanza o della sospensione del tempo che in questi alberga.

mercoledì 9 gennaio 2013

da "Erba di sogno" di Yvan Goll

Una poesia da #16


Traumkraut uscì postumo nel 1951 per la casa editrice Limes Verlag di Wiesbaden. L'autore, nato a Saint-Dié-des-Vosges nel 1891, era morto nel 1950 di leucemia. Einaudi lo propose nella sua collana bianca di poesia (un tempo davvero un filtro fondamentale di ciò che usciva nel mondo, oggi purtroppo irrimediabilmente perso) nel 1970, con il titolo di Erba di sogno (pp. 134, lire 1000 l'edizione da me consultata, titolo ormai irreperibile), nella traduzione di Lia Secci e con una prefazione della moglie dell'autore, Claire Goll (vero nome Claire Aischmann), sulla quale torneremo brevemente in seguito. Goll (vero nome Isaac Lang) è uno dei moltissimi ebrei messi in fuga dal nazismo. Lasciò la Germania nel 1933 e da lì inizierà una stagione di scrittura in francese che comprende anche il noto ciclo di ballate Jean Sans Terre. Il suo è un interessante caso di bilinguismo pressoché perfetto, che lo porta a bagnarsi, in pieno, in due delle fondamentali correnti della poesia europea del Novecento:  il surrealismo francese e l'espressionismo tedesco. Ed è da una poesia dalla raccolta postuma, in tedesco, che vuole passare il ricordo della sua scrittura. La raccolta Traumkraut fu spesso chiamata in causa per quel noto affaire di plagio che vide Paul Celan, suo amico, morto tra l'altro nell'anno della traduzione einaudiana, trascinato in una disputa senza vincitori né vinti dalla moglie di Goll. Lasciano sempre perplessi queste accuse di plagio orbitanti attorno alla montagna della scrittura poetica, anche perché in fondo il miglior dettato poetico è probabilmente una sorta di plagio puro divenuto irriconoscibile. Ma non è di questo che si può e deve parlare in uno spazio del genere. Chi vi scrive non ne ha certo competenze e diritto di farlo. Largo alle parole di Goll allora e alla traduzione di Lia Secci, per la quale mi tornavano in mente alcune riflessioni che Fernando Bandini consegnò a un suo brevissimo scritto dal titolo I misteri della traduzione: se l'originale non invecchia mai, una traduzione invecchia sempre e presto. In parte sembra di avvertire questo assioma anche nel pur pregevole lavoro della Secci.












GREISE

Euer nelkenfarbenes Fleisch
Das noch von mageren Vögeln zehrt
Und daran Feuer fängt

Singet langsamer ihr Greise
In dem verwandelten Wind
Und laßt die Sonne bröckeln
Zwischen den Fingern

Der blaugefiederte Schlaf
Hat Totenzähne
Und die Stimme des Kalks


VECCHI


La vostra carne color garofano
Che ancora si pasce di magri uccelli
E prende fuoco

Cantate più lenti voi vecchi
Nel vento mutato
E fate sbriciolare il sole 
Fra le dita

Il sonno piumato d'azzurro
Ha denti di morto
E la voce del calcio