Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #10
Il dibattito attorno alla poesia e il meta-discorso che la avvolge da qualche tempo a questa parte stanno prendendo delle pieghe pericolose nonché, alla fine, assai noiose. Il fatto che siano pieghe noiose dovrebbe scoraggiare un intervento che le riguardi, ma la noia non si è ancora trasformata del tutto in indifferenza. Non sto parlando del discorso critico, bensì del discorso fatto da poeti e "operatori del settore" attorno alla poesia. Sembra che il piccolo mondo antico di chi nutre qualche interesse per la poesia (interesse intellettuale, ma anche economico o di prestigio e riconoscibilità) provi improvvisamente a mondarsi di tutti i risaputi vizi che lo attanagliano e che sono - ne elenchiamo alcuni così vediamo se è vero che repetita iuvant - un banale do ut des, clientelismo, logiche di cartello-servizio-favore, altre scorciatoie e situazioni in cui giudizio fa fin troppo rima con orifizio, il trascurare il progetto e l'opera, concetti troppo difficili ai quali si preferisce un più semplice ammaliamento per l'immagine di un autore o editore. Sono tutte problematiche di sfondo facilmente superabili, non sostanziali, a patto che si voglia veramente superarle o lasciarle sullo sfondo, dove possono tranquillamente rimanere senza troppo disturbare. Attenzione va prestata affinché queste problematiche di sfondo non intacchino la sostanza, se c'è, e non infestino tutti i pozzi. In questo scenario, mancava solo che si iniziasse a parlare di editori, collane e selezionatori "leali", di poesia "onesta" (vecchio cavallo di battaglia sabiano buono per tutte le stagioni, non importa se completamente avulso dal suo contesto originario), addirittura di poesia e poeti difesi e salvati da una legge apposita. Chi più ne ha più ne metta ed è prevedibile che a ridosso della Giornata mondiale della poesia si alzi il tiro e se ne sentano di cotte e di crude. Ognuno può raccogliere dati del genere da più fonti (siti, comunicati stampa delle case editrici, profili di social network, quarte di copertina, discorsi a festival e presentazioni ecc.). Si salvi chi può. E poi il c'è il fantomatico "lettore", questo Carneade: nominato, invocato, ripetuto come un mantra come se la ripetizione ne generasse miracolosamente di nuovi, protetto con un piglio da WWF o come ennesimo presidio Slow Food. Quanta inutilità e, nei casi peggiori, quanta velenosa approssimazione si cela tra questi discorsi?
Nella maggior parte dei casi tutti questi dibattiti, discorsi e annunciazioni si riducono a grasso che cola, ad aria fritta, a peti centripeti buoni soltanto per gli stessi poeti, in un circuito che come noto si dipinge solitamente chiuso e centripeto, appunto. Bisognerebbe capire come si fa veramente a spalancare le finestre per cambiare l'aria viziata di quelle scoregge concettuali che insiste tra le stanze e i poetici salotti. Prendete il discorso attorno al lettore, questa (compatibile?) creatura sacrificata al moloc della lettura: il "lettore" non può essere dato una volta per tutte e studiato solamente con parametri sociologizzanti. Per me il lettore è una persona che in un dato momento della propria vita mette in gioco la propria intelligenza nella lettura (o rilettura) di un'opera testuale. Ora come ora non saprei trovare una definizione più aderente, tetragonale, puntellata sulle quattro parole che ho messo in corsivo, con particolare accento su opera, dal momento che persona, intelligenza e lettura sono chiamati in causa anche per leggere un commento su un social network o una comunicazione dell'Agenzia delle Entrate (e non fa male continuare a pensare che ogni OPUS è zero più pus, come scriveva Zanzotto). E poi il testo, il benedetto testo: dov'è finito in tutti questi discorsoni sulla poesia? Parimenti, la lingua: dove si è spostata la questione della lingua, la quale non può mancare in qualsiasi riflessione o dibattito sulla poesia che siano degni di questi appellativi?
Non è il caso di dilungarsi, basti esprimere ora un disagio ma soprattutto la necessità che si inizi a dibattere in termini mutati. Questo intervento non è uno sfogo. Di sfoghi abbiamo piene le tasche e non sappiamo bene cosa farcene ormai. Ognuno saprà trarre le proprie riflessioni e nei casi più fortunati le proprie conclusioni. Credo che sia utile sollevare dei dubbi sull'utilità di una certa "antifona delle virtù" che ci stiamo abituando ad ascoltare e a leggere ogni volta che l'argomento è la poesia e i guardiani del suo tempio salgono in cattedra. Io penso che la poesia stia di gran lunga meglio nell'incerto, soprattutto quando non è più di tanto invocata e tirata per la giacchetta per esplicitare strategie e visioni del mondo "leali", "buone", "generose", "eque", "politically correct" o "oneste". Ci manca solamente che a questa serie di aggettivi s'aggiunga la "purezza" e poi la palude sarà esiziale. In questo panorama il tanto vituperato "censimento dei poeti" di Pordenonelegge - criticato anche da chi ha poi partecipato - è meno problematico e pericoloso di quel che si possa pensare, è una pratica finalmente "empirica" e asettica (nonché un'operazione di web marketing semplice, economica ed efficace come poche altre ai tempi di Google). Molti discorsi ruotanti attorno alla poesia stanno diventando pericolosamente noiosi, ottundenti e ridondanti. Poco interessanti, in ultima analisi. La situazione è così già da un bel pezzo, ma mi pare che stia peggiorando a vista d'occhio. Lealtà e onestà restino fuori dai discorsi, restino sullo sfondo e in orizzonte, ma si eviti di nominarle troppo, perché più si tirano in ballo più si sente puzza di bruciato e di flatulenza nauseabonda. E infine non c'è niente da salvare e tutelare se non il testo poetico, che fra l'altro si salva e si tutela benissimo da sé, se è aggrappato a tappe e boe inaggirabili del pensiero e della storia, di un dato immaginario, di una lingua.
giovedì 31 marzo 2016
lunedì 28 marzo 2016
"No memory, desire, understanding"? Per una riabilitazione dell'oblio
Scrive nell'introduzione Walter Procaccio, curatore dell'opera, che il quaderno è un'antologia di capitoli in sé chiusi che tentano l'operazione ardua e coraggiosa della riabilitazione dell'oblio. Prosegue scrivendo che "una sterminata letteratura conferisce alla memoria, all'archiviazione diligente, alla testimonianza il rango di dovere etico e all'oblio quello di perdita tragica e colpevole di qualcosa che invece dovrebbe permanere". Alla fine di tutto, l'intento di chi contribuisce a questo volume è mostrare come l'oblio possa considerarsi "risorsa prosperosa". Insomma, come riporta Paolo Carignani nel suo scritto, l'antitesi che mette di fronte memoria e oblio è ingiustificata in quanto questi sono due atti un unico processo. Per Maurice Blanchot chi vuole ricordare deve affidarsi all'oblio, "a quel rischio che è l'oblio assoluto e a quel caso fortunato che allora diventa il ricordo". Le continue cicatrici con cui si graffia il corpo e l'intelletto, le relative tracce mnestiche e tutto un filone di studi sul trauma possono avere molto più a che fare con l'oblio che con il ricordo. E per molti versi, l'atto di ricordare non ha nulla a che vedere col passato. Di qui, e anche dalla profonda inalienabile necessità dell'uomo di calmarsi, passa questo interessante tentativo di riabilitazione dell'oblio, espresso in questo fascicolo a più voci color carta da zucchero.
lunedì 21 marzo 2016
La scrittura della violenza e i sentimenti elementari. Un'intervista a Lucia Rodler sull'opera di Goffredo Parise a trent'anni dalla morte
Librobreve intervista #66
Il 31 agosto di quest'anno sarà trascorso un trentennio dalla morte di Goffredo Parise, avvenuta a 57 anni non ancora compiuti all'ospedale di Treviso, dopo una lunga serie di sofferenze cardiache e dialisi. Sono già diverse le iniziative e le pubblicazioni che si immaginano per questo anniversario. In anticipo, già lo scorso anno Adelphi aveva mandato in libreria «Se mi vede Cecchi, sono fritto». Corrispondenza e scritti 1962-1973, ovvero il carteggio con Gadda curato da Domenico Scarpa. S'annuncia anche un numero monografico della rivista "Riga", curato da Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa. Oggi vogliamo dedicare attenzione al recente studio di Lucia Rodler, docente allo IULM di Milano. Si intitola Goffredo Parise, i sentimenti elementari e l'ha pubblicato Carocci nelle ultime settimane (pp. 224, euro 17).
LB: Come si dice ai colloqui di lavoro, "le faccio una domanda cattiva". Io vorrei partire in medias res, anzi, vorrei partire postumo, cioè dal romanzo L'odore del sangue. Quando lessi il libro lo trovai una delle opere più radicali e coraggiose di Goffredo Parise, quasi come il suo esordio (anche se per motivi ovviamente diversi). Ad un livello critico è invece questa l'opera che più ha diviso, anche in seguito al film che ne ha ricavato Mario Martone. Qual è il suo punto di vista sul dibattito che riguarda il "libro postumo"?
R: Sono contenta che mi faccia questa domanda perché ammetto di essermi avvicinata a L’odore del sangue con numerosi pregiudizi, suggeriti da una certa critica al libro e alla versione cinematografica (che non mi è piaciuta anzitutto perché altera l’equilibrio particolarissimo tra dialoghi e fantasie del romanzo). Ma subito mi ha conquistato il racconto senza censure della violenza delle parole dell’intimità (quelle di Filippo e Silvia, marito e moglie cinquantenni che si raccontano i rispettivi tradimenti) sullo sfondo della violenza sociale e politica degli anni di piombo, cioè gli anni Settanta. Perciò mi trovo del tutto d’accordo con quella critica (da Cesare Garboli ad Arturo Mazzarella) che ha parlato di un romanzo in qualche modo necessario che produce un turbamento complesso, verbale, sensuale, relazionale.
LB: Ritorno ora doverosamente al suo libro da poco edito da Carocci che è un'utile monografia su tutta l'opera dello scrittore del "Veneto barbaro di muschi e nebbie" che girò tutti i continenti. Quasi ogni lato del "poligono-Parise" è affrontato nel suo contributo. Se però domani dovesse approfondire uno di questi lati della sua attività di scrittore cosa sceglierebbe? E soprattutto, al di là dell'approccio generale, quale luce specifica ha cercato di gettare sull'opera e quali incendi ha tentato di appiccare, magari sugli aspetti più controversi?
R: Non amo appiccare incendi e preferisco cercare di comprendere la complessità di uno scrittore, senza necessariamente fare riferimento agli aspetti controversi. Perciò nel testo ho sottolineato ciò che mi ha più colpito, e cioè la ricerca costante e pertinace del nucleo di violenza nascosto dietro ogni spazio, ogni circostanza, ogni individuo, ogni popolo, ogni oggetto, ogni azione, ogni evento. E da questo punto di vista approfondirei il romanzo Il fidanzamento e la raccolta di racconti brevi contenuta nel Crematorio di Vienna. Sono due testi che concentrano in modo splendido la capacità che Parise ha dimostrato nel descrivere la violenza sia privata, familiare, sia pubblica, lavorativa.
LB: Il titolo del suo libro è un omaggio ai Sillabari. Rappresentano davvero il culmine della sua scrittura, a suo avviso? Esistono dei sentimenti, altrettanto elementari, coi quali andrebbero "aggiornati" i Sillabari oggi, quasi mezzo secolo più tardi?
R: Il titolo del volume non è una invenzione dell'editore o mia, ma una citazione. In almeno due circostanze infatti Goffredo Parise afferma di essersi occupato dei sentimenti elementari della vita umana. E non fa riferimento solo ai Sillabari dove, peraltro, accanto ai sentimenti, ci sono le emozioni, le sensazioni, le passioni, insomma le varie forme del divenire umano. E per questo, forse, i Sillabari sono racconti senza tempo, che commuovono e fanno pensare. Sono brevi, spesso hanno un finale inaspettato che non offre una soluzione, ma solleva dubbi e interrogativi sui rapporti umani. Da questo punto di vista rappresentano una prova eccezionale della scrittura parisiana e non vanno aggiornati perché si rinnovano ogni volta che un lettore li rilegge e prosegue dentro di sé la riflessione, ricordandone qualcuno e non qualche altro, raccontandone qualcuno e non qualche altro.
LB: Spesso vediamo nei Sillabari il libro della fama e della notorietà, eppure non bisogna dimenticare che Parise fu un autore di successo già da subito. Quello che fa impressione oggi è come ricordiamo i primi titoli (Il ragazzo morto e le comete, La grande vacanza, Il prete bello). Sono davvero titoli fondamentali di un'epoca del nostro paese, naturalmente assieme ad altri titoli di altri autori. Sembra davvero un altro mondo quello. Oggi faticheremmo a citare dieci titoli che rimarranno nell'immaginario (almeno quello letterario o delle persone "che leggono") tra quelli usciti negli ultimi 15 o 20 anni. Non crede che sia cambiato qualcosa in quello che potremmo chiamare, magari volgarmente, la "filiera produttiva" del romanzo? (Non mi riferisco necessariamente all'editoria e non è questa una domanda di editoria soltanto).
R: Non sono d'accordo sul fatto che oggi non potremmo fare un elenco di autori, di romanzieri in particolare, che possano rimanere nell'immaginario. Senza dubbio molte cose sono cambiate, soprattutto nei lettori che si costruiscono un canone individuale, scegliendo testi di scrittori stranieri, italiani, migranti, leggendo opere nella lingua originale, insomma avendo a disposizione molte più opzioni di un tempo. E questa è una fortuna, a mio avviso. Significa che le biblioteche personali sono inclusive, che non esiste più l'idea di un canone unico e indiscutibile. Il problema è piuttosto che i lettori sono ancora troppo pochi, almeno in Italia.
LB: Da un punto di vista stilistico, uno degli aspetti meno studiati di Goffredo Parise è forse il reportage, genere che tuttavia ha contribuito alla notorietà dello scrittore. Quali aspetti stilistici citerebbe come aspetti fondamentali introdotti dal Parise giornalista di guerra?
R: Trovo che la scelta di intervistare la gente del posto e riferirne le voci sia l'aspetto più interessante della scrittura del Parise reporter perché risponde all'esigenza di evitare i luoghi comuni, gli stereotipi, i pregiudizi che ogni individuo si fa su un popolo altro da sé. E questo riguarda il coraggioso reporter della guerra del Vietnam che unisce al diario, toccante, della sua trasferta presso l'esercito americano, una straordinaria intervista al comandante supremo delle forze americane William Childs Westmoreland che espone il suo punto di vista sul conflitto. E lo stesso metodo si ritrova anche nel reporter che racconta la Cina, il Biafra, il Laos e il Cile.
LB: Una deviazione ora: una riabilitazione o riavvicinamento a Parise potrebbe comportare, quasi come un automatismo, una parallela "riabilitazione" o un tentativo di riproposta dell'opera Giovanni Comisso, che fu a tutti gli effetti un maestro per Parise. A ben vedere però, nonostante il Meridiano, sembra che le cose per Comisso non stiano proprio così...
R: Al proposito conviene forse interrogare gli studiosi di Comisso. Mi permetto solo di dire che gli automatismi non riguardano la critica letteraria.
LB: Questa sua ultima puntualizzazione sugli automatismi che non devono riguardare la critica letteraria è molto interessante perché mi sembra densa di conseguenze, a maggior ragione se pensiamo che certi automatismi (o certe associazioni) governano talvolta le mosse della critica, soprattutto ad un livello di "nomi", più o meno consciamente. Ma fermiamoci. Un'ultima domanda: leggere Parise, soprattutto agli albori, assomiglia al perdersi dentro un quadro di Chagall. Per chiudere le vorrei chiedere però di un'opera (quadro, foto, scultura) che per lei ha senso ricordare parlando di Parise. Faccio insomma una "domanda cattiva" anche in chiusura e non vale la "Mademoiselle Pogany" di Constantin Brâncuşi di cui la casa di Ponte di Piave dello scrittore conserva una copia in giardino. Grazie.
R: A dire il vero non c'è cattiveria nella sua domanda. Senza dubbio ricorderei un'opera di Giosetta Fioroni, la compagna di Parise che è una pittrice e un'artista che Goffredo Parise ricorda anche in uno splendido articolo del 1965 sulla Pop-art italiana, raccolto nella silloge Artisti. E sceglierei il cuore rosso rappresentato sulla copertina del primo Sillabario nell'edizione Einaudi del 1972 (foto a lato: smalto rosso con foglie piume e sassi, sempre del 1972, ndr) perché rappresenta in un modo discreto, allusivo, denso, uno dei sentimenti elementari più importanti per un autore che ha analizzato la violenza tra gli individui.
Goffredo Parise (Vicenza, 1929 - Treviso, 1986) |
LB: Come si dice ai colloqui di lavoro, "le faccio una domanda cattiva". Io vorrei partire in medias res, anzi, vorrei partire postumo, cioè dal romanzo L'odore del sangue. Quando lessi il libro lo trovai una delle opere più radicali e coraggiose di Goffredo Parise, quasi come il suo esordio (anche se per motivi ovviamente diversi). Ad un livello critico è invece questa l'opera che più ha diviso, anche in seguito al film che ne ha ricavato Mario Martone. Qual è il suo punto di vista sul dibattito che riguarda il "libro postumo"?
R: Sono contenta che mi faccia questa domanda perché ammetto di essermi avvicinata a L’odore del sangue con numerosi pregiudizi, suggeriti da una certa critica al libro e alla versione cinematografica (che non mi è piaciuta anzitutto perché altera l’equilibrio particolarissimo tra dialoghi e fantasie del romanzo). Ma subito mi ha conquistato il racconto senza censure della violenza delle parole dell’intimità (quelle di Filippo e Silvia, marito e moglie cinquantenni che si raccontano i rispettivi tradimenti) sullo sfondo della violenza sociale e politica degli anni di piombo, cioè gli anni Settanta. Perciò mi trovo del tutto d’accordo con quella critica (da Cesare Garboli ad Arturo Mazzarella) che ha parlato di un romanzo in qualche modo necessario che produce un turbamento complesso, verbale, sensuale, relazionale.
LB: Ritorno ora doverosamente al suo libro da poco edito da Carocci che è un'utile monografia su tutta l'opera dello scrittore del "Veneto barbaro di muschi e nebbie" che girò tutti i continenti. Quasi ogni lato del "poligono-Parise" è affrontato nel suo contributo. Se però domani dovesse approfondire uno di questi lati della sua attività di scrittore cosa sceglierebbe? E soprattutto, al di là dell'approccio generale, quale luce specifica ha cercato di gettare sull'opera e quali incendi ha tentato di appiccare, magari sugli aspetti più controversi?
R: Non amo appiccare incendi e preferisco cercare di comprendere la complessità di uno scrittore, senza necessariamente fare riferimento agli aspetti controversi. Perciò nel testo ho sottolineato ciò che mi ha più colpito, e cioè la ricerca costante e pertinace del nucleo di violenza nascosto dietro ogni spazio, ogni circostanza, ogni individuo, ogni popolo, ogni oggetto, ogni azione, ogni evento. E da questo punto di vista approfondirei il romanzo Il fidanzamento e la raccolta di racconti brevi contenuta nel Crematorio di Vienna. Sono due testi che concentrano in modo splendido la capacità che Parise ha dimostrato nel descrivere la violenza sia privata, familiare, sia pubblica, lavorativa.
La casa in golena del Piave, a Salgareda |
R: Il titolo del volume non è una invenzione dell'editore o mia, ma una citazione. In almeno due circostanze infatti Goffredo Parise afferma di essersi occupato dei sentimenti elementari della vita umana. E non fa riferimento solo ai Sillabari dove, peraltro, accanto ai sentimenti, ci sono le emozioni, le sensazioni, le passioni, insomma le varie forme del divenire umano. E per questo, forse, i Sillabari sono racconti senza tempo, che commuovono e fanno pensare. Sono brevi, spesso hanno un finale inaspettato che non offre una soluzione, ma solleva dubbi e interrogativi sui rapporti umani. Da questo punto di vista rappresentano una prova eccezionale della scrittura parisiana e non vanno aggiornati perché si rinnovano ogni volta che un lettore li rilegge e prosegue dentro di sé la riflessione, ricordandone qualcuno e non qualche altro, raccontandone qualcuno e non qualche altro.
Prima edizione |
R: Non sono d'accordo sul fatto che oggi non potremmo fare un elenco di autori, di romanzieri in particolare, che possano rimanere nell'immaginario. Senza dubbio molte cose sono cambiate, soprattutto nei lettori che si costruiscono un canone individuale, scegliendo testi di scrittori stranieri, italiani, migranti, leggendo opere nella lingua originale, insomma avendo a disposizione molte più opzioni di un tempo. E questa è una fortuna, a mio avviso. Significa che le biblioteche personali sono inclusive, che non esiste più l'idea di un canone unico e indiscutibile. Il problema è piuttosto che i lettori sono ancora troppo pochi, almeno in Italia.
In Vietnam |
R: Trovo che la scelta di intervistare la gente del posto e riferirne le voci sia l'aspetto più interessante della scrittura del Parise reporter perché risponde all'esigenza di evitare i luoghi comuni, gli stereotipi, i pregiudizi che ogni individuo si fa su un popolo altro da sé. E questo riguarda il coraggioso reporter della guerra del Vietnam che unisce al diario, toccante, della sua trasferta presso l'esercito americano, una straordinaria intervista al comandante supremo delle forze americane William Childs Westmoreland che espone il suo punto di vista sul conflitto. E lo stesso metodo si ritrova anche nel reporter che racconta la Cina, il Biafra, il Laos e il Cile.
LB: Una deviazione ora: una riabilitazione o riavvicinamento a Parise potrebbe comportare, quasi come un automatismo, una parallela "riabilitazione" o un tentativo di riproposta dell'opera Giovanni Comisso, che fu a tutti gli effetti un maestro per Parise. A ben vedere però, nonostante il Meridiano, sembra che le cose per Comisso non stiano proprio così...
R: Al proposito conviene forse interrogare gli studiosi di Comisso. Mi permetto solo di dire che gli automatismi non riguardano la critica letteraria.
Il cuore di Giosetta Fioroni |
R: A dire il vero non c'è cattiveria nella sua domanda. Senza dubbio ricorderei un'opera di Giosetta Fioroni, la compagna di Parise che è una pittrice e un'artista che Goffredo Parise ricorda anche in uno splendido articolo del 1965 sulla Pop-art italiana, raccolto nella silloge Artisti. E sceglierei il cuore rosso rappresentato sulla copertina del primo Sillabario nell'edizione Einaudi del 1972 (foto a lato: smalto rosso con foglie piume e sassi, sempre del 1972, ndr) perché rappresenta in un modo discreto, allusivo, denso, uno dei sentimenti elementari più importanti per un autore che ha analizzato la violenza tra gli individui.
domenica 20 marzo 2016
I cambi di stagione: equinozio di primavera
In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno se non mi stufo prima, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi pigri post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.
L’accento perso
Non c’è quasi più traccia
d’accento, tutta sciacquata da anni
la lingua nei fiumi d’Europa. Fino
a qua arriva il ripulirsi le piume
e il mondare il riso, nei panni
dell’essere via, fuori da qui.
Rimanere e partire. Basta. Non c’entra
più nulla il nulla di un luogo:
vedi tu cambi tu e muti noi. Qui
non c’è traccia
d’accento, manca tutto salendo
le scale salendo le luci
attento ormai
al dire dare fare…
Tutto cosparso d’accento mondato, ma
senza taglio non c’è amore, non c’è
acqua che sciacqui le lingue dalle teste,
non c’è il verde dell’erba intiepidita.
E aggiungere parole non serve, e i luoghi
non sanno di questa bassacorte
riparata da latte e lamiere di una sera
lenta che diventa campo, diventa
prato e arriva sventata come una Pasqua.
On parle de:
Alberto Cellotto,
Cambi di stagione
mercoledì 16 marzo 2016
Il grande nulla e il sogno della griffe (pasquinata)
Pubblico di seguito l'intervento che ho scritto per il sito Diaforia.org. Questo testo è già comparso all'interno della serie di contributi sull'editoria di poesia raggruppati nel format "una modesta proposta". Sul sito Diaforia.org sono sinora usciti sul tema i contributi di Luca Rizzatello, Ermanno Moretti e Gualberto Alvino. Ringrazio Daniele Poletti per l'impulso e per l'ospitalità.
Ulteriore premessa nonché risposta a confutazioni che intravedo già sorgere: qualcuno vorrà rilevare che questo mio è un approccio troppo tecnico ad un tema così semi-esistenziale ed esistenzialista. Eppure stiamo parlando di “editoria di poesia”, quindi di attività legata al lucro, per quanto marginale e per quanto di marginalità bassa. Una domanda: qual è il lucro dell’editoria di poesia? Tale approccio tecnico insomma non è del tutto peregrino. Inoltre le dinamiche di brand sono note alle nostre case editrici, che non disdegnano un certo modo di cavalcare l’onda, o, come si dice in gergo “keep the hype up”, aiutate da stuoli di recensori annoiati e addomesticati, blogger o autori che si fanno portatori (sani?) del virus in rete, giovani critici intervistati che ruminano solo le novità editoriali statisticamente più citate dai blog “mainstream”. Il grande nulla intravisto nella comunicazione pubblicitaria delle case di moda anni fa è del tutto analogo al grande nulla dal quale rischia di essere sempre travolta l’editoria di poesia. Cambia solo il giro di soldi, e non di poco, anche se sussiste una certa idea di lucro. D’accordo, vi sono eccezioni a questa situazione desolante, ma ad un livello quantitativo apprezzabile non rilevo nessuna linea precisa, nessuna idea di poesia riconoscibile e quindi anche, finalmente, contestabile e attaccabile (sussistono gli attacchi ad personam tipici dei social, belli schermati… da dietro lo schermo). Non sto parlando di mancanza di un’identità di gruppo - e mai mi hanno troppo interessato i gruppi letterari - bensì della mancanza di un sacrosanto e basilare interesse per la scrittura poetica alla quale l’editoria di poesia deve rivolgere una vera attenzione. Quasi ovunque prevale l’idea e il sogno (scorciatoia) di diventare griffe poetica, magari con il ricorso a sistemi altri rispetto a quelli della selezione e della “qualità” del testo, del dibattimento e del rischio d’impresa (fuori e dentro metafora). L’autore e la sua immagine prevalgono sull’opera mentre l’editore, se ha la griffe per anzianità (pardon, per heritage) o se è riuscito a costruirla col tempo, può arrivare a prevalere su tutto. Proprio di recente un editore come Marcos y Marcos ha introdotto una “sfilata letteraria” per presentare le novità della “collezione primavera estate 2016”, curioso episodio che sembra dimostrare questa pulsione delle case editrici a farsi griffe e a mimare gli strumenti utilizzati nel campo della moda.
Quel grande nulla intravisto nelle campagne pubblicitarie delle case di moda (banalmente: scatto fotografico + logo e morta lì; selfie?) è più vicino di quello che pensiamo al grande nulla dell’editoria di poesia contemporanea. Siamo intossicati e abbagliati dalla griffe, autoriale o editoriale che sia. Il problema della gran quantità di libri di poesia che si pubblica/stampa è un falso problema se la carta la riciclano davvero e se esisteranno editori capaci di fare “seriamente” gli editori e quindi capaci di conversare, costruire un dialogo con gli autori, filtrare senza necessariamente flirtare, proporre un’illuminazione di un lato del diamante della scrittura poetica all’altezza dell’anno duemilasedici. Il diamante è lo stesso ma più editori possono contribuire a illuminarne un lato di volta in volta diverso. Il problema più volte sollevato che in troppi scrivono poesia e troppo pochi ne leggono è un ulteriore falso problema. Chi se ne frega, non possiamo bruciare la vita a rincorrere questi falsi problemi. Le problematiche reali su cui invito a riflettere sono allora queste tre: 1) il divismo e la costruzione autoriale ritenuta purtroppo primaria delle case editrici, dagli uffici stampa e da certi autori che hanno sempre saputo come perseguire determinate strategie di personal branding; 2) lo scadere dell’interesse per l’opera, per il pensiero e il progetto che la sottende e 3) l’editore che troppo spesso e troppo presto sogna di diventare griffe ovvero una sorta di Re Mida. Secondo il dizionario la griffe è “firma, marchio o etichetta di un artista, di uno stilista o di una azienda, specialmente su capi o accessori d’abbigliamento”. Ecco, non trascurerei il finale della definizione che ho messo in corsivo: capi o accessori. Di questo passo rischiamo di diventare tutti capi (capoccia) e accessori (aggettivo), intercambiabili. Non mi sembra un grande affare, ma se va bene a voi, buona camicia a tutti.
Mi è stato chiesto di contribuire a questa serie di
interventi sul tema solitamente scivoloso, vischioso e persino viscido che sta
sotto l’etichetta “editoria di poesia”. Sarò breve davvero. Difficile sostenere
una tesi precisa in poche battute, ma è quello che vorrei fare, anche se mi è
chiaro che un “testo argomentativo”, così come si prova a insegnarlo a scuola
sin dalle medie, non è ciò che più piace o ciò che si legge più volentieri
in rete. Negli spazi del web è più facile infatti sfrizzolare il velopendulo, puntare
alla pancia e scivolare nella polemica-commento infinita, nella capziosità
acchiappalike con la quale i social (ma anche gli strumenti di comunicazione
comprati dai social, come Whatsapp ad esempio) ci hanno oramai intossicato.
Proverò allora a ricorrere a un parallelismo e a descrivere la situazione così
come la percepisco, di modo che possa alla fine emergere una tesi, un nuovo
punto di partenza, quindi qualcosa di contestabile e attaccabile, finanche
condivisibile (parolina magica: condividere!).
Parecchi anni fa, non ricordo bene quando, uscì uno studio specialistico sul modo in cui le case di moda gestivano la propria comunicazione pubblicitaria. Il titolo, se ben ricordo, era “Il grande nulla”. In sostanza si sosteneva quello che è tuttora sotto gli occhi di tutti, cioè che nella comunicazione pubblicitaria le case di moda non comunicavano proprio un bel niente (nessun posizionamento, nessuna idea del mercato o di prodotto, nessun beneficio funzionale o psicologico, nessuna presa di posizione o uno stare sul campo, talvolta nemmeno un’idea precisa di stile, il che per la moda poteva risultare persino imbarazzante). Comunicavano soltanto la griffe, ovvero un logo appoggiato sopra uno scatto fotografico pescato tra quelli delle ultime collezioni che si volevano pubblicizzare. In ambito pubblicitario questa piega si è poi allargata. Pensate all’arredamento o anche ai manufatti dell’architettura e delle archistar, designer inclusi: vale solo il brand, pardon, la griffe, che è diversa e ancora più irrazionale ed “emozionale” del brand. Si passa quasi ai campi della “fede”. In questo contesto, da un punto di vista di tecnica della comunicazione pubblicitaria, uno spot come quello del pennello Cinghiale aveva stile da insegnare a pacchi ai pubblicitari e agli stilisti delle più rinomate case di moda ed era nato dalla mente di copywriter che conoscevano ancora il valore della posizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo. In questo nuovo contesto invece i copywriter e la parte verbale dell’annuncio vengono meno.
Parecchi anni fa, non ricordo bene quando, uscì uno studio specialistico sul modo in cui le case di moda gestivano la propria comunicazione pubblicitaria. Il titolo, se ben ricordo, era “Il grande nulla”. In sostanza si sosteneva quello che è tuttora sotto gli occhi di tutti, cioè che nella comunicazione pubblicitaria le case di moda non comunicavano proprio un bel niente (nessun posizionamento, nessuna idea del mercato o di prodotto, nessun beneficio funzionale o psicologico, nessuna presa di posizione o uno stare sul campo, talvolta nemmeno un’idea precisa di stile, il che per la moda poteva risultare persino imbarazzante). Comunicavano soltanto la griffe, ovvero un logo appoggiato sopra uno scatto fotografico pescato tra quelli delle ultime collezioni che si volevano pubblicizzare. In ambito pubblicitario questa piega si è poi allargata. Pensate all’arredamento o anche ai manufatti dell’architettura e delle archistar, designer inclusi: vale solo il brand, pardon, la griffe, che è diversa e ancora più irrazionale ed “emozionale” del brand. Si passa quasi ai campi della “fede”. In questo contesto, da un punto di vista di tecnica della comunicazione pubblicitaria, uno spot come quello del pennello Cinghiale aveva stile da insegnare a pacchi ai pubblicitari e agli stilisti delle più rinomate case di moda ed era nato dalla mente di copywriter che conoscevano ancora il valore della posizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo. In questo nuovo contesto invece i copywriter e la parte verbale dell’annuncio vengono meno.
Ulteriore premessa nonché risposta a confutazioni che intravedo già sorgere: qualcuno vorrà rilevare che questo mio è un approccio troppo tecnico ad un tema così semi-esistenziale ed esistenzialista. Eppure stiamo parlando di “editoria di poesia”, quindi di attività legata al lucro, per quanto marginale e per quanto di marginalità bassa. Una domanda: qual è il lucro dell’editoria di poesia? Tale approccio tecnico insomma non è del tutto peregrino. Inoltre le dinamiche di brand sono note alle nostre case editrici, che non disdegnano un certo modo di cavalcare l’onda, o, come si dice in gergo “keep the hype up”, aiutate da stuoli di recensori annoiati e addomesticati, blogger o autori che si fanno portatori (sani?) del virus in rete, giovani critici intervistati che ruminano solo le novità editoriali statisticamente più citate dai blog “mainstream”. Il grande nulla intravisto nella comunicazione pubblicitaria delle case di moda anni fa è del tutto analogo al grande nulla dal quale rischia di essere sempre travolta l’editoria di poesia. Cambia solo il giro di soldi, e non di poco, anche se sussiste una certa idea di lucro. D’accordo, vi sono eccezioni a questa situazione desolante, ma ad un livello quantitativo apprezzabile non rilevo nessuna linea precisa, nessuna idea di poesia riconoscibile e quindi anche, finalmente, contestabile e attaccabile (sussistono gli attacchi ad personam tipici dei social, belli schermati… da dietro lo schermo). Non sto parlando di mancanza di un’identità di gruppo - e mai mi hanno troppo interessato i gruppi letterari - bensì della mancanza di un sacrosanto e basilare interesse per la scrittura poetica alla quale l’editoria di poesia deve rivolgere una vera attenzione. Quasi ovunque prevale l’idea e il sogno (scorciatoia) di diventare griffe poetica, magari con il ricorso a sistemi altri rispetto a quelli della selezione e della “qualità” del testo, del dibattimento e del rischio d’impresa (fuori e dentro metafora). L’autore e la sua immagine prevalgono sull’opera mentre l’editore, se ha la griffe per anzianità (pardon, per heritage) o se è riuscito a costruirla col tempo, può arrivare a prevalere su tutto. Proprio di recente un editore come Marcos y Marcos ha introdotto una “sfilata letteraria” per presentare le novità della “collezione primavera estate 2016”, curioso episodio che sembra dimostrare questa pulsione delle case editrici a farsi griffe e a mimare gli strumenti utilizzati nel campo della moda.
Quel grande nulla intravisto nelle campagne pubblicitarie delle case di moda (banalmente: scatto fotografico + logo e morta lì; selfie?) è più vicino di quello che pensiamo al grande nulla dell’editoria di poesia contemporanea. Siamo intossicati e abbagliati dalla griffe, autoriale o editoriale che sia. Il problema della gran quantità di libri di poesia che si pubblica/stampa è un falso problema se la carta la riciclano davvero e se esisteranno editori capaci di fare “seriamente” gli editori e quindi capaci di conversare, costruire un dialogo con gli autori, filtrare senza necessariamente flirtare, proporre un’illuminazione di un lato del diamante della scrittura poetica all’altezza dell’anno duemilasedici. Il diamante è lo stesso ma più editori possono contribuire a illuminarne un lato di volta in volta diverso. Il problema più volte sollevato che in troppi scrivono poesia e troppo pochi ne leggono è un ulteriore falso problema. Chi se ne frega, non possiamo bruciare la vita a rincorrere questi falsi problemi. Le problematiche reali su cui invito a riflettere sono allora queste tre: 1) il divismo e la costruzione autoriale ritenuta purtroppo primaria delle case editrici, dagli uffici stampa e da certi autori che hanno sempre saputo come perseguire determinate strategie di personal branding; 2) lo scadere dell’interesse per l’opera, per il pensiero e il progetto che la sottende e 3) l’editore che troppo spesso e troppo presto sogna di diventare griffe ovvero una sorta di Re Mida. Secondo il dizionario la griffe è “firma, marchio o etichetta di un artista, di uno stilista o di una azienda, specialmente su capi o accessori d’abbigliamento”. Ecco, non trascurerei il finale della definizione che ho messo in corsivo: capi o accessori. Di questo passo rischiamo di diventare tutti capi (capoccia) e accessori (aggettivo), intercambiabili. Non mi sembra un grande affare, ma se va bene a voi, buona camicia a tutti.
lunedì 14 marzo 2016
Tre poesie di Primož Čučnik nella traduzione di Michele Obit
Accanto
ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie
inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si
ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di
Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e
faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di
lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma,
mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui
sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di
Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e
caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato
utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con
nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione
poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che
qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro
se capita.
I VECCHI MUOIONO PIÙ GIOVANI
Quale senso ha per te, quale per me
l’aria che respiro, e/o l’acqua che bevo,
e/o la lingua che parlo, e posso continuare?
Così camminavo nel bosco, dove spiccano la felce
ed i cespuglio di mirtilli, là avevi
camminato anche tu, un tempo, forse avrai fatto caso
alle stesse incisioni nel taglio dei tronchi, al muschio sul lato esatto.
A tutti coloro che incontravo ho proposto
di parlare la mia lingua; ma in realtà non ve n’erano molti,
sui marciapiedi rotti ho scorto solo dei rami.
Leggero e sottile ero, quasi una foglia, quasi un sentimento
annacquato, quasi un’antera sparpagliata,
un’altra natura. Senza un senso messo in mostra,
senza preavviso. Una scritta strana sulla tua fronte,
bolle di sapone dei sorrisi dalle labbra,
rastrelliere rotte e granai colmi di attrezzi da giocoliere,
li usavi abilmente. In questo traffico confuso
è meglio rimanere giovani, agli occhi degli altri
e nel proprio bosco incantato. Con occhi altrui,
in un’altra natura che a volte ti esclude,
poi prende un’altra direzione, quella dove ti decidi per queste due parole
in una stanza silenziosa, silenziosa sino a che non cominciano a parlare
e/o a suonare un violino vaporoso,
i sussulti di corde amare.
VARIAZIONI SU APORIE, STRADE E VOCI
più di uno, occorre che le parli più di uno
ripeto, per questo servono più voci
ha piovuto tutto il giorno, il sole avanza ancora sulla facciata
quando lei dice: a voi va bene, voi potete saltare, ragazzi
ripeto, per questo servono più voci
come se fosse una prova generale, davanti ad una sala vuota
quando lei dice: a voi va bene, voi potete saltare, ragazzi
più a lungo di quanto è ragionevolmente concesso
come se fosse una prova generale, davanti ad una sala vuota
dio si preoccupa per le cure mediche urgenti
più a lungo di quanto è ragionevolmente concesso
non fraintendetemi, è sempre impenetrabile
dio si preoccupa per le cure mediche urgenti
quando il medico è ancora a metà strada, avvolto in una tormenta di neve
non fraintendetemi, è sempre impenetrabile
solo non essere come gli altri e sarai sempre in un deserto
quando il medico è ancora a metà strada, avvolto in una tormenta di neve
o quando oltrepassa la porta, la vede già guarita
solo non essere come gli altri e sarai sempre in un deserto
questo devi scriverlo, pur se non conviene
o quando oltrepassa la porta, la vede già guarita
qualcosa succede per la strada, per tutto il viaggio qualcuno pregava
questo devi scriverlo, pur se non conviene
devi essere stata tu a non chiudere la porta
qualcosa succede per la strada, per tutto il viaggio qualcuno pregava
anche quando facciamo ritorno, è spalancata
devi essere stata tu a non chiudere la porta
la solitudine è necessaria, non so a chi si potrebbe negarlo
anche quando facciamo ritorno, è spalancata
il caldo ronzava attraverso il lucernario
la solitudine è necessaria, non so a chi si potrebbe negarlo
anche se di questo non si parla e non ci si vanta
il caldo ronzava attraverso il lucernario
ti lascia continuamente, ma non se ne va da te
anche se di questo non si parla e non ci si vanta
davvero non vi è morte senza vita, e viceversa
ti lascia continuamente, ma non se ne va da te
più di uno, occorre che le parli più di uno
davvero non vi è morte senza vita, e viceversa
ha piovuto tutto il giorno, il sole avanza ancora sulla facciata
DUE FRAMMENTI
1
Nessuno ricordava nulla.
Orologi da taschino sulle bancarelle, forchette e coltelli usati,
cornici di poco valore, vetro e metallo...
tutta questa cianfrusaglia, sa.
Com’è vedersi nelle lenti di grandi occhiali
o almeno negli specchietti – specchio dimmi
chi in queste lande
ha comprato tutti i cucchiaini da te.
Per questo le cose più belle,
più vicine a ciò che ci circonda ed al mondo,
preferisco portarle in discarica che al mercato delle pulci.
Là forse qualcuno le prenderà
e sfrutterà meglio. Finalmente mi vedrò visibile.
Un paio di stelle nasceranno ed i lampioni.
Tutti, tranne quelli fulminati.
Instabile è la mia condizione.
2
Ma anche questo sarà come un magnete.
Le bancarelle stanno sotto gli ombrelli per via della pioggia.
Preferirei ascoltarmi che vedermi,
preferirei ascoltarmi ascoltato.
Così sussurrano i sussurri
del mondo sussurrante – sibili e fruscii
più vicini a ciò che ci circonda.
Instabile è la nostra situazione.
Preferirei non badarvi.
In quel tu, che scrive,
diventare ciò che solo si dice.
Perché poi nessuno ricordava nulla.
Tutto era già stato. La cianfrusaglia sa come va con gli oggetti.
Gli oggetti sono qui per l’oggettività.
Per vedersi così come dico:
onda oppure vento – una esplode, l’altro affonda.
STARI LJUDJE UMIRAJO MLAJŠI
Kaj tebi pomeni to, kar meni pomeni
zrak, ki ga diham, in/ali voda, ki jo pijem,
in/ali jezik, ki ga govorim, in tako naprej?
Tako sem se sprehajal skozi gozd, kjer sta poganjala
praprot in borovničevo grmičje, tam si se
sprehajal tudi ti, nekoč, mogoče si opazoval
iste zareze na deblih zasek, mah v pravi smeri.
Vsakomur, ki sem ga srečal, sem predlagal,
naj govori moj jezik; pa jih v resnici ji bilo veliko,
na strtih pločnikih sem samo oplazil nekaj vej.
Bil sem lahek in tenak, skoraj list, skoraj razvodenelo
čustvo, skoraj razsuta prašnica,
drugačna narava. Brez izpostavljenega smisla,
brez svarila. Čuden tekst na tvojem čelu,
milni mehurčki nasmehov z ustnic,
podrti kozolci in kašče, polne žonglerskih rekvizitov,
tvoja spretnost. V tem zmedenem prometu
je bolje ostati mlad, v očeh drugih
in v svojem začaranem gozdu. Z očmi drugih,
v drugačni naravi, ki ti včasih pusti zraven,
potem pa steče v drugo smer, kjer se odločiš za teh par besed
v tihi sobi, ki je tiha, dokler ne spregovorijo
in/ali zaigrajo na izparelo violino,
trzaje grenkih strun.
VARIACIJA NA APORIJE, POTI IN GLASOVE
več kot eden, nujno je, da jih govori več kot eden
ponavljam, za to je potrebnih več glasov
ves dan dežuje, sonce se šele prebija na fasadi
ko ona pravi: vam je dobro, ker lahko skačete, fantje
ponavljam, za to je potrebnih več glasov
kot da bi šlo za generalko, pred prazno dvorano
ko ona pravi: vam je dobro, ker lahko skačete, fantje
dlje od tistega, kar je razumno dovoljeno
kot da bi šlo za generalko, pred prazno dvorano
bog poskrbi za nujno zdravniško oskrbo
dlje od tistega, kar je razumno dovoljeno
ne razumite me narobe, še vedno je skrivnosten
bog poskrbi za nujno zdravniško oskrbo
ko je zdravnik šele na pol poti, zavit v snežni metež
ne razumite me narobe, še vedno je skrivnosten
samo ne bodi tak kot drugi in povsod boš v puščavi
ko je zdravnik šele na pol poti, zavit v snežni metež
ali ko stopi skozi vrata, jo zagleda že ozdravljeno
samo ne bodi tak kot drugi in povsod boš v puščavi
to moraš zapisati, čeprav je neustrezno
ali ko stopi skozi vrata, jo zagleda že ozdravljeno
nekaj se zgodi na poti, vso pot je nekdo molil
to moraš zapisati, čeprav je neustrezno
najbrž si ti pustila nezaprta vrata
nekaj se zgodi na poti, vso pot je nekdo molil
tudi ko se vrnemo, je na stežaj odprto
najbrž si ti pustila nezaprta vrata
samota je potrebna, ne vem, čemu bi to tajili
tudi ko se vrnemo, je na stežaj odprto
toplota je bučala skozi strešno okno
samota je potrebna, ne vem, čemu bi to tajili
čeprav se tega ne omenja in ne hvali
toplota je bučala skozi strešno okno
nenehno te zapušča, ne da bi odšla od tebe
čeprav se tega ne omenja in ne hvali
zares ni smrti brez življenja in narobe
nenehno te zapušča, ne da bi odšla od tebe
več kot eden, nujno je, da jih govori več kot eden
zares ni smrti brez življenja in narobe
ves dan dežuje, sonce se šele prebija na fasadi
DVA FRAGMENTA
1
Nihče se ni ničesar spomnil.
Žepne ure na stojnicah, stare vilice in noži,
malovredni okvirji, steklenina in kovina ...
vsa ta krama, ve.
Kako se je videti v večjih špeglih
ali vsaj v ogledalcih – ogledalcih povej,
kdo je v tej deželi
kupil vse čajne žličke in žličice.
Zato bom najlepše reči
bližnje okolice in sveta,
raje odnesel v smeti kot na bolšjaka.
Od tam jih bo mogoče kdo pobral
in unovčil bolje. Končno se bom videl videnega.
Par zvezd bo vzšlo in ulične svetilke.
Vse, razen pregorelih.
Nestabilna je moja kondicija.
2
Ampak tudi to bo kot magnet.
Stojnice so pod dežniki zaradi dežja.
Raje bi se slišal kot videl,
raje bi se slišal slišanega.
Tako šumijo šumi
šumečega sveta – sičniki in šumniki
bližnje okolice.
Nestabilna je naša situacija.
Najraje pa bi se preslišal.
V tistem ti, ki piše,
postati, kar se samo govori.
Saj se ni nihče ničesar spomnil.
Vse je že bilo. Krama ve, kako in kaj s stvarmi.
Stvari so tu zaradi stvarnosti.
Da bi se uzrl takšnega kot pravim:
val ali veter – ta raznese, tisti potopi.
Pubblico di seguito tre poesie di Primož Čučnik (Ljubljana, 1971) nella traduzione di Michele Obit. Li ringrazio entrambi. Sotto troverete una breve nota del traduttore.
Quale senso ha per te, quale per me
l’aria che respiro, e/o l’acqua che bevo,
e/o la lingua che parlo, e posso continuare?
Così camminavo nel bosco, dove spiccano la felce
ed i cespuglio di mirtilli, là avevi
camminato anche tu, un tempo, forse avrai fatto caso
alle stesse incisioni nel taglio dei tronchi, al muschio sul lato esatto.
A tutti coloro che incontravo ho proposto
di parlare la mia lingua; ma in realtà non ve n’erano molti,
sui marciapiedi rotti ho scorto solo dei rami.
Leggero e sottile ero, quasi una foglia, quasi un sentimento
annacquato, quasi un’antera sparpagliata,
un’altra natura. Senza un senso messo in mostra,
senza preavviso. Una scritta strana sulla tua fronte,
bolle di sapone dei sorrisi dalle labbra,
rastrelliere rotte e granai colmi di attrezzi da giocoliere,
li usavi abilmente. In questo traffico confuso
è meglio rimanere giovani, agli occhi degli altri
e nel proprio bosco incantato. Con occhi altrui,
in un’altra natura che a volte ti esclude,
poi prende un’altra direzione, quella dove ti decidi per queste due parole
in una stanza silenziosa, silenziosa sino a che non cominciano a parlare
e/o a suonare un violino vaporoso,
i sussulti di corde amare.
VARIAZIONI SU APORIE, STRADE E VOCI
più di uno, occorre
che le parli più di uno...
JACQUES DERRIDA
più di uno, occorre che le parli più di uno
ripeto, per questo servono più voci
ha piovuto tutto il giorno, il sole avanza ancora sulla facciata
quando lei dice: a voi va bene, voi potete saltare, ragazzi
ripeto, per questo servono più voci
come se fosse una prova generale, davanti ad una sala vuota
quando lei dice: a voi va bene, voi potete saltare, ragazzi
più a lungo di quanto è ragionevolmente concesso
come se fosse una prova generale, davanti ad una sala vuota
dio si preoccupa per le cure mediche urgenti
più a lungo di quanto è ragionevolmente concesso
non fraintendetemi, è sempre impenetrabile
dio si preoccupa per le cure mediche urgenti
quando il medico è ancora a metà strada, avvolto in una tormenta di neve
non fraintendetemi, è sempre impenetrabile
solo non essere come gli altri e sarai sempre in un deserto
quando il medico è ancora a metà strada, avvolto in una tormenta di neve
o quando oltrepassa la porta, la vede già guarita
solo non essere come gli altri e sarai sempre in un deserto
questo devi scriverlo, pur se non conviene
o quando oltrepassa la porta, la vede già guarita
qualcosa succede per la strada, per tutto il viaggio qualcuno pregava
questo devi scriverlo, pur se non conviene
devi essere stata tu a non chiudere la porta
qualcosa succede per la strada, per tutto il viaggio qualcuno pregava
anche quando facciamo ritorno, è spalancata
devi essere stata tu a non chiudere la porta
la solitudine è necessaria, non so a chi si potrebbe negarlo
anche quando facciamo ritorno, è spalancata
il caldo ronzava attraverso il lucernario
la solitudine è necessaria, non so a chi si potrebbe negarlo
anche se di questo non si parla e non ci si vanta
il caldo ronzava attraverso il lucernario
ti lascia continuamente, ma non se ne va da te
anche se di questo non si parla e non ci si vanta
davvero non vi è morte senza vita, e viceversa
ti lascia continuamente, ma non se ne va da te
più di uno, occorre che le parli più di uno
davvero non vi è morte senza vita, e viceversa
ha piovuto tutto il giorno, il sole avanza ancora sulla facciata
DUE FRAMMENTI
1
Nessuno ricordava nulla.
Orologi da taschino sulle bancarelle, forchette e coltelli usati,
cornici di poco valore, vetro e metallo...
tutta questa cianfrusaglia, sa.
Com’è vedersi nelle lenti di grandi occhiali
o almeno negli specchietti – specchio dimmi
chi in queste lande
ha comprato tutti i cucchiaini da te.
Per questo le cose più belle,
più vicine a ciò che ci circonda ed al mondo,
preferisco portarle in discarica che al mercato delle pulci.
Là forse qualcuno le prenderà
e sfrutterà meglio. Finalmente mi vedrò visibile.
Un paio di stelle nasceranno ed i lampioni.
Tutti, tranne quelli fulminati.
Instabile è la mia condizione.
2
Ma anche questo sarà come un magnete.
Le bancarelle stanno sotto gli ombrelli per via della pioggia.
Preferirei ascoltarmi che vedermi,
preferirei ascoltarmi ascoltato.
Così sussurrano i sussurri
del mondo sussurrante – sibili e fruscii
più vicini a ciò che ci circonda.
Instabile è la nostra situazione.
Preferirei non badarvi.
In quel tu, che scrive,
diventare ciò che solo si dice.
Perché poi nessuno ricordava nulla.
Tutto era già stato. La cianfrusaglia sa come va con gli oggetti.
Gli oggetti sono qui per l’oggettività.
Per vedersi così come dico:
onda oppure vento – una esplode, l’altro affonda.
Kaj tebi pomeni to, kar meni pomeni
zrak, ki ga diham, in/ali voda, ki jo pijem,
in/ali jezik, ki ga govorim, in tako naprej?
Tako sem se sprehajal skozi gozd, kjer sta poganjala
praprot in borovničevo grmičje, tam si se
sprehajal tudi ti, nekoč, mogoče si opazoval
iste zareze na deblih zasek, mah v pravi smeri.
Vsakomur, ki sem ga srečal, sem predlagal,
naj govori moj jezik; pa jih v resnici ji bilo veliko,
na strtih pločnikih sem samo oplazil nekaj vej.
Bil sem lahek in tenak, skoraj list, skoraj razvodenelo
čustvo, skoraj razsuta prašnica,
drugačna narava. Brez izpostavljenega smisla,
brez svarila. Čuden tekst na tvojem čelu,
milni mehurčki nasmehov z ustnic,
podrti kozolci in kašče, polne žonglerskih rekvizitov,
tvoja spretnost. V tem zmedenem prometu
je bolje ostati mlad, v očeh drugih
in v svojem začaranem gozdu. Z očmi drugih,
v drugačni naravi, ki ti včasih pusti zraven,
potem pa steče v drugo smer, kjer se odločiš za teh par besed
v tihi sobi, ki je tiha, dokler ne spregovorijo
in/ali zaigrajo na izparelo violino,
trzaje grenkih strun.
VARIACIJA NA APORIJE, POTI IN GLASOVE
več kot eden, nujno je,
da jih govori več kot eden ...
JACQUES DERRIDA
več kot eden, nujno je, da jih govori več kot eden
ponavljam, za to je potrebnih več glasov
ves dan dežuje, sonce se šele prebija na fasadi
ko ona pravi: vam je dobro, ker lahko skačete, fantje
ponavljam, za to je potrebnih več glasov
kot da bi šlo za generalko, pred prazno dvorano
ko ona pravi: vam je dobro, ker lahko skačete, fantje
dlje od tistega, kar je razumno dovoljeno
kot da bi šlo za generalko, pred prazno dvorano
bog poskrbi za nujno zdravniško oskrbo
dlje od tistega, kar je razumno dovoljeno
ne razumite me narobe, še vedno je skrivnosten
bog poskrbi za nujno zdravniško oskrbo
ko je zdravnik šele na pol poti, zavit v snežni metež
ne razumite me narobe, še vedno je skrivnosten
samo ne bodi tak kot drugi in povsod boš v puščavi
ko je zdravnik šele na pol poti, zavit v snežni metež
ali ko stopi skozi vrata, jo zagleda že ozdravljeno
samo ne bodi tak kot drugi in povsod boš v puščavi
to moraš zapisati, čeprav je neustrezno
ali ko stopi skozi vrata, jo zagleda že ozdravljeno
nekaj se zgodi na poti, vso pot je nekdo molil
to moraš zapisati, čeprav je neustrezno
najbrž si ti pustila nezaprta vrata
nekaj se zgodi na poti, vso pot je nekdo molil
tudi ko se vrnemo, je na stežaj odprto
najbrž si ti pustila nezaprta vrata
samota je potrebna, ne vem, čemu bi to tajili
tudi ko se vrnemo, je na stežaj odprto
toplota je bučala skozi strešno okno
samota je potrebna, ne vem, čemu bi to tajili
čeprav se tega ne omenja in ne hvali
toplota je bučala skozi strešno okno
nenehno te zapušča, ne da bi odšla od tebe
čeprav se tega ne omenja in ne hvali
zares ni smrti brez življenja in narobe
nenehno te zapušča, ne da bi odšla od tebe
več kot eden, nujno je, da jih govori več kot eden
zares ni smrti brez življenja in narobe
ves dan dežuje, sonce se šele prebija na fasadi
DVA FRAGMENTA
1
Nihče se ni ničesar spomnil.
Žepne ure na stojnicah, stare vilice in noži,
malovredni okvirji, steklenina in kovina ...
vsa ta krama, ve.
Kako se je videti v večjih špeglih
ali vsaj v ogledalcih – ogledalcih povej,
kdo je v tej deželi
kupil vse čajne žličke in žličice.
Zato bom najlepše reči
bližnje okolice in sveta,
raje odnesel v smeti kot na bolšjaka.
Od tam jih bo mogoče kdo pobral
in unovčil bolje. Končno se bom videl videnega.
Par zvezd bo vzšlo in ulične svetilke.
Vse, razen pregorelih.
Nestabilna je moja kondicija.
2
Ampak tudi to bo kot magnet.
Stojnice so pod dežniki zaradi dežja.
Raje bi se slišal kot videl,
raje bi se slišal slišanega.
Tako šumijo šumi
šumečega sveta – sičniki in šumniki
bližnje okolice.
Nestabilna je naša situacija.
Najraje pa bi se preslišal.
V tistem ti, ki piše,
postati, kar se samo govori.
Saj se ni nihče ničesar spomnil.
Vse je že bilo. Krama ve, kako in kaj s stvarmi.
Stvari so tu zaradi stvarnosti.
Da bi se uzrl takšnega kot pravim:
val ali veter – ta raznese, tisti potopi.
Una nota di Michele Obit
Queste tre poesie sono tratte da ‘Trilogija’, raccolta
poetica di Primož Cučnik pubblicata nel 2015 dalla casa editrice Lud Literatura
di Lubiana che raccoglie i versi di tre libri precedentemente editi: Nova okna (Nuove finestre) del 2005, Delo in dom (Casa e lavoro) del 2007 e Kot dar (Come un dono) del 2010.
Primož Čučnik è nato nel 1971 a Lubiana, dove si
è laureato in filosofia e sociologia della cultura. La sua prima raccolta Dve zimi nel 1999 ha ottenuto il premio
come miglior libro esordiente in Slovenia. I suoi successivi libri sono stati: Ritem v rokah (2002), Oda na manhatanski aveniji (2003,
assieme a Gregor Podlogar e Žiga Kariž), Akordi
(2004), Nova okna (2005), Sekira v medu (2006) e Delo in dom (2007). A Cracovia, presso
la casa editrice Zielona sowa, nel 2002 è uscita una sua miscellanea intitolata
Zapach herbaty. Sue poesie sono state
pubblicate nell’antologia A Fine Line:
New Poetry from Eastern & Central Europe. Traduce dal polacco e
dall’inglese. Scrive in oltre critiche letterarie e saggi ed è redattore della
rivista Literatura nonché fondatore e
redattore della casa editrice di tascabili Šerpa.
On parle de:
lo stregatto,
Michele Obit,
Primož Čučnik
sabato 12 marzo 2016
A Treviso il 19 marzo l'anteprima di CartaCarbone festival 2016
Segnalo questo appuntamento marzolino nato da un'idea di Paola Bellin attorno al tema sterminato della guerra. La serata appartiene alla programmazione di anteprima di CartaCarbone Festival 2016 organizzato dall'Associazione culturale Nina Vola.
ANTEPRIMA CARTACARBONE FESTIVAL 2016
ASSOCIAZIONE CULTURALE NINA VOLA
UNO_PUNTO_TRE
NELLA DEMENZA CHE NON SA IMPAZZIRE
Per una poesia civile
Sabato 19 marzo, ore 20.45
Sala Luigi di Francia
Via Roggia, 12 - Treviso
La serata, ideata e curata da Paola Bellin, rientra nella programmazione
di eventi-anteprima del CartaCarbone festival 2016.
L'evento si propone la partecipazione corale del pubblico ad una riflessione e sensibilizzazione sulle tragedie umane, individuali e collettive, delle guerre, attraverso conversazioni di impegno civile con tre poeti ospiti della serata:
Nicoletta Bidoia, Alberto Cellotto, Loretta Menegon.
Improvvisazioni sonore di Lucio Bonaldo.
Alla serata parteciperanno Emily Pravato e Tommaso Zambon
del Laboratorio Teatrale del Liceo Scientifico "Leonardo da Vinci" di Treviso.
mercoledì 9 marzo 2016
Tradurre in italiano Roberto Bolaño, Luis Cernuda, Julio Cortázar, Almudena Grandes, Juan Carlos Onetti, Luis Sepúlveda e altri. Ricordi e riflessioni di Ilide Carmignani
Librobreve intervista #65
La lunga attesa è servita e finalmente posso ospitare all'interno della serie di interviste dedicate da Librobreve alla traduzione le risposte di Ilide Carmignani, che da oltre trent'anni svolge attività di traduzione, consulenza, editing e revisione dallo spagnolo. Se avete letto traduzioni italiane di Roberto Bolaño, Jorge Luis Borges, Luis Cernuda, Rodolfo Fogwill, Carlos Fuentes, Almudena Grandes, Gabriel García Márquez, Pablo Neruda, Juan Carlos Onetti, Octavio Paz, Arturo Pérez-Reverte o Luis Sepúlveda è assai probabile che vi siate imbattuti in un testo da lei tradotto. Buona lettura.
LB: Qual è stato il primo libro intero che ha tradotto e quando è successo? Che ricordi ha di quei momenti (l'ingaggio, la traduzione, la revisione, il rapporto con l'editore)?
R: Il primo libro intero che ho tradotto è stato Ocnos di Luis Cernuda, una scelta molto audace per una ragazzina di ventitré anni, ma un professore all’università voleva pubblicare un volumetto senza perdere tempo con la traduzione, che non valeva nei concorsi, e mi propose di occuparmene. Ricordo che, per allettarmi, disse: «Ti affido le note che invece fanno titolo». Mi sembrò il mondo alla rovescia, le note degne di riconoscimento quando bastava copiare qualche edizione critica e un bel nulla la traduzione, così difficile, anzi impossibile, diceva Ortega y Gasset. Però quell’estate dopo laurea, trascorsa a tradurre in giardino poemi in prosa su Siviglia, fu così bella che ci presi gusto e quando l’anno dopo andai a perfezionarmi alla Brown University, negli Stati Uniti, chiesi uno special course a un grande traduttore, oltre che studioso, Alan Trueblood, e al ritorno presentai due proposte a case editrici di Milano. Erano tutte e due molto sbagliate, editorialmente parlando, poemi in prosa appunto e una raccolta troppo lunga di racconti di una scrittrice ancora sconosciuta, ma gli editori pur non accettandone nessuna mi fecero fare delle prove e arrivò il primo libro, dall’inglese, Figlia del Tibet di Rinchen Dolma Taring per la Serra e Riva. L’inglese l’ho poi abbandonato appena possibile, mi sembra già difficile conoscere adeguatamente una lingua, figuriamoci due, solo che in quegli anni dallo spagnolo si faceva pochissimo, era il calo del dopo boom. Ricordo come fosse adesso l’emozione quando, nel monolocale di un’amica che mi ospitava durante quei viaggi della speranza a Milano, mi telefonò Michele Riva, l’editor, e mi disse: la prova è andata bene, il libro è tuo. Venticinque anni dopo, ogni volta che lo vedo, provo ancora l’impulso di baciarlo. Il compenso, specie in confronto a quanto accade oggi con gli esordienti, era più che dignitoso. Il contratto in compenso mi spaventò a morte e corsi a mostrarlo all’unico traduttore che conoscevo: l’editore, a suo insindacabile giudizio, poteva questo e quello e l’altro ancora, come in tutti i contratti di allora e anche di adesso, e infatti il traduttore mi disse bonario “stai tranquilla”. La revisione la feci una domenica di primavera a casa dell’editor, che con grande pazienza passò la giornata a spiegarmi gli errori, le sviste, le sciatterie, le ingenuità, anche qualche alzata d’ingegno. Privilegi dell’editoria artigianale di quei tempi. Da allora non ho più smesso di tradurre. Ho avuto molta fortuna e poi all’epoca nessuno voleva fare il traduttore, gli editori erano quasi allibiti quando chiedevo. I colleghi erano tutti traduttori per caso.
LB: E l'ultimo lavoro consegnato? Tra la prima e l'ultima traduzione portata a termine, quali sono gli aspetti più macroscopicamente mutati e quelli invece che hanno conservato intatto il loro colore, sapore?
R: L’ultimo lavoro consegnato è L’inseguitore di Cortázar per SUR. Non so cosa è cambiato. Sintetizzando, probabilmente tutto. Conosco molto meglio lo spagnolo e conosco molto meglio l’italiano, ma soprattutto, grazie anche alle letture di teoria della traduzione e alla condivisione di esperienze con colleghi di lungo corso in occasioni come il Salone di Torino o le Giornate della traduzione, ho perso l’innocenza di allora, so in quanti e quali modi diversi si potrebbe tradurre un certo passo, vantaggi e svantaggi, e conosco ormai per esperienza le strategie di mediazione linguistico-culturale preferite dall’editoria italiana contemporanea. L’acribia, anzi l’ansia di controllo è la stessa. Ma anche il piacere, grandissimo, si rinnova ogni volta: lasciarsi possedere da un’altra voce, respirare al ritmo di un’altra esistenza. Questo per quanto riguarda me e il lavoro sulla pagina. Per quanto riguarda invece l’editoria, be’, capita sempre più spesso che i tempi siano frenetici e che il revisore sia un collaboratore esterno mai visto né conosciuto. Per fortuna il genere di testi che traduco, classici contemporanei sostanzialmente, mi tengono un po’ al riparo. Lavoro con editori che si rivolgono a lettori forti e che curano ancora molto la traduzione.
LB: Qual è il libro che l'ha tribolata di più? E che ricordo ne conserva ora? Quale era la vera difficoltà?
R: Non lo so, mi verrebbe da rispondere che ogni libro ha le sue difficoltà, tradurre è impossibile, come dicevo sopra che diceva Ortega. Certo, ci sono libri terribili, come per esempio Un certo Lucas di Cortázar, l’opera più inafferrabile (e divertente) che mi sia capitato di tradurre. Un certo Lucas non è un romanzo, perché non c’è una storia, una trama, anche se ci sono decine di storie, e per di più ha un protagonista ricorrente, un certo Lucas appunto. Non è una raccolta di racconti, perché non tutti i testi rientrano nei canoni della short story. Non è un saggio perché c’è molta fiction e per di più fantastica. Non è un’autobiografia, anche se Lucas è senz’altro Cortázar e il suo passato argentino un tema onnipresente. Non è un libro filosofico, anche se riflette a fondo sul rapporto fra realtà e conoscenza. Non è un saggio di critica letteraria, eppure indaga ripetutamente i meccanismi e il senso del linguaggio e della scrittura. Non è un libro erotico, anche se ci sono pagine di estrema sensualità. Insomma, anche solo seguirlo su tutti questi registri espressivi è stata un’impresa, per non parlare del lunfardo, dei giochi di parole, dei neologismi, dello swing che modula il ritmo del testo. È vero però che poi, per altri versi, trovo non meno difficile Onetti, che apparentemente è limpidissimo, non fa giochi di parole né tanto meno se ne inventa di nuove, ma ogni volta che ti aspetti un aggettivo ti presenta un verbo, ogni volta che ti aspetti un verbo ti presenta un sostantivo... La sua traduttrice francese scriveva che tradurlo era come cercare di far camminare all’ambio una zebra. Nemmeno Roberto Bolaño è facile. E sento molto la responsabilità anche per un autore come Luis Sepúlveda, che ha un’incisività e una freschezza difficilissime da restituire, e per di più finisce nelle scuole di ogni ordine e grado come libro di lettura.
LB: Parliamo di sintassi. Nei libri che traduce e nei libri che legge in lingua italiana, quali sono le principali divergenze tra le lingue usate dagli scrittori? Capisco bene che non si può generalizzare, ma ad un livello di percezione le sembra che ci siano degli andamenti di apprezzabile diversità nella sintassi degli autori di lingua spagnola se confrontati con quelli di lingua italiana?
R: Purtroppo i linguisti si occupano di analisi contrastiva più a fini didattici che traduttivi e quindi, per risponderle, mi devo basare semplicemente sulla mia esperienza, una cosa poco scientifica insomma. La sensazione è che lo spagnolo letterario sia una lingua più libera, più esuberante, per esempio non esita a costruire frasi a senso, a cambiare soggetto in modo implicito, oppure a costruire romanzi con flashback potendo segnalarne l’inizio con un solo trapassato per poi tornare con disinvoltura alla sveltezza del passato remoto. Immagino sia perché nasce da una tradizione barocca, senza contare che è la lingua di cinquecento milioni di persone. L’italiano mi appare ancora molto legato all’eredità classica, è una lingua simmetrica, per chi non è toscano forse anche un po’ artificiosa. Un bellissimo giardino di bosso potato ad arte.
LB: Conoscere gli autori che si traduce: è sempre una risorsa e qualcosa di positivo o talvolta può tramutarsi in insidia? Se sì, in che modo?
R: Io credo che sia una risorsa. Mi piace molto incontrare i pochi autori viventi che traduco. Mi piace ascoltare il loro parlato, la lingua spontanea, l’idioletto. Mi conforta poterli interrogare se ho dei dubbi. Certo, essendo un matrimonio combinato dall’editore, può capitare che l’incontro funzioni solo sulla carta e l’uomo, di persona, si riveli molto meno interessante dello scrittore. Ma insidie non ne vedo, al massimo delusioni. E comunque io delusioni non ne ho avute mai. Anzi.
LB: La situazione "economica" che investe la condizione del traduttore letterario (ristrettezze, urgenze, difficoltà continue) sta già riverberandosi pesantemente sulla "qualità" dei risultati? Secondo lei è vicino il momento in cui questa condizione produrrà dei risultati così inaccettabili tanto da produrre un ripensamento generale e un passo indietro (che sarà però, finalmente, un passo in avanti)?
R: Sì, a volte si vedono traduzioni imbarazzanti. E infatti davanti a certi scempi si imbarazzano anche gli editor della casa editrice che li ha pubblicati, si imbarazzano i redattori, solo chi decide il budget per la traduzione resta impermeabile all’imbarazzo e continua a contare sull’ingenuità, per non dire ignoranza, della maggioranza dei lettori italiani, che sembrano capaci di ingoiare tutto. Comunque negli ultimi tempi, a mio avviso, si è rafforzato lo spazio per gli editori che lavorano sulla qualità, editori che rispettano i loro lettori e quindi – non dimentichiamolo - i loro scrittori. Oltre a, va da sé, i traduttori.
LB: Da un po' di tempo si è soffermata su Roberto Bolaño. Ma volevo chiudere con un pensiero che la riguardi sulla traduzione di poesia in lingua spagnola (un testo tradotto, un ricordo o citazione, un'omissione). Grazie.
R: Chiudo volentieri con dei versi di Nicola Gardini, da un suo libro di poesie sulla traduzione che ho appena finito di leggere:
La traduzione è un bacio.
È avere nella bocca
Non una, ma due lingue
Contemporaneamente
Ilide Carmignani (foto: Arianna Sanesi) |
Luis Cernuda |
R: Il primo libro intero che ho tradotto è stato Ocnos di Luis Cernuda, una scelta molto audace per una ragazzina di ventitré anni, ma un professore all’università voleva pubblicare un volumetto senza perdere tempo con la traduzione, che non valeva nei concorsi, e mi propose di occuparmene. Ricordo che, per allettarmi, disse: «Ti affido le note che invece fanno titolo». Mi sembrò il mondo alla rovescia, le note degne di riconoscimento quando bastava copiare qualche edizione critica e un bel nulla la traduzione, così difficile, anzi impossibile, diceva Ortega y Gasset. Però quell’estate dopo laurea, trascorsa a tradurre in giardino poemi in prosa su Siviglia, fu così bella che ci presi gusto e quando l’anno dopo andai a perfezionarmi alla Brown University, negli Stati Uniti, chiesi uno special course a un grande traduttore, oltre che studioso, Alan Trueblood, e al ritorno presentai due proposte a case editrici di Milano. Erano tutte e due molto sbagliate, editorialmente parlando, poemi in prosa appunto e una raccolta troppo lunga di racconti di una scrittrice ancora sconosciuta, ma gli editori pur non accettandone nessuna mi fecero fare delle prove e arrivò il primo libro, dall’inglese, Figlia del Tibet di Rinchen Dolma Taring per la Serra e Riva. L’inglese l’ho poi abbandonato appena possibile, mi sembra già difficile conoscere adeguatamente una lingua, figuriamoci due, solo che in quegli anni dallo spagnolo si faceva pochissimo, era il calo del dopo boom. Ricordo come fosse adesso l’emozione quando, nel monolocale di un’amica che mi ospitava durante quei viaggi della speranza a Milano, mi telefonò Michele Riva, l’editor, e mi disse: la prova è andata bene, il libro è tuo. Venticinque anni dopo, ogni volta che lo vedo, provo ancora l’impulso di baciarlo. Il compenso, specie in confronto a quanto accade oggi con gli esordienti, era più che dignitoso. Il contratto in compenso mi spaventò a morte e corsi a mostrarlo all’unico traduttore che conoscevo: l’editore, a suo insindacabile giudizio, poteva questo e quello e l’altro ancora, come in tutti i contratti di allora e anche di adesso, e infatti il traduttore mi disse bonario “stai tranquilla”. La revisione la feci una domenica di primavera a casa dell’editor, che con grande pazienza passò la giornata a spiegarmi gli errori, le sviste, le sciatterie, le ingenuità, anche qualche alzata d’ingegno. Privilegi dell’editoria artigianale di quei tempi. Da allora non ho più smesso di tradurre. Ho avuto molta fortuna e poi all’epoca nessuno voleva fare il traduttore, gli editori erano quasi allibiti quando chiedevo. I colleghi erano tutti traduttori per caso.
Julio Cortázar |
R: L’ultimo lavoro consegnato è L’inseguitore di Cortázar per SUR. Non so cosa è cambiato. Sintetizzando, probabilmente tutto. Conosco molto meglio lo spagnolo e conosco molto meglio l’italiano, ma soprattutto, grazie anche alle letture di teoria della traduzione e alla condivisione di esperienze con colleghi di lungo corso in occasioni come il Salone di Torino o le Giornate della traduzione, ho perso l’innocenza di allora, so in quanti e quali modi diversi si potrebbe tradurre un certo passo, vantaggi e svantaggi, e conosco ormai per esperienza le strategie di mediazione linguistico-culturale preferite dall’editoria italiana contemporanea. L’acribia, anzi l’ansia di controllo è la stessa. Ma anche il piacere, grandissimo, si rinnova ogni volta: lasciarsi possedere da un’altra voce, respirare al ritmo di un’altra esistenza. Questo per quanto riguarda me e il lavoro sulla pagina. Per quanto riguarda invece l’editoria, be’, capita sempre più spesso che i tempi siano frenetici e che il revisore sia un collaboratore esterno mai visto né conosciuto. Per fortuna il genere di testi che traduco, classici contemporanei sostanzialmente, mi tengono un po’ al riparo. Lavoro con editori che si rivolgono a lettori forti e che curano ancora molto la traduzione.
Juan Carlos Onetti |
R: Non lo so, mi verrebbe da rispondere che ogni libro ha le sue difficoltà, tradurre è impossibile, come dicevo sopra che diceva Ortega. Certo, ci sono libri terribili, come per esempio Un certo Lucas di Cortázar, l’opera più inafferrabile (e divertente) che mi sia capitato di tradurre. Un certo Lucas non è un romanzo, perché non c’è una storia, una trama, anche se ci sono decine di storie, e per di più ha un protagonista ricorrente, un certo Lucas appunto. Non è una raccolta di racconti, perché non tutti i testi rientrano nei canoni della short story. Non è un saggio perché c’è molta fiction e per di più fantastica. Non è un’autobiografia, anche se Lucas è senz’altro Cortázar e il suo passato argentino un tema onnipresente. Non è un libro filosofico, anche se riflette a fondo sul rapporto fra realtà e conoscenza. Non è un saggio di critica letteraria, eppure indaga ripetutamente i meccanismi e il senso del linguaggio e della scrittura. Non è un libro erotico, anche se ci sono pagine di estrema sensualità. Insomma, anche solo seguirlo su tutti questi registri espressivi è stata un’impresa, per non parlare del lunfardo, dei giochi di parole, dei neologismi, dello swing che modula il ritmo del testo. È vero però che poi, per altri versi, trovo non meno difficile Onetti, che apparentemente è limpidissimo, non fa giochi di parole né tanto meno se ne inventa di nuove, ma ogni volta che ti aspetti un aggettivo ti presenta un verbo, ogni volta che ti aspetti un verbo ti presenta un sostantivo... La sua traduttrice francese scriveva che tradurlo era come cercare di far camminare all’ambio una zebra. Nemmeno Roberto Bolaño è facile. E sento molto la responsabilità anche per un autore come Luis Sepúlveda, che ha un’incisività e una freschezza difficilissime da restituire, e per di più finisce nelle scuole di ogni ordine e grado come libro di lettura.
LB: Parliamo di sintassi. Nei libri che traduce e nei libri che legge in lingua italiana, quali sono le principali divergenze tra le lingue usate dagli scrittori? Capisco bene che non si può generalizzare, ma ad un livello di percezione le sembra che ci siano degli andamenti di apprezzabile diversità nella sintassi degli autori di lingua spagnola se confrontati con quelli di lingua italiana?
R: Purtroppo i linguisti si occupano di analisi contrastiva più a fini didattici che traduttivi e quindi, per risponderle, mi devo basare semplicemente sulla mia esperienza, una cosa poco scientifica insomma. La sensazione è che lo spagnolo letterario sia una lingua più libera, più esuberante, per esempio non esita a costruire frasi a senso, a cambiare soggetto in modo implicito, oppure a costruire romanzi con flashback potendo segnalarne l’inizio con un solo trapassato per poi tornare con disinvoltura alla sveltezza del passato remoto. Immagino sia perché nasce da una tradizione barocca, senza contare che è la lingua di cinquecento milioni di persone. L’italiano mi appare ancora molto legato all’eredità classica, è una lingua simmetrica, per chi non è toscano forse anche un po’ artificiosa. Un bellissimo giardino di bosso potato ad arte.
LB: Conoscere gli autori che si traduce: è sempre una risorsa e qualcosa di positivo o talvolta può tramutarsi in insidia? Se sì, in che modo?
R: Io credo che sia una risorsa. Mi piace molto incontrare i pochi autori viventi che traduco. Mi piace ascoltare il loro parlato, la lingua spontanea, l’idioletto. Mi conforta poterli interrogare se ho dei dubbi. Certo, essendo un matrimonio combinato dall’editore, può capitare che l’incontro funzioni solo sulla carta e l’uomo, di persona, si riveli molto meno interessante dello scrittore. Ma insidie non ne vedo, al massimo delusioni. E comunque io delusioni non ne ho avute mai. Anzi.
LB: La situazione "economica" che investe la condizione del traduttore letterario (ristrettezze, urgenze, difficoltà continue) sta già riverberandosi pesantemente sulla "qualità" dei risultati? Secondo lei è vicino il momento in cui questa condizione produrrà dei risultati così inaccettabili tanto da produrre un ripensamento generale e un passo indietro (che sarà però, finalmente, un passo in avanti)?
R: Sì, a volte si vedono traduzioni imbarazzanti. E infatti davanti a certi scempi si imbarazzano anche gli editor della casa editrice che li ha pubblicati, si imbarazzano i redattori, solo chi decide il budget per la traduzione resta impermeabile all’imbarazzo e continua a contare sull’ingenuità, per non dire ignoranza, della maggioranza dei lettori italiani, che sembrano capaci di ingoiare tutto. Comunque negli ultimi tempi, a mio avviso, si è rafforzato lo spazio per gli editori che lavorano sulla qualità, editori che rispettano i loro lettori e quindi – non dimentichiamolo - i loro scrittori. Oltre a, va da sé, i traduttori.
LB: Da un po' di tempo si è soffermata su Roberto Bolaño. Ma volevo chiudere con un pensiero che la riguardi sulla traduzione di poesia in lingua spagnola (un testo tradotto, un ricordo o citazione, un'omissione). Grazie.
R: Chiudo volentieri con dei versi di Nicola Gardini, da un suo libro di poesie sulla traduzione che ho appena finito di leggere:
La traduzione è un bacio.
È avere nella bocca
Non una, ma due lingue
Contemporaneamente
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