martedì 30 luglio 2013

Giulio Casale e una vecchia intervista su "Intanto corro"

Librobreve intervista #17 / Ripescaggi #28


Sabato 3 agosto al teatro Manzoni di Paese (Treviso) potrete ascoltare Giulio Casale e il suo Da Gaber al futuro. L'occasione di questo spettacolo mi ha fatto tornare alla mente una vecchia intervista che feci al cantante degli Estra qualche anno fa per la rivista "Che libri". Era da poco uscito un volume di racconti dal titolo, per me irresistibile, di Intanto corro e quei racconti costituivano il filo di quella nostra breve conversazione. Giulio Casale (Treviso, 1971) è figura pressoché unica nel panorama italiano: attore, scrittore, cantautore,  interprete della complessa arte del teatro-canzone. Negli anni Novanta è protagonista della scena musicale quale leader del gruppo rock Estra, con cinque album all’attivo. Nel 2000 pubblica il libro di poesie Sullo Zero. Al disco omonimo che ne documenta il reading dal vivo vengono assegnati il Premio Mariposa (2002) e la Targa Premio Grinzane Cavour (2003). Nelle stagioni teatrali 2006/2008 propone nei teatri italiani Polli di allevamento di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, spettacolo premiato come miglior atto di prosa del 2007 con il Premio Enriquez. Ha elaborato drammaturgicamente i testi di Mario Capanna sul ’68 per lo spettacolo Formidabili quegli anni, da lui stesso interpretato, che ha debuttato al Teatro Strehler di Milano nella primavera del 2008. È traduttore dei testi di Jeff Buckley (Dark Angel, 2007). Intanto corro, il libro uscito per Garzanti nel 2008 (pp. 144, euro 11,90, ancora in commercio), costituisce il suo esordio narrativo.

Smarrirsi e ritrovarsi nella città dell’ultimo uomo
Intervista a Giulio Casale
di Alberto Cellotto

AC: Partiamo da una cosa che si legge nei ringraziamenti di Intanto corro. Lei ringrazia Anna Maria Carpi, una tra le più importanti voci della poesia italiana, per averla distolta, durante un viaggio in treno, dalla "concettualità". Com'è andata effettivamente?
GC: Era subito dopo il bel riscontro che avevo avuto con le poesie di Sullo Zero, mi ero preso la briga di elaborare una lunga prosa che potesse essere una sorta di “come io vedo il mondo”. Lei fu molto benevola e affettuosa, lesse il tutto e mi consigliò di volgerlo in senso narrativo, lasciando che le mie idee trasparissero dal racconto e non viceversa. Ci sono voluti anni e alla fine eccoci qua. Ma Anna Maria non lo sapeva che Intanto Corro nasce da quel lontano suggerimento. Io pago sempre i miei tributi, e l’ho voluto scrivere in appendice, in segno di gratitudine, e di vera stima, non solo artistica.

AC: Intanto corro è un esordio narrativo che arriva da un artista che ha davvero provato molte strade e tutte con successo di pubblico e critica. Ma come è arrivato a scrivere racconti? Ci pensava da molto?
GC: Ho sempre scritto, fin dal liceo, ogni sorta di genere: la scrittura, l’autentica “passione” (il patire) per la pagina, per la parola esatta da scrivere è propriamente ciò che tiene insieme le mie diverse anime. Anche l’amore per il teatro forse viene dalla forza (a volte sconvolgente) delle parole, meglio se pronunciate nel buio, se rompono un silenzio perfetto. Perciò sì, ci pensavo da molto, perché scrivo da molto, poi la vita è fatta di occasioni e questa, arrivata grazie all’editore Garzanti, mi è sembrata semplicemente bella, e ancora una volta “appassionante” al punto giusto.

AC: Questi racconti si rivolgono al lettore nella loro brevità, incisione e varietà di temi e situazioni. C'è un tema che le piacerebbe continuare ad esplorare in una forma di più ampio respiro?
GC: In generale il filo rosso che lega tutto quanto io abbia prodotto sin qui mi pare sia l’attenzione al nostro “di dentro”, al nostro smarrirsi e ritrovarsi, anche un po’ misteriosamente, e non senza dolore, ahimè. Diceva Céline: come lavoro ce n’è per una vita intera. In particolare il tema della morte, della nostra incapacità di com-prenderla, di accettarla, lì i motivi sono infiniti, davvero.

AC: Intanto corro è un titolo fortemente provvisorio, con quell'avverbio posto in posizione iniziale. C'è una sensazione di forte provvisorietà nei racconti del libro, c'è attenzione alle mutazioni grandi o piccole che caratterizzano quest'epoca e i nostri paesaggi, mentali o esterni che siano. Ma c'è anche un senso di stordente fissità, di immobilità quasi come le mutazioni continue del reale producessero un effetto a somma "zero". Si ritrova in questa osservazione?
GC: Sì, direi di sì. In molti racconti ciò che prevale è un senso di azzeramento finale rispetto al nostro aver tanto progettato, architettato,  incanalato percorsi individuali in gabbie sicure e moderne che però mostrano tutta la loro fragilità in momenti decisivi, direi “rivelativi”. Lo stile doveva essere in grado di rendere conto di tutta questa complessità, a maggior ragione dato che si tratta spesso di situazioni tratteggiate con la massima sintesi possibile. La provvisorietà è per me un sentimento ambivalente per eccellenza: noi umani siamo provvisori costitutivamente, ma è proprio in questa parzialità, e però in questa consapevolezza che si può dare, e magari diventare, un raggio di luce, per sé e per gli altri.

AC: Da leader di un gruppo rock in un’epoca pre-mp3 ad autore della contemporaneità dei nuovi media. Un cambiamento che ha mutato anche il suo modo di rapportarsi con le persone che la seguono e la stimano da tempo? Che rapporto ha con queste?
GC: Continuo ad essere molto poco affascinato dai nuovi media. Li uso, li frequento come si frequenta un centro commerciale…

AC: Una cosa che mi ha colpito subito leggendo il suo libro è che si presenta popolato di personaggi di tutte le epoche. Sembra quasi che ogni fascia anagrafica trovi posto nei racconti (dall'adolescente, ad un ipotetico suo coetaneo, alle persone più anziane). Tra queste età, ce n'è una che la incuriosisce in particolar modo dal punto di vista della ricerca artistica, un'età nella quale ravvisa degli spunti interessanti per leggere il nostro tempo?
GC: I due estremi mi paiono altrettanto significativi, e perciò su di loro ho insistito un po’ di più nel libro: gli adolescenti e gli anziani. I primi del tutto in balìa della contemporaneità, indecisi fino all’osso se combatterla o sguazzarci dentro, sperando ancora e soltanto nel “successo”, e i secondi un po’ spaesati un po’orgogliosi di aver saputo tener duro, di aver resistito a tanto, anche a tanto orrore, con davvero infinite storie da raccontare, storie che a un ragazzo, oggi, suonano proprio come storie dell’altro mondo…

AC: Milano, anche se non da sola, ha una parte importante nel libro, nonostante sia questo un libro itinerante dove la strada diventa spesso protagonista. Lei ha vissuto per molti anni anche nella provincia (in molti ricorderanno l'album Nordest Cowboys dei suoi Estra) prima di spostarsi a Milano. Come ha influito questo trasferimento nel suo percorso di avvicinamento alla narrativa? Che rapporto ha con due città diverse come Treviso e Milano?
GC: Milano, come dice Milo De Angelis, è “la città dell’ultima volta”, e io aggiungerei dell’ultimo uomo, avamposto di una decomposizione soggettiva che non può che essere insieme anche una ennesima trasformazione: dal mio punto di vista Milano è il set ideale per quasi ogni vicenda, metropolitana e non solo. Ammetto che forse non avrei scritto lo stesso a libro, seduto alla finestra di una stanza trevigiana… E, se può interessare, da quando sto a Milano (dall’inizio del millennio) sono molto più prolifico, forse molto più sollecitato da una realtà concreta che non è affatto quella delle cronache o dei tiggì. Direi che l’unico racconto in qualche modo riferibile alla sociologia del Nordest d’Italia è quello intitolato Tornando indietro.

AC: Sta portando in giro Intanto corro con diversi reading musicali. Ha già detto che la forma del reading musicale le è particolarmente congeniale, che per lei è stata quasi una scoperta ai tempi di Sullo Zero. Può dirci perché? Cosa accade di particolare in questi momenti?
GC: Accade che la parola scritta diventa suono. Accade silenzio, dialogo tra chi ascolta e me che è innanzitutto intessuto di pause, di vuoti così intensi da far tremare. Poi io non scrivo un racconto pensando che dovrò leggerlo ad alta voce, non mi sfiora, è qualcosa che avviene dopo, direi molto tempo dopo, quando un libro è finalmente fuori di me, del tutto o quasi.

AC: Ci indica i titoli di tre libri che ultimamente l'hanno particolarmente colpita?
GC: L’ultimo di Marco Lodoli, Sorella, è davvero bellissimo, oltre alla figura umanissima e infine perfetta della suora c’è questo personaggio non protagonista maschile degno del più grande cinema. In poesia sono ancora alle prese con l’opera omnia di Milo De Angelis, c’è tanto da scavare lì dentro, non trovo ancora il fondo. Poi Houellebecq, che mi pare confonda ancor più le acque con questo saggio La ricerca della felicità, ma sento che col suo cervello devo farci i conti, in un modo o nell’altro.

AC: Scorrendo la sua bibliografia recente, non è difficile notare la presenza di due numi tutelari nel suo percorso d'artista. Da un lato Giorgio Gaber e il teatro canzone che lei sta riproponendo con successo, dall'altro Jeff Buckley, la cui breve parabola poetica e musicale ha segnato profondamente gli anni 90. Facciamo un esperimento mentale e facciamo incontrare Giorgio Gaber e Jeff Buckley. Secondo lei cosa farebbero, di cosa parlerebbero? In altre parole, cosa accomuna la loro arte se qualcosa di accomunante c'è, o, diversamente, cosa tiene assieme in una fusione Giulio Casale della loro opera?
GC: In loro convive la fatica della ricerca e l’essere infaticabili, rigorosi nelle coraggiose prese di posizione e nell’arte che da lì scaturisce. Certo, per molti versi sono imparagonabili, ma c’è un individualismo così forte in entrambi (che a me sa già di liberalesimo, in tutti i sensi) e una così palpabile tensione verso il bello ed il giusto (per tutti) che mi sa che non sarebbe impossibile un’intesa, un dialogo che sarebbe innanzitutto un dialogo intergenerazionale oltre che internazionale. Gaber poi deve molto a Brel, e Brel come il giovane Buckley dava l’idea di cantare tutte le volte come se potesse essere l’ultima. E qui mi ci ritrovo anch’io, ecco, direi da sempre.

AC: Per finire un richiamo alle origini. Lei è laureato in filosofia. In che modo questi studi hanno fatto da contrappunto alla sua poliedrica figura di artista (da cantante ad attore, da poeta-traduttore a narratore)?
GC: Credo davvero che senza quello, senza quel percorso di conoscenza tortuoso ed eccitante, la mia arte sarebbe poca cosa, o troppo istintiva per pretendere grazia. Ma delle cose così preziose si parla poco, e con parole che accennano appena, se no già è un tradimento. Perciò mi fermo qui, grazie.

sabato 27 luglio 2013

Per i sei libri finalisti del Premio Castello di Villalta Poesia

Il testo che segue è stato pubblicato sul sito del premio di poesia "Castello di Villalta". Il 28 luglio si tiene nella cornice del castello la presentazione dei tre finalisti (questo il programma della giornata). Sono Stefano Dal Bianco con Prove di libertà (Mondadori), Enrico Testa con Ablativo (Einaudi) e Franca Mancinelli con Pasta madre (Aragno). Sono tre libri dei quali, tra l'altro, ho già scritto su queste pagine. La rosa di tre finalisti è nata a partire da una rosa di sei che prevedeva anche i libri I padri di Giulia Rusconi (Ladolfi), Città alla fine del mondo di Tiziano Broggiato (Jaca Book) e Quando avrò tempo di Anna Maria Carpi (Transeuropa). Il sito internet del premio si trova a questo indirizzo e ospita molti interventi e recensioni (costituisce uno dei più vivaci esempi di blog-sito internet dedicato a un premio di poesia). Quattro libri su sei hanno già trovato spazio su queste pagine dedicate ai libri brevi. E pure gli altri due meritano attenzione. Anzi... uno dei due libri che non recensito è... no, non vi anticipo nulla.

Mi è stato chiesto un commento sui sei finalisti del Premio di poesia “Castello di Villalta”. Ringrazio la giuria per fidarsi del parere di uno che talvolta scrive come un ubriacone. E non è sempre vero che in vino veritas
Faccio allora un esperimento mentale e mi immagino un appassionato lettore di poesia che tra duecentosettantatre anni si troverà a frugare negli archivi del premio (o del castello) per capire cosa si scriveva e cosa veniva premiato attorno all’anno 2013 in una certa area d’Italia. Credo che questo curioso, che per comodità chiameremo il signor Castello, ne ricaverebbe uno spaccato abbastanza significativo, uno spaccato utile per ripartire con altre ricerche; troverebbe insomma sei buoni (se non ottimi) libri. Evidenzio la parola “libri” perché tornerà utile alla fine di questo intervento. Dico questo perché sono convinto – e lo evidenzio già nelle prime battute - che alla fine i sei titoli usciti dalla giuria rappresentino una valida rosa per incominciare a parlare della scrittura poetica in lingua italiana in quel frangente di tempo previsto dal regolamento del premio. Insomma, sono anche ottimi pre-testi. Poi, si sa, è probabile che il miglior libro della stagione sia rimasto fuori perché banalmente pubblicato un mese prima o un mese dopo i termini previsti dal regolamento. La domanda che noi potremmo farci suona circa così: quali di queste forme racchiuse in questi sei libri risplenderà ancora tra duecentosettantatre anni? Quali temi faranno vibrare i nervi nel signor Castello? La risposta è ovviamente sconosciuta ed è meglio così.
Ma torniamo al signor Castello. Potrebbe accadere che il nostro signor Castello osservi i primi esiti della giuria incrociando una misteriosa, ricorrente ed esoterica espressione che ha intercettato sui giornali del tempo: “quote rosa”. (Il nostro signor Castello ha ancora l’inspiegabile vizio della ricerca in archivi/ripostigli del passato e in questo è un tipo solitario.) E poniamo che si interroghi sulla casualità/intenzionalità della presenza di 3 voci maschili e 3 voci femminili. Stacco e ritorno in me. Io mi auguro che questa parità sia casuale (e ne sono in fondo abbastanza certo), anche perché voglio sperare che alla prossima edizione del premio, se opportuno, ci saranno sei voci femminili in finale e a quella successiva, se opportuno, 5 voci maschili e una soltanto femminile. Insomma, giocate come volete coi numeri, basta che la somma dia sempre 6 e basta che non cambi il regolamento. Un premio è un gioco con una giuria, come una gara di ginnastica o tuffi, e il bello è anche questo. A volte vince il gesto (libro) migliore, non il migliore poeta. A volte neanche quello. In fondo un certo spirito agonistico non è mai mancato alla storia delle poesie. Ma se gara c’è, qui non si separa la competizione per genere, uomini e donne competono assieme. L’agonismo rimane, a maggior ragione in un ambiente distratto dove si sgomita (e per giunta, talvolta, dopato) come quello della poesia e della sua lettura/circolazione.
In poesia, ho sempre dato qualche chance in più all’anagrafe dell’età rispetto a quella del genere (su binari simili mi pare scorra la ratio sottostante all’inedita composizione della giuria del premio, con componenti senior e junior). Distinguere, fino a farne quasi un baluardo critico, tra poesia maschile o femminile ha per me quasi lo stesso valore della distinzione tra la poesia di poeti biondi e mori. Parlatemi piuttosto di poeti pronatori e poeti supinatori, ditemi come appoggiano il piede e quali parte della suola delle scarpe consumano per prima. Esiste la poesia, quando e dove esiste. Stop. Il dato biografico e di genere ha valore fino a un certo punto. Ci interessano le opere.
Mi è stato chiesto di essere breve e allora concluderò il mio intervento con qualche frase legata a ciascuno di questi libri, alle opere appunto. Di quasi tutti questi titoli ho già parlato sin troppo diffusamente nel blog Librobreve. Provo a farlo però con le parole/appunti del signor Castello nell’anno 2286. Ecco le sue brevissime schede di lettura:

Ablativo: “Ora vivo all’ablativo” scrive l’autore. Ed è un pensiero molto intrigante, anche oggi che la lingua latina è in pieno “revival”. Che cosa significa “vivere all’ablativo”? La risposta pare contenuta in queste poesie lessicalmente lontane dagli altri cinque autori del “gruppo”.
Città alla fine del mondo: Questo partecipante e finalista ha scritto un libro dal titolo curioso. Parla di Parigi, Milano, Londra, o di cime dell’Alto-Adige ma forse i suoi testi più memorabili sono quelli dove scrive di sale d’aspetto e camere d’albergo. Strano quel suo riferirsi a un certo Celan (Paul Antschel), poeta che deve essere stato un tempo molto noto e apprezzato e di cui da un po’ di tempo mi pare si parli un po’ meno…
I padri: quest’autrice, la più giovane del sestetto, parla di tantissimi padri e pochissime madri. Suppongo che all’epoca sarà parso un ragionamento abbastanza controcorrente. Non lo so, è una sensazione. Ma oggi sento regolarmente tante persone enumerare serenamente “tanti padri e tante madri” (come nella canzone La comune di Giorgio Gaber, colonna sonora di un recente spot di vacanze). La prefatrice, che è nella rosa dei sei finalisti, parla di epoca transgender. Credo ci avessero visto e sentito bene entrambe. Un libro di una sicurezza abbagliante. Ho amato però tanti poeti insicuri, impauriti e tentennanti.
Pasta madre: è interessante questo libro dove certi fermo-immagine della poesia dell’Ottocento e Novecento diventano fermo-immagine meno lirici, meno “congelati”, più con il senso di un’immagine mossa. Il prefatore, Milo De Angelis, poeta di cui regolarmente leggiamo ancora testi nelle antologie, dev’esser stato una lettura decisiva per Franca Mancinelli. Si dà in queste pagine un senso di inevitabile pressione della vita, come se contenuto e forma avessero trovato, per qualche rapido istante, un loro accordo. Per parafrasare un poeta quasi coevo che amiamo molto oggi, Clemente Rèbora, qui si ha la sensazione di una cosa detta “ove l’uomo e la vita si intendono ancora”, anche se non senza dolore.
Prove di libertà: gran bel libro, il mio preferito. Si legge molto bene ed è un libro che si accompagna bene dal principio alla fine (caratteristica che forse manca ad altri volumi). Deve esser nato dopo carotaggi e ragionamenti linguistici e metrici. Anima curiosa questo Dal Bianco, mi sarebbe piaciuto conoscerlo.
Quando avrò tempo: mi ha mosso subito il titolo di questo libro del febbraio 2013, la persona nata prima in questo gruppo di poeti (nel 1939). Questo è il libro che probabilmente restituisce più vita tra tutti quelli letti ed è stata una lettura significativa per questo. Si legge benissimo anche oggi, anche se è profondamente diverso dal libro di Dal Bianco. Questo è un libro che ti lascia il desiderio di andare a leggere tutto il resto pubblicato dall’autrice.

Se siete giunti sino a qui significa che siete stati pazienti verso l’espediente del signor Castello, un signore allampanato, sudato e col diabete mellito. Chiedo scusa per l’esperimento mentale, soprattutto al signor Castello, abitante del mondo nel 2286, per la presunzione di scrivere pensando con la sua testa. Forse avrei dovuto fare un esperimento mentale proiettandomi in un abitante della Corea del Nord di oggi? Chissà. Chiudo con me, e non posso/non potevo fare diversamente. Se fossi da solo in giuria e dovessi scegliere in questo sestetto di finalisti ricorrerei (vilmente?) all’espediente dell’ex-aequo tra le due giovani autrici Rusconi e Mancinelli. Farei questa scelta nell’ottica di isolare un libro particolarmente significativo di una stagione breve, concentrata nel tempo, un libro forse incompleto ma luminoso, un fiore sbocciato all’improvviso o una supernova. Un volo di farfalla. Premierei l’effetto sorpresa, dunque. La promessa. E questo non significa che ritengo I padri o Pasta madre superiori a Prove di libertà o Ablativo. Se però l’ex-aequo non fosse contemplato dal regolamento della giuria (e sotto sotto so che me lo augurerei), farei un’operazione leggermente forzata e premierei nel libro di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo, tutti i libri che questa grande autrice ci ha regalato sino a qui, pieni di cose importanti, a partire dal meraviglioso A morte Talleyrand uscito vent’anni fa (libro splendido al quale si torna di rado, purtroppo). Lo so che probabilmente, così facendo, traviserei il senso del premio che è quello di premiare un libro, e so anche che la mia scelta assomiglierebbe da vicino al classico “premio alla carriera”. Ma non di premio alla carriera si tratterebbe, bensì di un semplice premio ai libri attraverso un libro: per come la vedo io (e anche per come la vede il signor Castello) non esistono carriere in poesia.

(Solo un appunto per la giuria, nella fase preparatoria del premio: non guasterebbe un’attenzione maggiore per quel che avviene nella cosiddetta “Svizzera italiana”, a meno che lo statuto non lo vieti.)

mercoledì 24 luglio 2013

Paolo Valesio e "La mezzanotte di Spoleto"

Tra i miei coetanei non riscontro particolare attenzione nei confronti della scrittura che, non da oggi, Paolo Valesio ha saputo muovere e lanciare dalle sponde di due continenti. Forse è un'impressione errata e come tante "impressioni" lascia davvero il tempo trova. Questo tipo di interventi non si dovrebbero infatti costruire a partire da impressioni, ma da dati, prima di tutto testuali. Tuttavia, credo sia giunto il momento di approfondire, per quanto è possibile in questo spazio limitato e dedicato ai libri e all'esperienza di lettura, la conoscenza della poesia di Valesio, sfruttando l'occasione di una sua recentissima pubblicazione, dopo che lo stesso si è speso letteralmente una vita per la poesia italiana in terra americana. Valesio è infatti "Giuseppe Ungaretti professor in Italian Literature" alla Columbia University, e da molti anni si impegna nella diffusione della poesia degli altri. (Detto per inciso io trovo importanti e insostituibili queste figure di poeti che "fanno" generosamente per la poesia altrui, che non si chiudono a nuotare soltanto in un atollo autoreferenziale, sperimentando così anche le non poche frustrazioni, i muri di gomma o le ottuse sordità che presenta, troppo spesso, il dialogo tra chi scrive poesia e chi ancora la critica.) Ora l'interrogativo diventa circa questo: che cosa scrive Paolo Valesio poeta? In Italia si legge Valesio? Ora che il nostro autore si avvia alla conclusione di una lunga presenza accademica negli Stati Uniti e si prepara a un ritorno in Italia, sembra emergere nel poeta Valesio il desiderio di metter mano a raccolte che per motivi disparati "erano rimaste inedite". L'editore Raffaelli di Rimini, sempre tipograficamente impeccabile, nella bella collana intitolata "Poesia contemporanea" diretta da Gianfranco Lauretano, ha da poco pubblicato La mezzanotte di Spoleto (pp. 94, euro 13, prefazione di Alberto Bertoni, questo il link della pagina del sito dell'editore da dove si può acquistare il libro). 

Dirò subito che ho percepito questo volume, un cronotopo sin dal titolo, quasi come un film, in due tempi, con un mirabile secondo tempo, laddove ho ascoltato le poesie che a me sono sembrate più belle. E l'apice della concentrazione si trova, quasi come nella sezione aurea di un segmento, nella penultima sezione (penultima se escludiamo il breve Epilogo) intitolata Via Vaita De Domo, dal nome di una bella via spoletina. Lì sono le poesie che per me (a me) rimangono. In fondo ogni libro che resta, resta in prima battuta per alcune poesie. Così come dei romanzi, pur belli nel complesso, a volte restano soltanto due pagine, ma importanti. E le poesie che restano sono sufficienti per andare a riscoprire le altre poesie a distanza di anni, dopo che è passata altra vita in chi le legge. Spesso il discorso si ribalta, e le poesie che erano più piaciute un tempo, passano quasi in secondo piano. Così capita a chi scrive qui. Chissà cosa capita a voi. Sono cose normali. Ad ogni modo, per coerenza con quanto ho appena scritto, prima di addentrarmi nel libro, lascio spazio a uno dei testi che più mi ha colpito, quello dove la mia "dog ear" sulla pagina è stata più immediata e marcata. A dire il vero, i libri dell'editore Raffaelli sono oggetti così curati e belli che a volte placano la mia mania per catacretiche "orecchie" sulle pagine. (Potrei essere più disciplinato, usare altri sistemi. Tuttavia non posso fare a meno delle orecchie, soprattutto in poesia, per quando il libro viene ripreso in mano a distanza di tempo, come dicevo sopra.). Ecco il testo di Desiderii, contenuta appunto nella sezione già menzionata.

Quasi occorre ogni giorno e ricorre:
il desiderio di una mano
che rapida emergendo
dalle lagune della terra
con carità chirurgica trascorra
lungo la gola 
tagliando la miseria della vita.

Quasi occorre ogni giorno e ricorre:
il desiderio di una mano
che spinga urga prema fin che passi
il molle muro delle nubi e cielo
e si posi alla fine sulla spalla -
ravvivante tocco; ma sopra tutto
orientamento di dovere
e di interna giustizia: per potere 
ritrovare la sorgiva
da cui esce e geme il fiume
della conversazione con il mondo.

La prima parte dell'opera è quella che si presta per la titolazione del volume. Perché Spoleto e perché mezzanotte? Perché questo ennesimo cronotopo nella scrittura di Valesio? Chi conosce la vita della città umbra, si ricorderà del "Festival dei Due Mondi", una delle più belle rassegne estive tra quelle che si tengono ogni anno sulla nostra penisola e in quella regione abbracciata da una sorta di nostalgia del mare che è l'Umbria. Lo sfondo cittadino in festa diventa scenario di una storia d'amore: un uomo e una donna. I versi sono stati scritti alla fine del secolo scorso e io credo trovino la loro forza in una sorta di "installazione" che contempli la voce, le modulazioni e lo scenario (l'unità di luogo, si potrebbe dire con Aristotele). Il brano poetico della prima parte risente delle frequentazioni col teatro e con la musica (nella sua nota Valerio desidera ricordare Gian Carlo Menotti). In un certo qual modo diventano versi site-specific, per usare un'espressione che Andrea Cortellessa ha felicemente mutuato dal lessico della critica d'arte per parlare della poesia di Antonella Bukovaz. Eccone qualche passaggio, da Monteluco:

Il bivio è nella pelle e nella mente.


Il presente è essenziale e incomprensibile;
il futuro, inguardabile; il passato
intoccabile.

E resta l'altro: il bivio 
del lavoro mentale
(con il cervello teso
a sollevare sacchi
a travasare secchi).
Che cosa fa la mente
con gli anni del peccato?
Può lasciarli cadere - 
senza nemmeno bollarli "anni sciupati",
schiacciandoli al disotto del giudizio -
nel vuoto del tempo universo;
o ricercarne con passione il senso:
ogni ora di vita ha da servire -
anche la più sassosa
anche la più fangosa -
a lastricare il cammino
per l'Ascesa del Monte.

Come ho già lasciato intendere, nella seconda parte del libro si concentrano, almeno per chi scrive, le prove più durature della scrittura di Paolo Valesio, quei testi in cui la lettura singolare e privata della poesia restituisce vita ai lettori. Alberto Bertoni, nella breve nota introduttiva, sottolinea di passaggio un aspetto molto importante. Anzi, almeno un paio di aspetti assai rilevanti. Scrive il poeta modenese: "La scrittura di Valesio non cade mai nell'errore, oggi assai diffuso, di una prosa spezzata artificiosamente in versi (e in versi autenticamente liberi), manifestando da subito la necessità della sua versificazione, prosodicamente calibratissima." Aggiungo che questo libro riporta a galla una questione davvero sommersa e trascuratissima, che tra l'altro si salda con le origini e le grandi espressioni di quella che comunemente chiamiamo la nostra storia letteraria. Penso naturalmente all'avvicendarsi tra Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi, alle origini della poesia religiosa, ma penso anche, con un salto di un paio di secoli, a quel Savonarola che Valesio chiama in appello nell'importante epigrafe del suo Prologo: "Io vivo nelle ombre dell'ignoranza come un assente".

Leggendo e rileggendo questo libro mi sono chiesto, forse banalmente ma più di una volta, qual è e quale potrebbe essere lo spazio di questo autore appartenente a quella strana generazione italiana a cavallo dei Trenta e Quaranta (Valesio è nato a Bologna nel 1939) all'interno della perversa circuitazione poetica dell'Italia attuale. Non è propriamente l'interrogativo che ci si dovrebbe porre quando siamo alle prese con la poesia, ma è il motivo per cui ho esordito in quel modo qualche riga fa. Vedete, il recente libro di Paolo Valesio mi offre lo spunto per ribadire una piccola grande convinzione che si sta facendo sempre più dura: credo esistano dei sentieri sin troppo segnati nella scrittura e nella lettura, una certa sicumera sparsa che sa già ciò che è lecito o non lecito scrivere in poesia all'altezza del secondo decennio del terzo millennio (cosa vale e cosa non vale si direbbe in termini ludico-infantili). Ma nella realtà, chi può stabilire questo? Chi può vantare questa sicurezza? Non mi sta bene che qualcuno stabilisca un libro dei divieti (divieti che - si badi bene - hanno anche un'accezione positiva in poesia, quasi "creatrice", ma soltanto se provengono autenticamente dalla voce del poeta). Non sarebbe meglio vivere nell'incertezza più totale quando avviciniamo la poesia? Mi ponevo questa serie di domande perché sono abbastanza certo che il tono e il passo di Valesio, assieme ai suoi temi e a tutto il portato della sua scrittura, possano risultare "ostili" a questa sicumera diffusa che purtroppo, molto spesso, fa la scena poetica di un paese. Bertoni, tra le altre cose, nella sua utile nota che però avrei visto meglio alla fine, rimanda in modo interessante a quella diglossia che potrebbe accomunare il nostro alle esperienze di Anna Maria Carpi o al transfugo norvegese Luigi Di Ruscio (troppo spesso, trascurato e pubblicato da un editore caparbio ma penalizzato nella distribuzione come Editrice Zona, e poi fortunatamente anche da Le Lettere e Ediesse). Interessante è anche l'esempio sintattico che Bertoni riprende in sede prefatoria. Ecco, quest'insieme di dati forse concorrono a non trasformare la poesia di Valesio in una poesia progettata per aderire alla perfezione coi palati poetici italiani. Rischia di rimanere appiccicata ai palati, di aver bisogno di ulteriore masticazione paziente, prima di diventare bolo e nutrimento, digestione. In questo la lunga vita americana del nostro autore può aver giocato un ruolo importante. Tuttavia, rimaniamo mammiferi anche quando leggiamo la poesia e il nostro tubo digerente è tutto un pezzo, dalla bocca allo sfintere, e osserva quel movimento peristaltico che, pur non evocando raffinati orizzonti di poesia come il respiro, è anatomicamente quanto di più vicino alla poesia esista.

(Esiste su Youtube un video girato alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University lo scorso marzo. Trovate Paolo Valesio, Davide Rondoni e Dave Johnson in conversazione. E lì si parlava proprio del libro di cui qui ho provato a suggerire l'apertura e l'ascolto, curioso come sarei di sapere dove si posizionano le vostre "dog ears".)



lunedì 22 luglio 2013

"Fare l’amore" di Jean-Philippe Toussaint

Ripescaggi #27













----
A distanza di dieci anni esatti dall'uscita del libro, ripropongo questa breve recensione del 2003 o 2004 a un bel libro di Jean-Philippe Toussaint (Nottetempo, € 13,00, attualmente di difficile reperibilità). Partito nelle scuderie Guanda e Einaudi, Toussaint sembra aver via via abbandonato la casa dei grandi editori, pur mantenendo una presenza abbastanza stabile in Italia, da Mes bureaux. Luoghi dove scrivo uscito per Amos Edizioni a La malinconia di Zidane pubblicato da Casagrande, da Fuggire per Fandango al più recente La verità su Marie edito da Barbès.
----


Il flacone di acido cloridrico che si staglia sul bianco della copertina dell’edizione italiana è l’elemento di suspense di questo bel romanzo di Jean-Philippe Toussaint, efficacemente tradotto da Roberto Ferrucci. Fare l’amore è la storia di una relazione amorosa che si esaurisce a Tokio, la città che diventa perfetta cornice dello sfacelo e dello sfinimento psico-fisico. L’io narrante e Marie si trovano lì per l’inaugurazione della mostra di lei, scultrice e stilista parigina. Un’ampia parte della vicenda si svolge nella camera ipertecnologica dell’albergo, dove i fumi del jet-lag si mischiano all’alienazione portata da un monitor che si accende per annunciare l’arrivo di un fax e dove la presenza dei due corpi è puro stordimento: Tokio, eletta città della postmodernità, è protagonista sia con i propri esterni che con i propri interni. Su tutto incombe la minaccia di quel flacone di acido cloridrico che da un momento all’altro potrebbe intervenire a far cambiare direzione al tempo della narrazione. Un tempo, tra l’altro, abbondantemente disperso, impalpabile, spazializzato (proprio qui sta il grande fascino del libro).

L’autore è nato in Belgio nel 1957. È anche fotografo e regista. In italiano possiamo leggere anche La stanza da Bagno (Guanda) e La televisione (Einaudi). Gli anni scorsi, in Francia, per lui e per Jean Echenoz si è tornati a parlare di nouveau roman; in Giappone, dove questo romanzo è ‘felicissimamente’ ambientato, Toussaint è un vero e proprio caso letterario.

Il libro che la casa editrice romana Nottetempo ci propone si regge sulla bellissima ambiguità del titolo. Come lo stesso autore ha detto in un’intervista, nel titolo c’è un senso fisico ma anche, in un’ottica più estesa, c’è il “coinvolgersi, fare quel sentimento, effettuarlo. Anche dis-farlo.”

giovedì 18 luglio 2013

"L'importanza di essere piccoli", III edizione: dal 4 al 9 agosto nei borghi, nei boschi, nelle valli dell'Appennino bolognese

"Il mondo è delicato / il mondo è una pallina che s'increpa / teniamolo leggero / teniamolo sulla punta delle dita." Sono le parole di Nino Pedretti che l'associazione Sassi scritti ha scelto per proteggere questa terza edizione della rassegna intitolata "L'importanza di essere piccoli". Ricevo da Azzurra D'Agostino e pubblico con grande slancio: poesia e musica nei borghi dell'Appennino bolognese. Una rassegna di grande richiamo, sia per l'ideazione che per le voci invitate. Prove di libertà di Stefano Dal Bianco, Quando avrò tempo di Anna Maria Carpi, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso di Ida Travi, Salva con nome di Antonella Anedda e il trentennale dei Millimetri di Milo De Angelis (recentemente riproposti da Il Saggiatore nella collana "Le Silerchie") costituiscono cinque ottime ragioni, incartate in cinque importanti e recenti libri di poesia, per calarvi in questi luoghi ad ascoltare...


comunicato stampa

L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI – III edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino bolognese
 dal 4 al 9 agosto 2013

Ritorna ad agosto la rassegna di musica d'autore e poesia  che mappa e custodisce poeticamente
l'appennino tosco- emiliano
con
MILO DE ANGELIS, ANTONELLA ANEDDA, UMBERTO MARIA GIARDINI, COLAPESCE, CESARE BASILE e molti altri

La rassegna “l'importanza di essere piccoli giunta alla sua terza edizione (4-9 agosto), organizzata dall'associazione SassiScritti di Porretta Terme (Bo) con la direzione artistica di Azzurra D’Agostino e Daria Balducelli, realizzata con il contributo di Arci Bologna, Regione Emilia Romagna, Fondazione del Monte e Provincia di Bologna Distretti Culturali, ha avuto nell'ultimo anno un sensibile incremento dei Comuni che aderiscono al progetto. Ad arricchire “la geografia poetica” dei luoghi che accoglieranno gli incontri e i concerti si sono aggiunti il comune di Vergato e il suo pittoresco Suzzano, Grizzana Morandi con La Scola, il Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone con il Poranceto, un bosco di alberi secolari, e Granaglione con il parco fluviale di di Molino del Pallone.
Il fiorire di nuove adesioni è un dato positivo se si considera che alla base della rassegna c'è lo spirito di condivisione, valore che l'inverno scorso ha permesso all'associazione SassiScritti di essere selezionata al premio nazionale cheFare (ww.che-fare.com) con il progetto “Custodi”.
A emblema infatti di questi giorni sono stati scelti i versi di Nino Pedretti che esprimono e racchiudono l'idea di cura e custodia, parole che accompagnano l'immagine di una goccia, un filo di ragnatela e di una foglia:  esempi di fragilità e tenacia, di precarietà e di resistenza. Dettagli del mondo tanto piccoli quanto preziosi  come le parole e le note, come quegli spazi del mondo e della persona che sono da proteggere.
Manuela Dago, Franca Mancinelli, Francesca Matteoni, Marco Simonelli con Bart La Falaise e Federico Frascarelli (sei giovani artisti per un'anteprima che sia uno spazio per le voci nuove), Colapesce  e Stefano Dal Bianco, Anna Maria Carpi e Giangrande, Cesare Basile e Ida Travi, Pino Marino e Antonella Anedda, Umberto Maria Giardini e Milo De Angelis si incontreranno per la prima volta in questi giorni, il cantautore ascolterà il poeta e viceversa, incontri e scambi preziosi che trasfigureranno ed esalteranno  gli scorci più belli e sconosciuti dell'Appennino. Il borgo de La Scola arroccato attorno alle sue torri e ai suoi due oratori risalenti al 1300;  il Poranceto - un fiabesco bosco di castagni secolari; il parco fluviale del greto del Reno che solca la valle del Molino del Pallone; gli ampi panorami che abbracciano Suzzano; la bellezza domestica di Massovrana di Badi e  la dolcezza dei declivi di Capugnano.  I luoghi che “daranno asilo” alla rassegna sono i protagonisti, come gli artisti e i loro abitanti, di un evento che accade una volta all'anno ma che porta con sé il lavoro dei mesi precedenti, fatto di incontri, di laboratori, di pensieri condivisi davanti al fuoco, la lenta e paziente creazione di una comunità sensibile all'incontro con “lo straniero”, un appuntamento vissuto gioiosamente dagli abitanti stessi che accolgono i visitatori in un vero e proprio “ricevimento” culturale aperto a tutti. I buffet con prodotti locali saranno infatti preparati dalle pro loco, dalle associazioni culturali, o da semplici cittadini e cittadine che desiderano contribuire alla realizzazione della manifestazione. Infine, ma non meno importante, è la gratuità della rassegna che ribadisce il valore imprescindibile della cultura - da considerarsi come qualcosa che deve essere pubblico, diritto e possibilità a cui tutti sono invitati.

PROGRAMMA
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si svolgono a partire dalle ore 21:00

L'anteprima della rassegna, che vuole essere un momento dedicato all'incontro con artisti emergenti o addirittura esordienti, si terrà Domenica 4 agosto nel bel clima domestico del borgo di Massovrana (Badi/Castel di Casio) un abbraccio di casette appena sopra il Lago di Suviana che faranno da palco al live acustico del cantautore olandese Bart la Falaise che, accompagnato da un altro musicista, interpreterà canzoni inedite e cover con una voce limpidissima e delicata. Federico Frascarelli, un altro giovane cantautore, presenterà alcuni brani chitarra e voce dal suo Mi manda 2 righe. Nel corso della serata si terranno letture corali, improvvisate, folli e iridescenti di 4 poeti underground molto diversi tra loro ma uniti da una vena poetica che lascerà sicuramente stupiti gli spettatori. La voce delicata ma salda di Franca Mancinelli; il tono agrodolce venato di un'amara ironia che canta la vita la morte il sesso nel nostro tempo di Marco Simonelli; le spirali di senso e suono che come linfa di pianta innervano i versi di Francesca Matteoni; la freschezza e i brevi lampi che raccontano per immagini di Manuela Dago una delle fondatrici di Sartoria Utopia, 'capanna editrice' di libri di poesia cuciti a mano.

Lunedì 5 agosto inizia ufficialmente la rassegna che si sposta nel Comune di Granaglione a Molino del Pallone e più precisamente nel “parco fluviale” che si estende lungo la riva del fiume Reno, bonificata dagli abitanti del paese e gestita dalla Proloco del Molino.
Acqua che chiama acqua perché uno degli ospiti del parco sarà il cantautore siciliano Colapesce (Lorenzo Urciullo, nel 2010 lancia il progetto solista Colapesce in riferimento alla leggenda siciliana di Colapesce, il ragazzo “pesce” che amava stare nel mare a tal punto da non riemergerne più) che con l'album Un meraviglioso declino si è aggiudicato la “Targa Tenco 2012”  come "migliore opera prima" e il premio “Fuori dal Mucchio” (assegnato dal mensile Il Mucchio Selvaggio) per il "Miglior esordio". E se Colapesce suonerà dal vivo facendo riemergere quel “meraviglioso declino” che accompagna la vita comune corrosa dalla crisi ma che allo stesso tempo fa riscoprire quelle piccole cose che fanno “sognare ancora”, al poeta senese Stefano Dal Bianco è affidata la parola che “conferma l'inquietudine profonda del suo rapporto con l'esistere e la sua ansia di libertà in un mondo di anime costrette". Scandita in sette parti, come le sette note della scala musicale, la nuova opera di Dal Bianco Prove di Libertà (ed. Mondadori) esplora le contraddizioni del sentimento e del pensiero, l'antinomia tra spinta alla consapevolezza e levità di una più naturale adesione alla vita.

Dal fiume e dai “meravigliosi declini poetici” della prima serata la rassegna, Martedì 6 agosto, si sposta verso Vergato da cui si sale ad ottocento metri di altezza al panoramico Suzzano con le sue case in pietra arenaria. Qui gli abitanti addobberanno la piazzetta preparando anche un piccolo buffet di benvenuto, mossi  dall'entusiasmo e dalla stessa tenacia che ogni anno gli ha permesso di organizzare una famosa festa  popolare che radunava centinaia di persone provenienti dai paesi delle Valle del Reno. Forti di questa tradizione e volendo mantenere vivo un luogo che altrimenti rischierebbe di essere spopolato, la terza tappa della “mappa poetica” de l'importanza di essere piccoli ospita la poetessa e traduttrice Anna Maria Carpi una tra le più importanti ed interessanti autrici e intellettuali contemporanee. Formatasi all'Accademia di Brera, partecipando a esposizioni a Milano e a Colonia, ha vissuto per diversi periodi a Bonn; saggista e traduttrice di poeti tedeschi (da Gottfried Benn, Kleist, Nietzche, Grünbein a Enzensberger) si confronta con la vita quotidiana e con le grandi domande ontologiche, con quel mistero abissale che si cela nei gesti di tutti i giorni, nella vita che scorre come la prosa e che ha slanci di verticale poesia. Un linguaggio familiare che filtra nella pelle, arriva anche alle persone che non sono “abituate” ad ascoltare poesia. Una leggibilità che è tipica invece della musica proposta per quest'occasione dal musicista, produttore e songwriter Giangrande, capace di muoversi con grazia ed eleganza all’interno dei diversi linguaggi e stili musicali: dalla canzone d’autore all’elettronica fino alla colonna sonora. In questo momento in tour con Daniele Silvestri come chitarrista della band, Giangrande porta a Suzzano il suo ultimo album da solista, Directions, prodotto da Paolo Benvegnù. Un album dalle atmosfere delicatissime, cantato in tre lingue, un respiro internazionale che però bene si sposa -grazie alla delicatezza della voce di Giangrande- con l'intimità di un piccolo borgo. 

Mercoledì 7 agosto la geografia poetica della rassegna si addentra nel cuore di un bosco di castagni secolari nel Parco regionale dei laghi di Suviana e Brasimone in località Poranceto (nel comprensorio del comune di Camugnano). Nel raccoglimento del castagneto, in quel silenzio referenziale che si crea a contatto con la natura, gli ospiti potranno ascoltare la “mitologia contemporanea” di Ida Travi. Poetessa, ma anche studiosa di filosofia, Ida Travi con il saggio L'aspetto orale della poesia pubblicato dal 2000 al 2007 in tre edizioni, avvia una sua riflessione personale sul rapporto tra poesia e filosofia, in particolare tra lingua poetica e lingua materna, oralità che diventa cardine della sua scrittura e una traccia del dire. La parola detta da Ida Travi, che ripesca i toni e le voci dalla memoria in un "impasto" sensoriale, e la parola cantata, dolentemente dialettale dello straordinario cantautore siciliano Cesare Basile, permeeranno il sottobosco de Il Poranceto con toni alti e gravi. Cesare Basile suona e scrive dall'inizio degli anni ottanta e tra le sue collaborazioni vanta quella con John Bonnar (Dead Can Dance), Nada, Lorenzo Corti (Cristina Donà, Delta V, aka Musical Buzzino), Valentina Galvagna e Marta Collica (Sepiatone). Dopo aver soggiornato a Berlino e a Milano, nel 2011 Basile rientra a Catania dove sposa la causa del Teatro Coppola Occupato che lo impegnerà anche nei lavori di ristrutturazione. Dal lavoro nel cantiere del teatro sono nate le dieci tracce dell'ultimo album Cesare Basile (febbraio 2013 Urtovox) un disco blues “situato tra la tradizione popolare italiana ed il folk americano delle radici, cantato in siciliano con una voce che graffia l’anima".

Giovedì 8 agosto il paesaggio che comprenderà l'incontro con la poesia di Antonella Anedda e la musica di Pino Marino sarà quello della campagna intorno al comune di Grizzana così cara all'artista Morandi. Le curve delle colline, i profili brulli dei calanchi, sono i quadri malinconici e nostalgici che circondano l'antico borgo de La Scola. Di origine militare bizantina Scola, nel corso dei secoli, assume una fisionomia difensiva con torri che permettono la sicurezza del borgo ed è grazie a queste torri che il borgo è riconoscibile anche da lontano. Bellissima, con la sua meridiana settecentesca, l'edicola e gli affreschi, il forno quattrocentesco con mensole scolpite, finestre con formelle d'arenaria incise con simboli comacini, la Scola è una partitura di memoria, di storie e di leggende così ben custodite dall'Associazione Sculca composta da volontari che ancor oggi si prendono cura di un dono tramandando dal tempo. Non poteva esser scelto luogo migliore per raccogliersi intorno alle parole “salvifiche”di Antonella Anedda e alle sue meditazioni liriche. “Premio Rèpaci Viareggio” 2012 con la raccolta Salva con nome,  Anedda con i suoi ultimi versi aggiunge un ulteriore tassello a un percorso poetico animato da un pensiero sotterraneo. La sua poesia “naviga nel sangue fino al cuore” e lo fa con la precisione di un “agocucendo con pazienza i significati, i nomi che, come indica il titolo dell'ultima raccolta, esistono per affacciarsi al mondo. E se Antonella Anedda “cuce” i versi, il raffinato cantautore Pino Marino inanella parole come perle, componendo canzoni raffinate caratterizzate da sonorità scarne ed intimistiche. Compositore, autore, pianista e chitarrista, legato alla miglior tradizione del cantautorato italiano, Pino Marino per molti anni ha portato la sua musica nei locali capitolini. Dopo diversi progetti che lo hanno portato a ricevere prestigiosi riconoscimenti come il “Premio Recanati” premio Italiano “Musica Emergenti”  nel 2000 con la collaborazione di Mauro Pagani e David Petrosin,  pubblica il suo primo album, Dispari con il quale vince il “Premio Ciampi” nel 2001. Con il suo secondo lavoro Non bastano i fiori (2003) la critica si fa unanime e Federico Guglielmi della rivista musicale “il Mucchio selvaggio” scrive:  "...una voce evocativa che intona testi per i quali si può scomodare il termine poesia, poesia concreta e surreale, profonda e ironica, intrisa di malinconia così come illuminata di speranze (...)”

Venerdì 9 agosto termina il viaggio degli artisti e degli spettatori nelle terre dell'Appennino con il consolidato appuntamento a Capugnano (Porretta Terme), dove sul palco saliranno altri due grandi artisti: Milo De Angelis e Umberto Maria Giardini.
Milo De Angelis è una delle voci più importanti della poesia italiana contemporanea, poeta che frequenta gli abissi e i “cortili oscuri della vita” e lo fa sporgendosi nei precipizi, negli orridi della vita per ripescarne una parola scarna, non spettacolare, che batte come un corpo che duole, che indica un verso, una caduta. Dalla pietra miliare Millimetri del 1983 fortunatamente riedita dopo trent'anni dal Saggiatore, alla dolente e meravigliosa raccolta di dolori di Tema dell'addio, fino alle poesie di Quell'andarsene nel buio dei cortili dove i ricordi d'infanzia, gli amori, il calcio, gli amici,e i cortili milanesi sono sempre attraversati dal buio, un buio che è il risvolto segreto della luce, un buio che convoca a giudizio. Oltre ad essere un grande poeta De Angelis ha tradotto superbamente dal francese e dalle lingue classiche Racine, Baudelaire, Blanchot, Eschilo, Lucrezio.
Sarà, infine, l'atteso live acustico di Umberto Maria Giardini (conosciuto per molti anni con lo pseudonimo Moltheni) a chiudere la serata e la terza edizione della rassegna, e lo farà con il suo canto aperto e suggestivo che conduce in territori onirici. Un'esibizione insolita dove ai suoni più elettrici del bellissimo e ultimo disco La dieta dell'imperatrice, si darà spazio ad arrangiamenti più melodici, e in scena con la sua contraddistinta grazia, Umberto Giardini darà sicuramente il meglio di sé a ricordarci che “l’unico sollievo che l’uomo può succhiare direttamente dalla sua volgare esistenza è dato dalla natura e dal silenzio. Ovunque c’è natura, ovunque c’è silenzio, c’è speranza” considerazione che sembra essere in dialogo con uno dei versi più belli di Milo De Angelis contenuti nella storica raccolta Millimetri : “In noi giungerà l’universo, | quel silenzio frontale dove eravamo | già stati”.
Come ogni anno a dare il benvenuto agli artisti e al pubblico ci sarà la calorosa ospitalità dell'Associazione Beata Vergine della Neve e della Proloco che come tutti gli anni per l'occasione cucineranno crescentine, tigelle e polenta.

Ad arricchire la rassegna saranno presenti i due bookshop della libreria “L' Arcobaleno” di Porretta e de “LO SPAZIO di via dell'ospizio” di Pistoia, oltre che la presenza di una vetrina aperta all'innovativa e ricercata piccola casa editrice “Sartoria Utopia” con i suoi colorati ed eleganti libri cuciti a mano. Verranno inoltre messi in vendita a sostegno delle attività del festival alcuni esemplari di poster d'arte numerati, pezzi unici realizzati  appositamente per il festival secondo le antiche modalità di lavoro tipografico dalla tipografia d'arte bolognese Anonima Impressori. Inoltre nei giorni del festival e in quelli precedenti alcune realtà locali realizzeranno piccoli gadget a sostegno del festival, come per esempio i segnalibri con su riportato un verso di Umberto Saba sul pane e dati in omaggio dall'Antica Forneria Corsini di Porretta Terme, nella convinzione che la cultura sia altrettanto importante nutrimento.

L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI – III edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino bolognese
dal 4 al 9 agosto 2013
con il contributo di
Arci Bologna, Regione Emilia Romagna Fondazione del Monte,Provincia di Bologna Distretti Culturali
e il sostegno dei comuni di
Castel di Casio, Gragnaglione, Grizzana Morandi, Porretta Terme, Vergato
e del Parco Regionale dei Laghi di Suviana e Brasimone
e di Coop Reno, Banca di Credito Cooperativo Alto Reno, Banca di Imola Filiale di Porretta Terme, Proloco di Capugnano, Associazione Parrocchiale Beata Vergine delle Nevi, Proloco di Molino del Pallone, Proloco di Cereglio
con la collaborazione e il sostegno di
Associazione Parrocchiale “Beata Vergine della Neve”; Pro Loco di Capugnano; Pro Loco di Cereglio; Pro Loco di Molino del Pallone; “Antica Forneria Corsini” di Porretta Terme; “The Califfo” Pub di Porretta Terme; Libreria “L'Arcobaleno” di Porretta terme; Libreria “Lo Spazio di via dell' ospizio” di Pistoia; Gelateria “La Baracchina” di Porretta terme; Centro Turistico “La Prossima” di Castel di Casio; Associazione culturale  “Sculca”.

4 agosto- Massovrana (Castel di Casio) h 21 in caso di pioggia: sala interna del B&B Borgo Massovrana
MANUELA DAGO, FRANCA MANCINELLI, FRANCESCA MATTEONI, MARCO SIMONELLI
(letture poetiche) BART LA FALAISE & “SOCIO”(live acustico); FEDERICO FRASCARELLI (live acustico)

5 agosto- Molino del Pallone (Granaglione) h 21 in caso di pioggia: Molino del Pallone, sala proloco
STEFANO DAL BIANCO  (lettura/incontro) COLAPESCE (live acustico)

6 agosto – Suzzano (Vergato) h 21 in caso di pioggia: Suzzano, sala proloco
ANNA MARIA CARPI (lettura/incontro) GIANGRANDE (concerto)

7 agosto-Poranceto (Camugnano) h 21
in caso di pioggia: Sala  Parco dei Laghi, p.zza  Kennedy 10, Camugnano
IDA TRAVI (lettura/incontro) CESARE BASILE (live acustico)

8 agosto – La Scola (Grizzana Morandi) h 21 in caso di pioggia: La Scola, sala Associazione La Sculca
ANTONELLA ANEDDA (lettura/incontro) PINO MARINO (live acustico)

9 agosto – Capugnano, Porretta Terme h 21
in caso di pioggia:  Capugnano, Oratorio della chiesa di San Michele Arcangelo
MILO DE ANGELIS (lettura/incontro) UMBERTO MARIA GIARDINI (live acustico)

Tutti gli eventi sono a ingresso libero

INFO
fb: L'importanzaDiEsserePiccoli
mob: 349 5311807 | 349 3690407

UFFICIO STAMPA
ufficio stampa arci bologna: Rossella Vigneri (+39 349 8354451) ufficiostampa@arcibologna.it

ufficio stampa SassiScritti:
Azzurra D'Agostino: 349 5311807 | azzurradagostino@gmail.com
Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com

Le foto degli artisti e dei luoghi in cui si svolgerà la rassegna sono disponibili all’indirizzo: www.arcibologna.it/area_stampa

Come raggiungere i borghi: http://sassiscritti.wordpress.com/come-arrivare/

domenica 14 luglio 2013

"Pasta madre" di Franca Mancinelli: lo spazio di nessuno dove avviene l'incontro

Non sembri un facile gioco provare a dire qualcosa di efficace, utile e sensato sul nuovo libro di Franca Mancinelli, uscito da poco per Nino Aragno Editore all'interno della collana "Licenze poetiche". Il volume titola, quasi con un'ironia inconsapevole e diretta al mondo oggi tanto chiassoso e tronfio dell'editoria culinaria, con il nome di un ingrediente semplice e basilare, irriducibile, né liquido né solido, ma malleabile, nel quale agiscono primariamente lieviti e batteri: un ingrediente che tra le altre cose necessita di essere tenuto in vita. Pasta madre (pp. 84, euro 10, con una nota di Milo De Angelis) segue quel libro altrettanto bello che fu Mala Kruna (Manni, 2007), ne ripercorre lo spazio, s'insinua nei vuoti, anzi, nelle convessità e concavità aperte da quel felice esordio, come gli specchi concavi e convessi restituisce distanze, producendo anche sottili distorsioni. In realtà, se vogliamo rimanere ancorati alla sola titolazione (che poi è uno dei pochi paratesti offerti dall'autrice), è evidente lo strappo che il linguaggio poetico compie, qualcosa di simile a quanto accade in un altro dei grandi libri/titoli di questa ultima stagione di poesia (in fondo non così disastrosa come ho sentito dire da più di qualcuno, o perlomeno non più disastrosa della prosa), il Salva con nome di Antonella Anedda. Le poesie di Franca Mancinelli accolgono tanto quanto sono accolte, appaiono rastremate come colonne di tempio e talvolta, nella loro brevità, lievitano di volume indurendosi, come dopo cottura, similmente a quanto avviene nell'architettura di origine greca, quando scorgiamo l'èntasi delle colonne, reale o illusoria, prodotto precipuo dalla rastremazione o dell'occhio umano illuso. Qui talvolta si produce una sorta di rigonfiamento (ottico e sonoro) ad una certa altezza del fusto di questi testi minuti e vibranti, un'illusione dovuta in realtà alla tornitura del verso, ad un senso di circolarità che ha trovato un corrispondente in una gozzaniana (ma anche deangelisiana) posata. Mi riferisco al "cucchiaio", che è parola focale del suo percorso di scrittura, anche quando è soltanto evocata, e in questa parola-immagine il senso di concavità/convessità è primario, tanto quanto il senso dell'impugnatura che avviene con le "mani" (altra parola ricorrente); davvero quel senso di concavità/convessità diventa primario, sia in rapporto a ciò di cui ci nutriamo, il contenuto, sia rispetto alla lingua e alla rima di labbra che il cucchiaio trapassa:

cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.

La bocca, si sa, è importante. Vi passa la voce (nel testo finale la bocca "passa calore", calore importante per la lievitazione). Il cucchiaio, il cui etimo rimanda - con un sorriso da scoperta felice e casuale - a chiocciola/conchiglia è parimenti importante nel quadro di una poesia ossea e minerale come questa. C'è poi molta saliva in questi testi, così come denti e altre ossa nominate; i riferimenti ai territori del sacro non mancano nemmeno nelle grondaie "colme acquasantiere" o quando si legge "Ma in questo chiaro di saliva / cloro e seme, abbandona ognuno / la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo / bambini con un segno d'acqua in chiesa" o ancora "Dammi i tuoi occhi e sarò salvata". Dal balcone del corpo di Franca Mancinelli (anche se, più precisamente, lei scrive: "quel che sono è una finestra") ho intravisto alcuni abbracci di arti superiori e inferiori, certe inclinazioni del collo, nudità parziali che restituivano qualcosa di simile, anche nei colori, ad alcune pose dipinte da Egon Schiele:

qui non c'è pronuncia
si serrano i denti
il collo avvolto
nel caldo delle mani, obbedienti
al dovere che disegna
nel muro una porta 

oppure, nel già citato testo conclusivo:

dormivo su una pagina ogni notte
bianca. Il mattino
un'ombra del mio peso, alcune pieghe
e subito voltava: proseguire
è questo a capo del principio,
bocca che passa calore
all'aria come potesse svegliarsi
essere ancora salvata.

Della nota di Milo De Angelis vorrei estrapolare soltanto una manciata di parole, laddove puntualizza che "La similitudine è protagonista". Questo è vero ed è importante ribadirlo. E mi sono spesso chiesto se in questa nostra epoca, tra similitudine e metafora, non la spunti forse la prima, così come è già accaduto in altre epoche probabilmente, e alla seconda non spetti altro che tornare ad essere un caso particolare (e minore) della prima, un suo corollario, svuotata così di tutto il portato poetico, retorico, linguistico e persino cognitivo di cui è stata investita, insomma una metafora prossima a diventare catacresi (e leggo il "cucchiaio" più come una già formata catacresi del suo idioletto). Parafrasando il titolo di un celebre libro di George Lakoff, il quale eleva invece la metafora a costrutto chiave per la spiegazione di tanti processi cognitivi, potremmo scrivere "similes we live by" e non Metaphors We Live by. Tuttavia, è proprio questo "live by" del titolo originale dell'opera più nota di Lakoff che qui vorrei recuperare e isolare per un istante, per il senso di vivere "attraverso" ma anche vivere "accanto". Come si sta accanto a una finestra, standing by the window. Nel migrare dell'io al noi (incluso quello degli uccelli e di altri animali: montaliane formiche rosse, cani a pancia all'aria che attendono carezze, lucertole, insetti, bestie, poi cimici o selvaggina) e viceversa esiste questo senso profondo del vivere accanto e l'essere attraversati dalla vita, in un'accezione costiera, di confine, di questa parola, che non si riduce a solo corpo (altro termine che sembra schiudere molte porte nella critica d'oggi, ma che in realtà spesso cerca solo di scimmiottare - male - le convergenze che questa parola ha attirato in tanta critica d'arte nella seconda metà del Novecento).


Il libro colpisce anche per una totale assenza di paratesti. Non troverete titoli in questi brevi componimenti, né titoli di sezioni. A separare le sezioni giunge un accorgimento raramente usato, due pagine bianche affiancate, quasi a mettere davanti al lettore, con più forza, il continuo confronto e lotta che è proprio della poesia (così come della musica) con il silenzio. Non ci sono epigrafi. La variazione può riguardare solo il corpo tipografico dei testi: prevalentemente normale, in alcuni casi corsivo. Mancinelli non fornisce rimandi specifici, coordinate. Se li vogliamo, li cercheremo da lettori, in quell'esperienza solitaria e vera della lettura. E allora credo che in questi testi dove avviene una sorta di inedita intersezione tra il meridiano di Celan (di un certo Celan, forse sarebbe più corretto scrivere "semimeridiano") e il parallelo di Jaccottet, forse registrabile all'altezza geopoetica nel paesaggio friabile e franoso delle Marche tra Adriatico e Appennini (Franca Mancinelli vive a Fano e il suo paesaggio, anche se non nominato apertamente, è presente quasi come un calco), i momenti della giornata si ritrovano a possedere lo stesso peso specifico, la stessa luce e la stessa lentezza di certe ore mattiniere e certe albe di Pavese in Lavorare stanca. (Qualcuno scriverà prima o poi dell'influsso della poesia pavesiana su tanta poesia tardonoventesca e seguente, non si è ancora capito perché il suo nome si faccia sempre con qualche imbarazzo.) A tratti, pare riscoperto persino il piede metrico dimenticato della lassa. Sicuramente la nostra autrice non è passata indenne nemmeno alla lettura di quel Milo De Angelis che ora ne accompagna il passo, riconoscendone la sicurezza e la postura nuova. C'è un verso, in Quell'andarsene nel buio dei cortili, che sopra ogni altro è rimasto, come in una eco di specchi, e che qui faccio rimbalzare per provare a chiudere un cerchio e suggerirvi la lettura di questo breve libro ed è lo spazio / di nessuno dove avviene l'incontro. Pasta madre dà spesso la sensazione di uno spazio dolorosamente creato che nella realtà non appartiene più (non è mai appartenuto) a nessuno, circa come avviene in Punteggio di De Angelis: "Fu una rara edizione del nulla, / un nulla fiorito d’estate, brusio / di terra rossa e presagi, un nulla / vicino al suo rovescio di fanciulla / tra erba e colletto, tra ventaglio / e firmamento, / gioia e fine avvinghiate / in una sola melodia, lo spazio / di nessuno dove avviene l’incontro." In fondo, se non mi inganno proprio in queste battute finali, credo che ciò che con molta disinvoltura chiamiamo vita abbia molti punti in comune con questo spazio senza padroni; per ritornare alla poesia di Franca Mancinelli, già in Mala Kruna potevamo leggere "intreccio le mani sul ventre e sono / creta sul letto di un fiume di passi":  la creta e la pasta, dai piedi alle mani. Attraverso e accanto questa poesia catacretica che per dire davvero adopera la lingua sulla soglia dell'indicibile.

anche queste mani che apro
colmandole d'ombra a lavarmi
gli occhi nel mattino
sanno dove sorgeva
un viso, una profonda
e chiara insenatura.