venerdì 4 maggio 2018

Poesie inedite di Francesco Iannone





"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 


Testi di Francesco Iannone (Salerno, 1985) da Il mio sangue è un giardino (raccolta inedita).


Siamo costretti a indovinare nodi a 
sciogliere fiocchi. Siamo l'imbarazzo 
di Dio quando ci dimentichiamo 
dei corpi. Le vie. Ognuno traccia 
col carbone il suo segno, ognuno 
estrae dall'ossario il suo gesto 
bianco. Le vie. L'apparizione 
dello stormo. La raucedine del coro. 
Chili di catarro macchiano la mappa 
dei polmoni. Nessuna visione oltre 
queste fondamenta. Nessuna storia. 

Più sotto profumano i ceppi. 
Più sotto il buio pesta i cadaveri 
con i suoi piedi enormi. Come l'argento 
di una ragnatela che luccica 
da un capo all'altro dell'orizzonte. 
Tu fori i lobi dell'azzurro col tuo 
ferro aguzzo per poterci soffiare dentro. 
Simulo l'artificio. L'asfissia 
delle stelle e il loro ultimo raglio 
di luce. Godremo lì, fra il varco e l'incamminamento.


*


Su tutto ha vegliato un silenzioso 
facchinaggio di rami
questa notte. 
Il sacco nero è balzato giù dal grembo 
di qualcuno.
E così abbiamo lungamente sognato
a ritroso nel nostro desiderio
un’alba sfavillante, un epico
ussaro senza nome.

Ma laggiù
in quell’unica concessione della morte 
ti sento raggiungermi e crudelmente 
toccarmi la pancia.
Perché vivere vuol dire anche
opporre una resistenza lieve 
indietreggiare fino al bianco 
segno di confine.

Mostra al mondo 
la tua lesione
l’abitudine della voce a scomparire dentro la sua eco 
il puro vuoto
dall’interno
e in quelle cavità disabitate a lungo
e in quelle cavità che sono le cavità di tutti
talvolta si ferma una foglia, talvolta
entra allegra una colomba.

giovedì 3 maggio 2018

Poesia del politico-personale in Marino Badiale. Uno scritto di Massimo Bacigalupo

Questo scritto di Massimo Bacigalupo è già apparso su "Alias".

Marino Badiale, docente di Analisi Matematica all’Università di Torino e autore di saggi “di riflessione politica e culturale” (come dice la bandella), classe 1958, propone queste Poesie indifese (Genova, Il Canneto, 2017), un suo primo libro di liriche o comunque di “Pensieri che vanno spesso a capo” (titolo della IV e ultima sezione dell’accattivante libretto). Per Badiale scrivere versi è un modo di ragionare sulle emozioni private sullo sfondo molto presente della Civiltà e del Pensiero. Quasi ogni poesia è costellata di versi in corsivo che funzionano come un controcanto riflessivo e documentario: “I suoi martiri hanno per urna / il grande cuore della classe operaia”; “Lo stato dell’uomo che il tempo / ha cacciato in un mondo interiore”; “per te / una carezza vera / nella macchina del tempo di una sera”... Con felice scelta grafica, in fondo a ogni testo a seguire sono identificate le fonti, per esempio le tre citazioni appena riportate derivano rispettivamente da Marx, La guerra civile in Francia, da un “frammento giovanile di Hegel” riportato da Remo Bodei, e da “Aristocratica di Maria Bazar, per la voce indimenticabile e indimenticata di Antonella Ruggero”. Passione, riflessione, documentazione. Badiale conduce un discorso serrato che si legge con profitto, curiosi e partecipi del suo mondo “indifeso” ma in realtà felicemente oggettivato. Nessuna presunzione orfica, ma una conversazione col lettore su quanto più concerne l’estensore, astratto e concreto. La prima e più ampia sezione si chiama “I dialoghi della figlia”, e racconta di un dolore e di una separazione. Si compone di 28 testi numerati e di due poesie in appendice. Ecco qualche titolo e incipit: 1. “È tutto vero” (“Piangevi / oltre ogni consolazione / per la morte di Padmé”); 2. “Un momento di pace” (“Sempre i buoni contro i cattivi, / mai un momento di pace”); 3. “Ricordare l’essenza” (“Lo spirito / come vero spirito / è in sé e per sé, // non mi fai ridere non mi fai ridere / mi sfidavi a farti il solletico / trattenendo il respiro”); 4. “La sua giustizia” (“Ho cercato di essere giusto / e ho fallito / perdonami // Quaerite autem primum // Troppa la paura, l’angoscia / che mi portavo in cuore”; 5. “A.” (“Vengo a darti il bacio notturno / sei perduta nei sogni, assente / ma il tuo respiro / così sottile / è tutto”). Come si vede, il dettato è trasparente, indifeso, ma visto che la mano che scrive è avvertita, seria, giocosa, dolente, innamorata, le parole suonano nuove, toccano questioni intime e storiche. Le parole si rincorrono, vi si cerca un senso, non tanto per fare, ma con continuità, soprattutto per comunicare. Sicché la poesia ha proprio la funzione di aprire un dialogo, con la figlia (come dice il titolo) e con il lettore che legge questo libro dalla prima all’ultima pagina con un senso di scoperta e partecipazione. La sezione II porta il titolo “Per un maestro (Massimo Bontempelli 1946-2011)” e la terza “Un fantasma d’amore” (“Ho sempre pensato / che non hai niente in comune / con la bruna gitana di Bizet, / a parte il nome // Non so come descriverti / ma certo non potrei usare / quelle parole di passione e morte. / Dovrei parlare piuttosto / di una dolcezza infinita (quella che era solo per me, ricordi?)”). Il mondo entra nella poesia come in tutti i nostri discorsi senza stravolgerla, facendoci conoscere l’universo di riferimenti più o meno condivisi dell’autore. Molti per esempio si sorprenderanno che un pensatore pisano del secondo Novecento fosse omonimo del Bontempelli d’anteguerra e scoprirà una figura di maestro segreto amato e discusso, che con Badiale ha firmato il libro Civiltà occidentale. Un’apologia contro la barbarie che viene (prefazione di Franco Cardini, Il Canneto 2009). Badiale dialoga con l’amico assente dei temi su cui sempre tornavano, che sono anche i nostri, e così ce ne consegna un istruttivo ritratto: “Come si può vivere decentemente / in un tempo senza speranza / come il nostro? / Ce lo siamo chiesti a lungo, ricordi? / Dovevamo anche scriverci un libro. / Tu avresti parlato di Proclo e Giamblico. / Il tuo destino ha deciso diversamente”. Le indicazioni di lettura di Badiale ci invitano a seguirlo nei suoi gusti di pensatore e appassionato di musica leggera (le ultime due poesie del libro del nostro matematico hegeliano si intitolano “Lettera aperta a Francesco Guccini” e “Patty Pravo sulla vecchiaia, la morte, il ricordo”). Insomma, Poesie indifese permette di toccare, per dirla con Whitman, un pensiero e un uomo del 1958 che si racconta con generosità, e compie un lavoro poetico utile e apprezzabile che non ha molti eguali.


Massimo Bacigalupo

martedì 1 maggio 2018

Sulla gratuità: i libri di Jean-Luc Nancy e Marc Augé

L'editore Mimesis ha recentemente fatto uscire due libretti della collana "Chicchidoro", entrambi di area francese e entrambi curati da Francesca Nodari. Questi sono Cosa resta della gratuità? del filosofo Jean-Luc Nancy (pp. 48, euro 7) e Sulla gratuità dell'antropologo Marc Augé (pp. 78, euro 8). La pubblicazione ravvicinata intende portare l'attenzione su un concetto come quello di gratuità che è tutt'altro che scomparso dalla società in cui viviamo. Per chi è cresciuto con le orecchie piene del ritornello che dice che nemmeno il cane muove la coda per niente, può sembrare strano trovarsi immerso in un contesto dove l'open-source è all'ordine del giorno, il volontariato è capillare e pervasivo e dove troviamo continui rimandi a una gratuità insita nelle azioni più disparate (pensiamo poi anche alla curiosa espressione "gesto totalmente gratuito"). Ora l'analisi della gratuità è tutt'altro che semplice, incistati come siamo in una catena umana e naturale che è fatta di crediti e molti debiti. E anche l'affrontare il tema da due versanti, filosofico con Nancy e antropologico con Augé, non è necessariamente una garanzia di riuscita della missione. Tra l'altro il concetto ha prima di tutto una larga eredità in economia, nella quale si sono inseriti gli apporti dell'antropologia: pensiamo solo al celebre Saggio sul dono di Marcel Mauss del 1924 che ha inaugurato una secolare stagione di riflessione che intreccia pratiche economiche, religiose, la libertà di donare (e accettare), la configurazione delle relazioni sociali e quindi una stagione di riflessione sulla fiducia che ha poi conosciuto un vertice con lo studio del sociologo tedesco Niklas Luhmann intitolato proprio La fiducia (del 1968, poi 1989).

Che cosa aggiungono allora a un vero e proprio grumo di riflessioni intricate questi brevi libri di cui si dà notizia oggi? Augé, attingendo a una serie di esempi letterari e d'attualità stretta, collega la gratuità al gesto e sostiene che ogni libertà e ogni gratuità sono relative. La sua è una posizione critica (anche del linguaggio) che mira a inquadrare il momento in cui agiamo "per il gusto di fare qualcosa" diventando così, per qualche istante, spettatori di noi stessi. Ed è proprio la logica dell'istante che prevale in questo ambito di gratuità. Ma se la vita diventa una sequenza di istanti (così come anche l'estetica social sembra insinuare) viene meno un respiro del tempo e qualsiasi cornice di progettualità. Il discorso si salda così con quello come sempre interessante di Nancy, per il quale la gratuità non è sostanzialmente possibile nella terra dell'homo oeconomicus, dove lo scambio ontologicamente preclude qualsiasi idea di gratuità. Nella prospettiva di Nancy, per il quale diventa centrale circoscrivere la nozione di "riconoscimento del debito", nemmeno nessun gesto potrà mai definirsi gratuito. Di base, in entrambi gli autori di queste pagine, prevale una riflessione che per la via della gratuità riconduce alla solitudine dell'uomo contemporaneo e a al suo isolamento. Per entrambi, sulla scia di una lunga tradizione, segnatamente francese tra l'altro (ma non solo), diventa fondamentale tornare a parlare di gratuità soprattutto per tornare a parlare dell'altro oltre l'individuo. 

giovedì 26 aprile 2018

"L'inconscio e la dialettica" di Enzo Melandri e la fondamentale critica a Freud

Presso la casa editrice Quodlibet prosegue la pubblicazione e sistemazione doverosa di tutte le opere del filosofo Enzo Melandri (Genova 1926 - Faenza 1993). Anni fa, su queste pagine, già abbiamo dato notizia di un libro tanto piccolo quanto fondamentale intitolato I generi letterari e la loro origine. Con riferimento a quel contributo, più passa il tempo e più ci accorgiamo del valore di quel breve scritto. Succede spesso così: una manciata di pagine può dare una scossa più forte di un tomo di cinquecento e in filosofia e nella scienza è spesso accaduto proprio questo (altre situazioni come la prosa e ultimamente anche la poesia hanno inspiegabilmente bisogno di allargarsi ed espandersi). Ora nella stessa collana compare L'inconscio e la dialettica (pp. 112, euro 12, con una postfazione di Felice Cimatti), un testo che uscì per l'editore Cappelli di Bologna nel 1983 e nel quale l'economia politica di Marx e l'inconscio di Freud arrivano a toccarsi e fertilizzarsi. Per arrivare a dire quello che preme, Melandri adotta un progressivo confronto con l'opera dello psicanalista argentino Ignacio Matte Blanco, il cui progetto consente al filosofo di mostrare come la contraddizione e gli oggetti contraddittori, che avrebbero la propria locazione proprio nell'inconscio, siano una "metafora dinamica". 

In una trattazione che abbraccia ipnosi, sogni, inconscio (sostantivo nell'accezione forte, aggettivale nella versione debole), la matematica di Cantor e Dedekind, Melandri prende avvio dal problema fondamentale della dialettica, ovvero prende le mosse chiedendosi se l'oggetto del discorso possa essere contraddittorio o meno. Sullo sfondo c'è l'urgenza di capire se di un dato oggetto del discorso si può parlare in modo sensato (ad esempio un oggetto che sia contemporaneamente A e non-A risulta contraddittorio e risulta arduo parlarne in modo sensato). La questione si fa interessante se applicata alla psicanalisi e all'inconscio in particolar modo. Cimatti nella postfazione sintetizza il problema chiedendo come è possibile occuparsi dell'inconscio alla maniera di Freud, se "il modo scientifico di conoscere qualunque oggetto si basa su operazioni logico-linguistiche affatto incompatibili con le (presunte) caratteristiche di quello stesso oggetto?" Sullo sfondo, centrale, il problema di come sia possibile parlare dell'inconscio, cioè di qualcosa che sfugge al nostro apparato cognitivo. Nel corso di queste pagine Melandri cerca sostanzialmente di capire (e contestare) l'attributo di illogicità dato da Freud all'inconscio.

La temperatura del ragionamento di Melandri sale allorquando definisce la psicanalisi come interpretazione di manifestazioni neurotiche mediante logoterapia e osserva, se le cose stanno così, come questa diventi una pratica poco convincente che può andare presto a noia. Come può essere che lo psicanalista interpreti o spieghi il sogno o l'atto mancato? E se l'inconscio fosse davvero illogico, come provare a fare su questo un ragionamento scientifico o addirittura, come tenta Melandri, come provare a perseguire l'epistemologia della psicanalisi? Qui s'innesta l'idea regolativa dell'inconscio che secondo Melandri la psicanalisi deve postulare al fine di rincorrere un discorso più efficace e teoreticamente elegante e qui si innesta anche il capovolgimento e contraddittorio rispetto a Freud: non illogico bensì irrazionale è il nostro inconscio, quindi, per definizione, oggetto non catturabile dai nostri strumenti della logica, ovvero dagli stessi strumenti dai quali il discorso era partito. Ma non è possibile rinunciare alla logica per Melandri, mai e poi mai, perché rinunciare alla logica significa precludersi qualsiasi possibilità di conoscenza. Spesso diciamo di un sogno che è assurdo perché vogliamo inquadrarlo in una data logica che non è la sua. In tale cornice ogni evento psichico mantiene una straordinaria autonomia e l'inconscio diventa "obiettivo di un certo sistema di incongruenze".

Come si può dunque conoscere l'inconscio? Innanzitutto serve scalpellare una radicale critica di Freud, laddove riduce l'inconscio a fatto segnatamente linguistico. Per Melandri è venuto il momento di slegare il fatto psichico dall'accento dominante che su di questo esercita il linguaggio. Viva allora la psicanalisi che resta ben salda nel mondo della parola, ma stiamo attenti che la sfera della psiche non si sovrappone a quella del linguaggio, ma è a questa antecedente. E se con Lacan si può arrivare a dire che l'inconscio è strutturato come linguaggio, questo non significa che si possa dire che l'inconscio è linguaggio. Le possibilità conoscitive attorno all'inconscio per Melandri non si possono pertanto fondare su un sapere ancora saldamente logico o saldamente linguistico. Serve un sapere che si apra all'ignoranza, a ciò che sfugge e proprio qui, così, il circolo si salda con la dialettica del titolo di questo saggio. La psicanalisi, nel lacaniano Melandri, si smarca dalla sua centratura linguistica e lo psicanalista diventa colui che propone buone analogie affinché il paziente possa arrivare a pensarsi in modo inedito, scongelato. Come chiude Cimatti la sua postfazione, la psicanalisi così facendo "non dà la parola all'inconscio, al contrario, produce nuovo inconscio, e così facendo inevitabilmente lo rivoluziona."

lunedì 23 aprile 2018

Ritorno di Hart Crane. Una recensione di Massimo Bacigalupo a "White Buildings"

Di Grenelle Edizioni abbiamo già parlato in questa intervista. La recensione seguente di Massimo Bacigalupo all'edizione di Grenelle di White Buildings è apparsa su "Alias". Di Hart Crane si è parlato anche in quest'altra intervista con Simone Maria Bonin, traduttore e curatore del volume Atlantide (Thauma edizioni), contenente poesie, prose e corrispondenze del poeta.


Un piccolo editore di Potenza, Grenelle, ci ripropone uno dei libri di poesia americana più importanti del secolo scorso, White Buildings di Hart Crane (a cura di Piero Pascarelli, pp. XL+86, 14 euro). È un piccolo libro (23 poesie per lo più brevi) di grande tensione lirica, che dato anche il formato tascabile invita alla lettura odeporica. Hart Crane era contemporaneo di Hemingway e dell’amico Cummings e raggiunse nella breve e tormentata vita di omosessuale alcolista dei vertici lirici assoluti. Di solito lo si ricorda per il poema The Bridge, che doveva essere una risposta affermativa e whitmaniana a The Waste Land, una esaltata e diseguale storia dell’America vista dal meraviglioso Ponte di Brooklyn. Ma c’è chi sostiene che in queste liriche brevi egli ha dato il suo meglio. Ecco i primi versi della prima poesia, “Legend”: “As silent as a mirror is believed / Realities plunge silent by...”. Pascarelli, autore della approfondita introduzione e di ampie note, traduce: “Silenziose come si crede uno specchio / Le realtà affondano nel silenzio vicino...”. C’è la lezione dei metafisici (Eliot) recepita in un bar di Broadway. E la vocazione assoluta della poesia (Shelley). Infatti “Leggenda” continua: “Non sono pronto al pentimento; / Né a misurare rimpianti.  Perché la falena / Non piega nulla più che la fiamma / Ancora implorante. E tremuli / Fra i bianchi fiocchi cadenti / Sono i baci – / L’unica verità che vale tutto”. È un programma di passione e abbandono (Crane morì suicida a 32 anni gettandosi da una nave nel Golfo del Messico). Tipica della poesia di Crane è l’abbondanza di immagini, sinestesie e involuzioni sintattiche. Il tutto si giustifica come musica e spesso non è facile per lettore (e traduttore) raccapezzarsi fra tanta ricchezza e stranezza. Comprendiamo a tratti, a lampi, ascoltiamo il rumore della risacca. La raccolta si conclude infatti con la celebre sequenza “Voyages” (viaggi, navigazioni), sei poesie estatiche (salvo la prima assai sobria: “Il fondo del mare è crudele”) nate da un grande breve ricambiato amore: “Hasten while they are true, sleep, death, desire, / Close round one instant in one floating flower” (“Affrettati finché son vere – il sonno, la morte, il desiderio, / Sono racchiusi all’istante in un fiore che galleggia”). È uno dei “carpe diem” più memorabili della poesia in lingua inglese, con quella straordinaria rima piana desire/flower. (Shakespeare rimò flower con power in un sonetto celebrativo della bellezza e della poesia.) Sullo sfondo, come si accennava, il paesaggio sognante dei Caraibi, dell’oceano (vengono in mente le corone hawaiane alla fine del film Da qui all’eternità). E Melville, che scrutò quel mondo ambiguo di fiori e desideri appagati, appare nella celebre riflessione sulla sua tomba nel cimitero del Bronx: “Spesso di sotto l’onda, di là da questa scogliera / Egli vide i dadi d’ossa degli annegati lasciare / Un’ambasciata....” (ma forse, più che “scogliera”, ledge sarà la pietra tombale del marinaio scrittore su cui se ben ricordo  è incisa una lira?). Crane è un poeta urbano che vede il suo viso moltiplicato in una caraffa (“Il serraglio del vino”), ma ha nostalgia di spazi interminati, e una famosa poesia si intitola “Riposo di fiumi”: “Non potei mai ricordare / Quel ribollente, regolare acquattamento delle paludi / Fino a che l’età non mi portò al mare”. Com’è giusto, i versi e le immagini non sono mai del tutto perspicui, e di alcuni credo nessuno sia mai venuto a capo, tale e tanta la densità metaforica e sintattica. La traduzione (la seconda dopo quella felice di Roberto Sanesi, raccolta nel volume Il ponte e altre poesie, 1967) aiuta a scandagliare l’inglese, che poi va assaporato di per sé. La poesia di questo genere ha a che fare non solo col suono ma quasi con le papille gustative, il modo in cui i suoni si sciolgono nella bocca, o vi si muovono, diventano carnali. Sul livello del suono c’è anche (ci spiegano le note e le dichiarazioni di Crane) l’imitazione del jazz, presente nella poesia “Per il matrimonio di Fausto ed Elena”, una delle più ampie e complesse e, diciamolo, difficili. (Una studiosa italiana, Bonalda Stringher, vi dedicò molte pagine anni fa: Introduzione alla poesia di H.C, 1987.) Ma il lettore non iniziato potrà accontentarsi di liriche meno ardue, come “Chaplinesque”, che piacque allo stesso Chaplin: “Perché possiamo ancora amare il mondo, noi che troviamo / Alla porta un gattino affamato, e conosciamo / Segreti ripari per lui dalla furia della strada...”. La protezione della debolezza, il poeta esaltato e il poeta del cinema. E poi la sconfitta, nonostante tanto sognare. White Buildings è un libretto tutto da godere ma sarebbe un errore prenderlo per poesia pura. Nel suo folle volo c’è un elemento tragico che è connaturato all’esperienza americana.

Massimo Bacigalupo

domenica 22 aprile 2018

Erika Crosara per "Giri di chiglia" a Milano sabato 28 aprile


DIALOGO CON ERIKA CROSARA
Sabato 28 aprile – h 17:30
Caffè Colibrì, Milano
(via Laghetto 9/11)

Torna "Giri di chiglia", il ciclo di incontri poetici de "La Balena Bianca". Sabato 28 aprile, dalle 17:30, Erika Crosara dialogherà con Alberto Cellotto e Lorenzo Cardilli.

"Giri di Chiglia" è una rassegna dedicata alla poesia contemporanea e alle sue sfide. Attraverso letture dei testi e discussioni a più voci, l'incontro propone una "visita guidata" nell'officina dell'autore. Sullo sfondo, i grandi problemi della poesia di oggi: quali stili ha ancora senso praticare? Cosa rimane da dire alla poesia? Come può "andare verso il pubblico"? Questioni urgenti e condivise, pur nella specificità di ogni percorso creativo.


Erika Crosara è nata a Vicenza, nell’ottobre 1977. Laureata in Conservazione dei beni culturali, attualmente vive a Galleriano di Lestizza (UD). Le sue poesie sono presenti su riviste, blog letterari e nelle antologie Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est (2008), Notturni di versi. Crisi (2010), Salvezza e impegno (2010), Ombre come cosa salda. Il Purgatorio letto dai poeti Canti X-XXVII (2011). Ius è il suo primo libro di poesia (Anterem Edizioni, Verona 2010; Premio Lorenzo Montano nello stesso anno). Collabora con il fratello Diego Crosara, musicista e compositore (Case, 2012). 

(Ricordiamo questa nota di Giusi Montali su Ius di Erika Crosara pubblicata qui.)


Lorenzo Cardilli (Rho, 1984) è redattore de «La Balena Bianca» e si occupa perlopiù di poesia contemporanea. Ha svolto un dottorato di ricerca presso l'Università degli Studi di Milano e l'Université de Fribourg - Suisse e insegna Italian and European culture al Politecnico di Milano.

venerdì 20 aprile 2018

"Anonimo veneziano" di Giuseppe Berto: dai dialoghi per il film e il teatro al romanzo che lavora negli spazi tra i dialoghi

Ad un certo punto de Il dilemma Giorgio Gaber canta "l’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo". È una bella canzone sulla coppia, che mi pare abbia qualcosa da dire su questo "tema". Può capitare di ripensarla leggendo questo libro. Non so quanti libri oggigiorno dicano qualcosa di interessante sulla coppia o sulle coppie. So che a suo tempo qualcosa di interessante lo disse Giuseppe Berto con Anonimo veneziano, inizialmente film del 1970 diretto da Enrico Maria Salerno per il quale Berto scrisse la sceneggiatura e i dialoghi. Di lì a poco, nel 1971, il testo uscì anche come "Testo drammatico in due atti". Solo nel 1976, direttamente nella collana BUR, e curiosamente sollecitato dal lavoro della traduttrice inglese Valerie Southorn che ne aveva ingegnosamente trasformato le didascalie teatrali in qualcosa di più vicino a un romanzo, il testo approdò alla versione di romanzo breve o racconto lungo che dir si voglia. Possiamo leggerla nuovamente oggi, nell'anno del quarantennale della morte dello scrittore, anche in questa nuova edizione di Neri Pozza (pp. 112, euro 15, con introduzione di Cesare De Michelis e con la prefazione dell'autore all'edizione del 1976). In questo libro Berto consegna una Venezia "anonima" e inedita, come ha ricordato Diego Valeri. I giochi metaletterari con Thomas Mann de La morte a Venezia o con John Ruskin de Le pietre di Venezia sono sostanza della descrizione che interessa la città della laguna, colta già nel suo cancro conclamato. Ma vi sono i giochi interni e i fraseggi musicali con il compositore Alessandro Marcello, fratello meno fortunato di Benedetto, eppure autore di quel capolavoro di concerto del 1717 che diventa colonna sonora della parte finale e della scena conclusiva del libro. Del resto la storia, abbastanza nota ormai dopo quarant'anni di buon successo cinematografico e librario, ci mostra all'inizio un genio un po' sgualcito "che non ha avuto molta fortuna" - proprio come Alessandro Marcello - mentre aspetta l'ex moglie in arrivo col rapido da Milano a Venezia Santa Lucia.

L'inizio vero in realtà è una breve descrizione di una Venezia brulicante, dove la gente fa le cose di ogni altra gente, ma con parvenza di commedia, quasi "un invito affinché la morte facesse più in fretta". I ratti, spesso nominati nel testo, vanno moltiplicandosi in attesa sotto i ponti. Gli avvallamenti delle pietre si sentono sotto i piedi. Il protagonista ringrazia l'ex moglie per essere venuta, anche se lei non conosce il motivo della chiamata. Non sanno bene dove andare. E così, lasciando la stazione dei treni, s'incamminano per qualcosa che è poco più di mezza giornata da trascorrere assieme, con l'orario dei treni per il ritorno a Milano a far da orizzonte, quasi una ghigliottina variabile e visibile che incombe sullo sviluppo della vicenda. Si può dire altro, e in fondo non c'è tanto da "spoilerare" in una storia ormai abbastanza nota che all'epoca fece scalpore anche per le assonanze con il film Love Story. I due hanno avuto un figlio e da otto anni non si vedono. Lei ha scelto di sposare un uomo ricco e di vivere a Milano. Da quest'uomo ha avuto una figlia. Prendono un vaporetto, vanno a consumare assieme un pasto in una trattoria che offre loro un piatto scadente. Tornano a camminare, lui ogni tanto le scosta i capelli e sente il bisogno di sfiorarla, litigano e parlano ancora, alternano freddezza a slanci dove sembrano capirsi. Infine si dirigono verso la casa di lui e alle prove finali per la registrazione del concerto di Alessandro Marcello nel quale lui ha la parte prominente dell'oboe. Pensando alla registrazione del concerto lui pensa al figlio. 

Sui dialoghi si dovrebbe spendere una frase in più, anzi, leggendo questo libro è utile prestare attenzione proprio allo spazio tra i dialoghi. Perché se è vero che quest'opera nasce per il cinema e quindi si concentra primariamente sui dialoghi e sulla sceneggiatura, la grandezza di Berto nella stesura del romanzo breve del 1976 è stata invece quella di inserirsi e lavorare nello spazio che sta tra i dialoghi. Mi capita di riscontrare - ma potrei essere solo in questo rilevamento - che i dialoghi di tanta prosa contemporanea rendono spesso un personaggio un po' più o un po' meno di quello che è, lo incalcano e deformano. Insomma, la massima mimesi della parola in presa diretta, in narrativa, rischia di diventare il massimo imbroglio (pensiamo poi anche al gigantesco problema affrontato dal cinema e dai doppiaggi). Quello che ha saputo fare Giuseppe Berto in Anonimo Veneziano del 1976 e ciò che costituisce la grandezza di quest'opera è lo sforzo di scrittura che l'autore ha messo tra un dialogo e un altro, tra una battuta e l'altra. Lo ha fatto ora per correggere un tiro, ora per depistare, ora per farci dubitare, ora per plasmare scultoreamente le poche ore di vita assieme di questa ex coppia che ritorna appunto coppia per qualche istante. Farlo senza portarsi dietro le prime destinazioni d'uso del testo è il prodigio contenuto in questo libro breve.

A indagare meglio scopriamo che il protagonista, malato di cancro e prossimo alla morte, ha chiesto all'ex moglie di raggiungerlo a Venezia proprio per parlare. In un passo, che tra l'altro ricorda così bene il frammento di Gaber, si legge:
«[...] C'è un canale con tutte gondole ai lati, messe a riposo per l'inverno. E case modeste, come di campagna, e campielli con biancheria ad asciugare, e bambini che giocano al pallone. Passeremo di qui, mi dicevo, guarderemo tutte queste cose e parleremo. Non abbiamo mai veramente parlato, noi due. Abbiamo sempre fatto l'amore o litigato. Questa volta mi sarebbe piaciuto parlare di cose qualsiasi, le più stupide possibile per non trovar da discutere, e tu avresti capito, dopo. Dopo avresti capito, ma senza soffrire molto, e magari me ne saresti stata grata, mi avresti ammirato. Invece ci siamo messi a litigare come il solito, e poi, al primo momento buono, t'ho spiattellato: guarda che sto morendo. Non sono cambiato. Autocompassione, narcisismo, insicurezza, le piccole astuzie di tutti i bambini che vogliono attenzione e simpatia. Non ce l'ho fatta a crescere, io.»
Amore e morte, ancora una volta. L'ennesima. Morte e dialogo: l'ennesimo dialogo con la morte. Anni prima della legge sul divorzio Giuseppe Berto ha intercettato alcune linee di forza essenziali sul discorso che riguarda la coppia, duratura o effimera che sia, sulla sua necessità o meno. Lo ha fatto trasformando una storia di un film in un libro che si conclude davvero in musica, dove la finalità irrimediabile di ogni parola da scegliere è diventata per l'autore un "piacere tormentoso" e lungo. Il finale, soprattutto per quell'avverbio abbastanza sul quale è posta la parola FINE, merita anch'esso di essere riportato. Lei ha appena abbandonato le prove per tornare a Milano, dopo aver rinunciato a rimanere con l'ex marito morente. L'orchestra può quindi rimettersi a suonare, dopo aver sbagliato una prova (il corsivo è mio):
Di nuovo sono lì, immobili nella breve ed interminabile attesa, e più facile è la concentrazione, dato che l'estranea è andata via. Al suo cenno gli archi cominciano, dapprima appena percettibili, poi più sicuri nei lenti accordi d'attesa. E lui attacca, la nota ferma, seguita con necessità e precisione dalle altre, nell'antico concerto che dice la rassegnata disperazione per la morte di un uomo, e forse d'una città, e forse anche di tutto ciò che è già vissuto abbastanza.



Alessandro Marcello, Oboe Concerto in D minor
Heinz Holliger, oboe
I Musici
Registrato nel luglio 1986 
a La Chaux-de-Fonds, Svizzera