lunedì 2 gennaio 2017

"Il Golem" di H. Leivick

H. Leivick, pseudonimo di Leivick Halpern, scrittore bielorusso di lingua yiddish nato nel 1888 a Igumen (ora Cherven, vicino a Minsk), scrisse il poema drammatico in otto quadri Der Goylem tra il 1917 e il 1920. L'opera uscì nel 1921 a New York, città dove lo scrittore si trovava già dal 1913, cioè da quando, in modo a dir poco rocambolesco, era riuscito a fuggire dai lavori forzati in Siberia e imbarcarsi per l'America. Aveva aderito sin dalla gioventù al movimento socialista ebraico e trascorse più di un lustro, tra il 1906 e il 1912, tra carceri moscoviti e lavori forzati. Marsilio Editori, nella collana di classici centroeuropei "Gli anemoni" a cura di Annalisa Cosentino e Luigi Reitani, ramo della collana di "Letteratura universale", propone la traduzione di questo testo che resta uno dei lasciti più noti dell'autore, conosciuto anche per una produzione poetica che lo ha accompagnato per tutta la vita, anche in epoca post-Olocausto (nota è la sua raccolta In Treblinke bin ikh nit geven, "Non sono stato a Treblinka"). Ma si deve proprio al poema drammatico Il Golem, ora di nuovo disponibile in italiano (pp. 240, euro 17, a cura di Laura Quercioli Mincer, una prima versione data 1956 ed è a firma di Giorgetta Kalk Lubatti), la fama che toccò a questo autore che trascorse quasi cinquant'anni della propria vita negli Stati Uniti, fino alla morte nel 1962 a New York. Assieme al di poco antecedente Golem di Gustav Meyrink (1915), Il Golem di H. Leivick costituisce un dittico attraverso il quale studiare come sia stato calato in opere in quegli anni il tema fondante della fecondissima leggenda ebraica relativa al robot antropomorfo fabbricato dal rabbino di Praga Judah Loew ben Bezalel.

C'è qui una variante sul mito e non si tratta di una variante di poco conto, dacché il robot creato dall'argilla non detiene, come il golem del rabbino Maharal, un potere salvifico. Siamo davanti a un peculiarissimo caso di golem "nato stanco", la cui creaturalità è spenta nell'ombra. Quella del nostro poeta-tappezziere (con un secchio di colla e carta da parati è infatti spesso ricordato Leivick per le strade d'America) è una storia duale, di un rapporto padre-figlio assai singolare. E siamo parimenti sbattuti davanti allo stato mentale dell'uomo ebreo dell'Europa orientale nel periodo tra le due guerre, attraverso un testo che nelle otto scene percorre un periplo che lambisce di continuo le concezioni della nostalgia e della violenza nel pensiero e nella storia del popolo ebraico. Tra le molte osservazioni interessanti, Laura Quercioli Mincer, nella sua accuratissima presentazione dell'opera, ha scritto:

Nell'opera di Leivick, dunque, il fanttoccio-Messia creato dal Maharal di Praga sa di non essere mai pronto, cerca di ritrarsi dal suo compito, si rifiuta di vivere; con disperazione di bambino implora il suo creatore di lasciarlo fra le tenebre del non-essere.
Il poema drammatico di H. Leivick, che non "soffre" una normale lettura "da libro", una lettura finanche dimentica della potenzialità performativa del testo e della sua possibile destinazione d'uso in teatro, fu messo in scena in ebraico a Mosca nel 1925, proprio nella città dove l'autore aveva conosciuto la prima parte della proprie esperienza carceraria. Del resto i suoi effetti speciali (quasi splatter, come nota la curatrice) e la sua durata non ne fanno un testo presto pronto per la scena. Tuttavia, per chi volesse approfondire, anche la sua fortuna scenica offre diversi gradi di interesse. Quella del golem continua a dimostrarsi una leggenda feconda. Anche la stessa storia della parola "golem" (nella Bibbia citata solo una volta in un salmo) è degna di interesse, ad esempio quando incrocia il peculiare caso di naming dei primi computer israeliani, Golem 1 e Golem 2. Ma è evidente che il mito del golem e delle sue molteplici apparizioni letterarie sa contenere, come tutti i miti, le linee di forza principali lungo le quali si sviluppa la vicenda umana.

(Sotto il film muto Der Golem del 1920, diretto da Henrik Galeen e Paul Wegener, mentre qui una registrazione di una lettura dell'autore. Se si intende percorrere un percorso misto tra le arti, cinema e fumetti inclusi, ci si potrà solo sbizzarrire per capire fino a dove questo simbolo dell'anima e dello stesso popolo ebraico si è diramato, non trascurando, per il Diciannovesimo secolo, Frankenstein di Mary Shelley o per il Ventesimo autori come Jorge Luis Borges e Cynthia Ozick.)


2 commenti:

  1. Aggiungerei il volume di Moshe Idel: Il Golem, di Einaudi, un saggio storico avvincente e documentatissimo su questo argomento, da parte del massimo studioso vivente della Cabala Ebraica

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