Un artista, il più grande fotografo d'Europa, diviene egli stesso opera d'arte dopo la morte. Ciò avviene tramite un processo di plastinazione attuato dal Dottor Tulp (proprio come il dottor Nicolaes Tulp del quadro "Lezione di anatomia" di Rembrandt). Giada, colei che fu la sua compagna (e non moglie come penseranno in tanti in questa storia), trascorre trenta giorni in visita nella sala in cui il corpo plastinato è esposto al passaggio di visitatori, giornalisti, critici d'arte e alla sua dolente e tuttavia mobile e laboriosa presenza, fatta di imbarazzi, riguardo, attenzioni plurime, arrabbiature, incontri. Potrebbe essere sintetizzato anche in questo modo Guasti, convincente romanzo d'esordio di Giorgia Tribuiani pubblicato da Voland (pp. 128, euro 14). Una sorta di diario e conto alla rovescia diventa allora il resoconto della protagonista, che nel piano del testo livella discorso diretto, discorso indiretto e punto di vista ondivago del narratore per trenta capitoli abbastanza brevi che procedono appunto alla rovescia, da 30 all'ultimo capitolo 1. L'occhio e l'orecchio del lettore inizianeranno presto a familiarizzare con il gioco di piani e incastri che Giorgia Tribuiani ha costruito lavorando anche negli interstizi minuti del testo (ad esempio, parlando di punteggiatura, troverete molti punti mancanti). Ma al di là della sinossi e di qualche annotazione su una prosa che non cade, va detto subito che quello che l'autrice sa fare in un numero di pagine contenuto è disporre in modo suggestivo un novero di questioni primarie che vanno dall'elaborazione del lutto al rapporto di coppia che diventa esposizione, da determinate situazioni che toccano logiche del sistema dell'arte contemporanea alle dinamiche di quella comunicazione che ci ostiniamo a chiamare giornalismo, incluso quello "culturale". Va da sé che un romanzo così tratteggiato rimanda inevitabilmente al nostro rapporto col morire e quindi col corpo, ma è qui che non ha senso anticipare troppo. Ce n'è davvero abbastanza per un romanzo breve, il quale per giunta pensa sé stesso - o immagina la propria trama - più come un susseguirsi di momenti speculativi, di personaggi evocati con grande economia di tratti decisivi ed è trascinato verso la fine e quindi verso un significato della fine da una cornice temporale che progressivamente si assottiglia, proprio come le pagine che rimangono da leggere nella parte destra, se stiamo leggendo l'opera su carta.
E se Giada è presenza costante di queste giornate, divisa com'è tra pastiglie che sciolgono l'ansia, ricordo di una vita assieme fatto di dialoghi col morto lì esposto, commenti fastidiosi dei visitatori, incursione in bagni guasti, l'insistenza delle persone che credono lei e il fotografo "sposati", c'è una presenza che appare sin da subito meno transitoria in questo flusso. Si tratta del vigilante del piano di sotto, anche lui responsabile del movimento in avanti - che a conti fatti, come detto, è un movimento all'indietro dei capitoli - di questa storia verso la propria fine. Perché le storie, si sa, hanno una fine e ciò che questo libro sa porre in prospettiva è una ridda di domande sul morire, sul fotografare, sul fare arte, sul ricordare, sul mostrare. Guasti, titolo che è sostantivo tanto quanto aggettivo, ha la grazia leggera di un'opera d'esordio che nasce tutta all'interno di un concetto compiuto, soppesato e distillato eppure aperto a letture, evocazioni e interrogazioni plurime. Questa concezione favorisce un coordinamento e un'unità di lingua, ritmo e visioni che si svolge con carattere persuasivo fino alla fine del centinaio di pagine e per tutti i trenta capitoli. E se l'autrice allude a questioni in fondo disperate calibrando la propria tastiera, avvicinandosi e accarezzando il macabro senza ostentarlo, c'è un immaginario ormai plasticale pienamente compiuto che viene a galla nel mare di questo libro, con tutto il carico di irrequietezza. Ma ci sono anche interrogativi sul come si ama una persona e sul carattere distruttivo di questo sentimento e - non da ultimo - su quel sentimento altrettanto centrale che risponde al nome di gelosia (e qui ritorna centrale il personaggio del vigilante). C'è solo una nota che mi pare stonata in questo libro d'esordio davvero bello. Mi riferisco alla copertina, non tanto al disegno in sé che senz'altro ha la propria dignità, ma alla capacità del visual di catturare e veicolare almeno una piccola parte del novero di spunti importanti che questo libro ha saputo allocare. Certo, vi è una citazione di Lucio Fontana, se vogliamo vederla. Ma mi sembra alla fine che una copertina simile non faccia esplodere la spinta intrigante che sta a monte di Guasti.
domenica 29 luglio 2018
"Guasti" di Giorgia Tribuiani
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venerdì 27 luglio 2018
"In questa grande epoca" di Karl Kraus tradotto per la prima volta in italiano: mezzi di comunicazione, impoverimento dell'immaginario e frasi fatte
Leggere una grande guerra #29
Pronunciato per la prima volta nel novembre del 1914, a poche settimane dallo scoppio della Prima guerra mondiale, In questa grande epoca appare oggi come un testo di svolta di Karl Kraus, incastrato com'è tra due silenzi, il primo che seguiva la febbrile attività per quel raro (e pressoché unico) esempio di rivista davvero militante e esposta che fu "Fackel" e un secondo silenzio che prelude alla stesura e apparizione nel 1922 della sua opera più nota, Gli ultimi giorni dell'umanità. Il testo del discorso, ricco di quei giochi di parole che erano essenziali nella vita di uno scrittore così attento alle manifestazioni della lingua - e lo stesso titolo del discorso riprende l'epiteto "grande" con cui si era soliti riferirsi all'epoca in quegli anni - è proposto per la prima volta in italiano per la cura e traduzione di Irene Fantappiè all'interno della collana "Gli Anemoni" di Marsilio (testo tedesco a fronte, pp. 104, euro 12), una serie di opere curata da Annalisa Cosentino e Luigi Reitani. La modernità e grande tenuta di questo discorso si può leggere lungo direzioni plurime. È una voce pacifista in un contesto dove molti intellettuali, tra cui Thomas Mann, Robert Musil e Hugo von Hofmannsthal, si dedicavano a difendere le ragioni della guerra, in compagnia di altre voci che rivangavano posizioni neoromantiche per avallare la necessità del conflitto, rifugiandosi "nella frase fatta" con la quale qualsiasi giornalista può tradurre l'indicibile dell'apocalisse che sta imperversando. Inoltre, come evidenzia la curatrice nell'introduzione, la sua diventa una postura "esposta" a costo di passare per il carnefice in un'epoca contraddistinta dal paradigma vittimistico o, peggio, dal paradigma (ignavo?) di chi non sa prendere posizione e assiste in un modo assurdo, tra l'allucinato, l'impotente e il blaterante, agli eventi. Infine, lo scritto di Kraus costituisce soprattutto un affilatissimo, inedito attacco al mondo dei mezzi di comunicazione. Si situa proprio a questa altezza la bruciante necessità di questo discorso con cui Kraus torna a riprendere la parola, ad uscire da un silenzio, prima di sprofondare in un altro silenzio. Per la prima volta in queste pagine si porta a galla l'impoverimento di immaginario del quale i mezzi di comunicazione sono stati i principali responsabili, un inaridimento e desertificazione che, uniti a una capacità mai vista prima di fiaccare le sinapsi del pensiero, sono responsabili del carnaio che si inizia a intravedere proprio in quelle settimane nei chilometri di trincee d'Europa. In un punto si legge che questi mezzi di comunicazione
esagerano le condizioni del mondo dopo averle prodotte. Sarebbe già abbastanza terribile se la stampa fosse solo l’espressione di tali condizioni. Ma ne è la causa. Ha inventato e alimentato lo sterile passatempo dei "conflitti di nazionalità" per far prosperare inosservata gli affari del suo turpe intelletto; raggiunti i propri fini, si sbarazza del suo patriottismo in cambio di futuri guadagni.Kraus colpisce e demolisce a parole quel mondo "giornalistico" che egli stesso, con tutt'altre prerogative, alimenta dalle pagine di "Fackel", la rivista da lui fondata, diretta e per buona parte alimentata in modo solitario, in un fecondo cortocircuito del giornalismo dell'epoca. Nella parte introduttiva del volume, che prevede anche qualche necessario appunto sulle sempre ardue traduzioni da Kraus, Fantappiè puntella così il proprio ragionamento di accompagnamento all'opera:
Le frasi fatte dei giornalisti distruggono la capacità di usare la lingua come strumento dell'immaginazione e quindi del pensiero. Standardizzando il modo in cui si parla nel mondo, i mezzi di comunicazione di massa precludono ai singoli individui un accesso vero alla complessità del reale. Questo ha permesso lo scatenarsi della guerra: l'umanità, ottusa dai refrain vuoti della stampa, non ha saputo immaginarla prima che accadesse; se l'avesse potuta immaginare, la guerra non sarebbe accaduta.
È il 19 novembre 1914 quando In dieser großen Zeit è pronunciato al Wiener Konzerthaus. È doveroso riportare qualche passaggio del discorso per continuare a dare la temperatura di pensiero-scrittura di Kraus:
Il progresso vive per mangiare, e a volte dimostra addirittura di poter morire per mangiare. Sopporta ogni pena al fine di essere felice. Volge il pathos verso le premesse. L’estrema affermazione del progresso ha decretato ormai da tempo che la domanda si regoli sull’offerta, che si mangi perché sia un altro a diventare sazio, e che il venditore ambulante interrompa persino i nostri pensieri offrendoci cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Il progresso, sotto i cui piedi l’erba si mette a lutto e il bosco diventa carta da cui crescono fogli di giornale, ha subordinato la vita ai viveri, trasformando noi stessi nelle viti di ricambio dei nostri utensili. Il dente dell’epoca è cavo; poiché quando era sano giunse la mano che vive di otturazioni. Là dove si è spesa ogni forza per togliere ogni asperità alla vita, non rimane nulla che ancora necessiti di essere protetto. In quei luoghi l’individualità può vivere, ma non può più nascere. Potrà forse, coi suoi desideri nevrotici, far comparsa come ospite in zone dove, nel comfort e nella prosperità, circolano avanti e indietro automi privi di volto e di saluto.
Questo breve scritto finalmente proposto in italiano è una porta d'accesso per una lettura inedita e sconcertante di quel primo conflitto mondiale, così come poi sarà anche Gli ultimi giorni dell'umanità. Ma va appunto rilevata ancora una volta la datazione precoce di questo discorso rispetto all'inesauribile "tragedia" krausiana del 1922. La sua portata tracima e va ben oltre, dentro e fuori il secolo, arrivando a toccare delle invarianti di queste epoche, fino a sfiorare questi giorni che ci vedono indaffarati con drammi non dissimili. L'antinicciano Kraus ha fatto confluire in questa manciata di pagine un distillato del suo pensiero sulla contemporaneità, utile per leggere sia gli anni antecedenti al conflitto, la guerra stessa, la crisi economica, politica e morale tra le due guerre e infine il "mondo della comunicazione", così come siamo soliti chiamarlo anche da prima dell'avvento di Internet. Il suo prendere parola avviene affinché si eviti che il tacere possa essere travisato. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia!" scrive ad un certo punto. (Per chi volesse approfondire, andando a saggiare ulteriormente lingua e pensiero krausiani, il quotidiano "la Repubblica" ha pubblicato un ampio estratto che si può leggere anche qui.)
lunedì 23 luglio 2018
"Nulla sanno le parole" di Daniela Gentile
Le parole nella scrittura sono spesso invocazioni di assenze. Parole come "cuore" o un verbo sovente evitato come la peste dai poeti come "coccolare" oppure "ortensie", occorrenza rara nel florario poetico, evocano delle assenze, tutte le assenze che quella parola in quel dato punto del testo è, incrocia, come un fascio di infinite rette che per quel punto passano. La stessa soma umana vive tra limiti definiti la propria trasmutazione nell'arco della vita, e ogni tanto è proprio la poesia a fornirle l'impressione dell'esattezza di ciò che non è subito comprensibile, il senso di un controllo, ritmato e respirato, di un senso che sfugge. Questa premessa per dire che Nulla sanno le parole, titolo che in copertina poggia sopra Transmutation, opera del 2014 di Pierpaolo Miccolis, non introduce esattamente a una sfiducia del linguaggio, come se fossimo di fronte a una nuova Lettera di Lord Chandos. È titolo esatto e imbroglione ad un tempo, e alla rilettura pare che quel "sanno" assomigli di più al "can" inglese. Se qualcosa di questo sfiora la natura dell'opera, allora viene da domandarsi dove si colloca lo statuto ontologico (e pragmatico) della parola "che nulla sa", dal momento che stiamo parlando di un libro di poesia che notoriamente di parole e di linguaggio è fatto e per essere più precisi stiamo parlando del libro che costituisce l'esordio di Daniela Gentile (Pietre Vive Editore, pp. 64, euro 10). Il suo testo inaugurale, l'unico che ricorre a versificazione, parte da una frase ipotetica per parlare proprio della parola e del suo stare prossimo all'azione: "Se la parola è un evento / e se solo le azioni, le virtù fanno di noi / qualcosa di simile al ricordo / allora basti scrivere in poesia / le viltà del nostro amore / le gesta eroiche del gatto, in soggiorno / tra le orchidee ancora al sole / il pudore delle comete / la notte in cui ci siamo allontanati." È un testo che ben introduce al carattere eventuale di qualsiasi parola e anche all'atmosfera del libro, che scopriremo saldata in un'intimità irredenta che suona remota, esasperata, quasi un percorso di funambolo su una relazione tra due punti che ci appare risolta e irrisolta al tempo stesso, nella quale possono convivere tenerezza e ferocia ("Lo stoicismo ha chiesto a noi armi troppo potenti contro il buio" si legge in "Servabo").
Il rimando alla Lettera di Hugo von Hofmannsthal è deliberato per un libro che, proseguendo nelle successive sei sezioni di prose poetiche, assume spesso i toni dialogici di una lettera, con un io e un tu che non sono quelli cristallizzati da una tradizione lirica segnatamente novecentesca, ma che semmai, anche nei modi arguti e spesso sorprendenti, nel dilagare-divagare-distanziare persino ingannevole dei pronomi personali e delle situazioni si rifanno a quei ragionamenti e a quel conversare che si trova in alcuni componimenti di Roberto Amato. Ad esempio, nella già citata "Servabo" si passa dall'inverno, alle inadempienze, allo sciopero, a dei fiori a una rivoluzione persa in poche righe, per finire ancora sulla parola "cuore". Rispetto alla poesia e alla prosa del poeta di Viareggio, di cui si recupera il senso di un tentativo di comunicazione scaraventato sul linguaggio e dal linguaggio sempre depistato, c'è in queste pagine un incedere che pare però già precluso alla comprensione, come se questo libro contenesse e facesse esplodere soprattutto un passato (ma "Il passato, da pochi minuti, è solo remoto" e "La vita è così puntuale, dopo di te"), l'intimità irrisolta e una rotativa di immagini e scrittura che ha compiuto la sua orbita di ellissi e di mancanze colpevoli. Quel "qualcosa di simile al ricordo" di cui ci avvisa programmaticamente il primo testo diventa il vertice di un triangolo che aderisce alla struttura intima dell'opera, data da parola-ricordo-possibilità e dall'inganno e imbroglio che questo triangolo instaura continuamente sull'esistenza. E oltre a questo, camuffato nei toni, c'è persino un nucleo di bestialità che rimane impermeabile e intatto, eppure attratto/attraente, sfiorato impietosamente proprio dalle parole, per digressioni continue che si approssimano al nucleo. Mi pare risieda nell'alternanza di toni carezzevoli e in fondo impietosi una caratteristica saliente e nuova di questi testi, e bisognerà dirci che non è vero che tutto debba passare per un ripensamento e rivisitazione della pietà, tantomeno in poesia:
ZABAIONE DI STENDHAL
Abitare lungo il fiume, dicevi, sarebbe stato pericoloso.
Non ci avrebbe dato tregua, del resto, il rumore dei battelli, degli uccelli o la tentazione di affacciarci alla finestra per scorgere i diversi colori della luce sull’acqua, sotto i ponti.
Ti perseguitava la voce intatta delle lettere: quale ricordo valga la pena di raccontare di te, il tempo che scorre, la pioggia che batte.
Avevi fretta di andare. Il fiume trascina, straripa, inonda i nostri libri e cancella le navi pronte per ogni tempesta: scavare pozzi, fondare città,
sentirsi a casa nella tua assenza.
C'è una sensazione abbastanza netta che affiora proseguendo nella lettura, nella trama del testo che "spinge avanti" chi legge verso la fine del libro: che qualcosa sia già avvenuto e che la scrittura si sia messa al servizio per rielaborare questa porzione di vita. Un punto però è anche questo: si tratta davvero di una porzione di vissuto che viene racchiusa ermeticamente e così rielaborata, oppure vi è un'immanenza di quanto è accaduto, di quello che continua a stare nelle ombre incoerenti e lunghe del linguaggio, della parola? O di quanto continua a posarsi nella porosa membrana che si crea tra memoria e lingua? ("Si slaccia troppo presto l’assenza e diventa identità perfettibile di segni, prefissi obbligatori per l’aldiqua.") L'intertestualità, come noto, è prerogativa di qualsiasi opera di scrittura e già dai passi riportati si comprende come questo libro affondi nell'intertestualità, quella caratteristica che dice la differenza tra l'imitazione e il copiare consapevole (e chiaramente la poesia e la letteratura in genere, da sempre, hanno perlopiù a che vedere con quest'ultimo). Ogni opera si colloca e si definisce in relazione ad altre e anche le possibilità dell'innovazione vivono a stretto contatto con una tradizione. Il carattere eventuale della parola si situa anche in queste considerazioni. In Nulla sanno le parole l'intertestualità non è data solo da un attacco che dice "Avevamo studiato per l’aldilà un sistema per ignorarci" ma anche da rimandi ai testi di formazioni musicali come Massimo Volume ("Avevi fretta di andartene"/"Avevi fretta di andare") o Afterhours ("Hai paura del buio?"/"Hai paura del buio, tu?"). Appare come un'intertestualità che defluisce in più tempi, anche nel latino della citata "Servabo", di "Realia", "Vera", "Sidera", "Nihil admirari", "Pro memoria" o "Lacrimae rerum" oppure nelle lingue straniere di "Afterglow", "Mind the Gap" o "Pierrot le fou".
Questo libro che a dispetto di una vaghezza che punta continuamente a un'intuizione silenziosa è invece costruito statisticamente sulla reggenza e preponderanza degli articoli determinativi davanti ai nomi, raduna plurimi immaginari (classico, letterario, botanico, meteorologico, astronomico, fisico), prova a comprenderne la possibile reazione a partire da situazioni che ripiombano nell'immediato stretto, nel dato improvvisamente precipitato nel testo, per rimbalzare su comete o ragionamenti interstellari, oppure sulla radiazione della "Legge di Wien", a partire da una situazione ricordata. A far da legante dell'impasto è però l'immaginario dato dalla linguistica stessa - in modo paradossale se torniamo al titolo dell'opera - con un interesse e una curiosità che potrebbe ricordare quella di un "botanico delle grammatiche" (il conio è zanzottiano). Di qui si accolgono i titoli delle sezioni o di singoli componimenti che ci parlano di "Neutro plurale", di "Discorsi indiretti" oppure di "Vertere", testo in cui l'esercizio della traduzione è visto in parallelo a uno sfaldarsi di gesti quotidiani, in un crescendo di riguardo "per l'eccezione alla regola da sempre studiata". In un componimento come "Gravitazionale" l'elastico tra cosmico e caffè si schianta su una riflessione sul tempo che parla alla prima persona plurale divellendola proprio nell'istante in cui la invoca (in queste soluzioni è la lirica che torna finalmente centrale in qualsiasi discorso).
GRAVITAZIONALE
Basta così poco per superare le stelle, la loro fissità.
Siamo pianeti con anni luce alle spalle, nel buio, che raccolgono carezze non date, polvere interstellare, qualche cometa.
Ma gli universi sono tanti, mi imbecchi, e fin troppo il buio per poterti telefonare, parlare ad occhi aperti, usare dello zucchero nel caffè.
Non avrà tempo il tempo di scorrere equamente per noi due. Sempre, sempre ti ripetevo.
Poco, forse niente, si cura con il vuoto, dopo il Big Bang.
La proposizione finale crea un'eco interna con il primo verso del libro "Poco, niente, concede a noi / il tempo, nelle vite degli altri." È una spia tra altre della coesione di questo libro, che non si preoccupa molto degli stili correnti e per per molti versi si dimentica perfino dell'ossessione per uno stile. Più che allo stile, questa appare come un'opera di esordio interessata alla decifrazione che possa consentire la speranza. Nel suo intrecciare a punto maglia più immaginari, Nulla sanno le parole è tenuto assieme da una nota dolente della memoria, tanto da concludersi, nell'ultimo testo intitolato "Lacrimae rerum", con i due punti e non con altri segni ("Alcune cose, più di altre, fanno male alla memoria:"). Due punti aperti alla fine e al vuoto, a segnare il confine di un ciclo che non si chiude, ma che potrebbe riaprirsi a ogni passo identico a quello appena chiuso da queste parole (per un punto passano infinite rette, per due punti una soltanto...). E il ricorrere della prima persona plurale in questi testi è un altro aspetto propenso all'imbroglio, in un libro che, nella sua danza placida tra pronomi, agita invece una meditazione sulla quota personale di redenzione alla quale si può provare ad ambire.
Il rimando alla Lettera di Hugo von Hofmannsthal è deliberato per un libro che, proseguendo nelle successive sei sezioni di prose poetiche, assume spesso i toni dialogici di una lettera, con un io e un tu che non sono quelli cristallizzati da una tradizione lirica segnatamente novecentesca, ma che semmai, anche nei modi arguti e spesso sorprendenti, nel dilagare-divagare-distanziare persino ingannevole dei pronomi personali e delle situazioni si rifanno a quei ragionamenti e a quel conversare che si trova in alcuni componimenti di Roberto Amato. Ad esempio, nella già citata "Servabo" si passa dall'inverno, alle inadempienze, allo sciopero, a dei fiori a una rivoluzione persa in poche righe, per finire ancora sulla parola "cuore". Rispetto alla poesia e alla prosa del poeta di Viareggio, di cui si recupera il senso di un tentativo di comunicazione scaraventato sul linguaggio e dal linguaggio sempre depistato, c'è in queste pagine un incedere che pare però già precluso alla comprensione, come se questo libro contenesse e facesse esplodere soprattutto un passato (ma "Il passato, da pochi minuti, è solo remoto" e "La vita è così puntuale, dopo di te"), l'intimità irrisolta e una rotativa di immagini e scrittura che ha compiuto la sua orbita di ellissi e di mancanze colpevoli. Quel "qualcosa di simile al ricordo" di cui ci avvisa programmaticamente il primo testo diventa il vertice di un triangolo che aderisce alla struttura intima dell'opera, data da parola-ricordo-possibilità e dall'inganno e imbroglio che questo triangolo instaura continuamente sull'esistenza. E oltre a questo, camuffato nei toni, c'è persino un nucleo di bestialità che rimane impermeabile e intatto, eppure attratto/attraente, sfiorato impietosamente proprio dalle parole, per digressioni continue che si approssimano al nucleo. Mi pare risieda nell'alternanza di toni carezzevoli e in fondo impietosi una caratteristica saliente e nuova di questi testi, e bisognerà dirci che non è vero che tutto debba passare per un ripensamento e rivisitazione della pietà, tantomeno in poesia:
ZABAIONE DI STENDHAL
Abitare lungo il fiume, dicevi, sarebbe stato pericoloso.
Non ci avrebbe dato tregua, del resto, il rumore dei battelli, degli uccelli o la tentazione di affacciarci alla finestra per scorgere i diversi colori della luce sull’acqua, sotto i ponti.
Ti perseguitava la voce intatta delle lettere: quale ricordo valga la pena di raccontare di te, il tempo che scorre, la pioggia che batte.
Avevi fretta di andare. Il fiume trascina, straripa, inonda i nostri libri e cancella le navi pronte per ogni tempesta: scavare pozzi, fondare città,
sentirsi a casa nella tua assenza.
C'è una sensazione abbastanza netta che affiora proseguendo nella lettura, nella trama del testo che "spinge avanti" chi legge verso la fine del libro: che qualcosa sia già avvenuto e che la scrittura si sia messa al servizio per rielaborare questa porzione di vita. Un punto però è anche questo: si tratta davvero di una porzione di vissuto che viene racchiusa ermeticamente e così rielaborata, oppure vi è un'immanenza di quanto è accaduto, di quello che continua a stare nelle ombre incoerenti e lunghe del linguaggio, della parola? O di quanto continua a posarsi nella porosa membrana che si crea tra memoria e lingua? ("Si slaccia troppo presto l’assenza e diventa identità perfettibile di segni, prefissi obbligatori per l’aldiqua.") L'intertestualità, come noto, è prerogativa di qualsiasi opera di scrittura e già dai passi riportati si comprende come questo libro affondi nell'intertestualità, quella caratteristica che dice la differenza tra l'imitazione e il copiare consapevole (e chiaramente la poesia e la letteratura in genere, da sempre, hanno perlopiù a che vedere con quest'ultimo). Ogni opera si colloca e si definisce in relazione ad altre e anche le possibilità dell'innovazione vivono a stretto contatto con una tradizione. Il carattere eventuale della parola si situa anche in queste considerazioni. In Nulla sanno le parole l'intertestualità non è data solo da un attacco che dice "Avevamo studiato per l’aldilà un sistema per ignorarci" ma anche da rimandi ai testi di formazioni musicali come Massimo Volume ("Avevi fretta di andartene"/"Avevi fretta di andare") o Afterhours ("Hai paura del buio?"/"Hai paura del buio, tu?"). Appare come un'intertestualità che defluisce in più tempi, anche nel latino della citata "Servabo", di "Realia", "Vera", "Sidera", "Nihil admirari", "Pro memoria" o "Lacrimae rerum" oppure nelle lingue straniere di "Afterglow", "Mind the Gap" o "Pierrot le fou".
Questo libro che a dispetto di una vaghezza che punta continuamente a un'intuizione silenziosa è invece costruito statisticamente sulla reggenza e preponderanza degli articoli determinativi davanti ai nomi, raduna plurimi immaginari (classico, letterario, botanico, meteorologico, astronomico, fisico), prova a comprenderne la possibile reazione a partire da situazioni che ripiombano nell'immediato stretto, nel dato improvvisamente precipitato nel testo, per rimbalzare su comete o ragionamenti interstellari, oppure sulla radiazione della "Legge di Wien", a partire da una situazione ricordata. A far da legante dell'impasto è però l'immaginario dato dalla linguistica stessa - in modo paradossale se torniamo al titolo dell'opera - con un interesse e una curiosità che potrebbe ricordare quella di un "botanico delle grammatiche" (il conio è zanzottiano). Di qui si accolgono i titoli delle sezioni o di singoli componimenti che ci parlano di "Neutro plurale", di "Discorsi indiretti" oppure di "Vertere", testo in cui l'esercizio della traduzione è visto in parallelo a uno sfaldarsi di gesti quotidiani, in un crescendo di riguardo "per l'eccezione alla regola da sempre studiata". In un componimento come "Gravitazionale" l'elastico tra cosmico e caffè si schianta su una riflessione sul tempo che parla alla prima persona plurale divellendola proprio nell'istante in cui la invoca (in queste soluzioni è la lirica che torna finalmente centrale in qualsiasi discorso).
GRAVITAZIONALE
Basta così poco per superare le stelle, la loro fissità.
Siamo pianeti con anni luce alle spalle, nel buio, che raccolgono carezze non date, polvere interstellare, qualche cometa.
Ma gli universi sono tanti, mi imbecchi, e fin troppo il buio per poterti telefonare, parlare ad occhi aperti, usare dello zucchero nel caffè.
Non avrà tempo il tempo di scorrere equamente per noi due. Sempre, sempre ti ripetevo.
Poco, forse niente, si cura con il vuoto, dopo il Big Bang.
La proposizione finale crea un'eco interna con il primo verso del libro "Poco, niente, concede a noi / il tempo, nelle vite degli altri." È una spia tra altre della coesione di questo libro, che non si preoccupa molto degli stili correnti e per per molti versi si dimentica perfino dell'ossessione per uno stile. Più che allo stile, questa appare come un'opera di esordio interessata alla decifrazione che possa consentire la speranza. Nel suo intrecciare a punto maglia più immaginari, Nulla sanno le parole è tenuto assieme da una nota dolente della memoria, tanto da concludersi, nell'ultimo testo intitolato "Lacrimae rerum", con i due punti e non con altri segni ("Alcune cose, più di altre, fanno male alla memoria:"). Due punti aperti alla fine e al vuoto, a segnare il confine di un ciclo che non si chiude, ma che potrebbe riaprirsi a ogni passo identico a quello appena chiuso da queste parole (per un punto passano infinite rette, per due punti una soltanto...). E il ricorrere della prima persona plurale in questi testi è un altro aspetto propenso all'imbroglio, in un libro che, nella sua danza placida tra pronomi, agita invece una meditazione sulla quota personale di redenzione alla quale si può provare ad ambire.
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Pietre Vive
giovedì 19 luglio 2018
Una poesia inedita di Tommaso Di Dio
"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.
La seguente poesia di Tommaso Di Dio (1982) è tratta da Ultima vox, terza apparizione del progetto ULTIMA, in uscita per fine settembre 2018. Tutta l’attività del progetto è consultabile qui: www.ultimaspazio.com.12.
Questa sera c'è molto vento.
E per le colline le luci hanno bassa
la voce sui fianchi della terra.
Di notte, questi grappoli sembrano paesi
galassie, universi spazi e sono luci
piccole, comprate
dai negozi cinesi a pochi euro.
Bisogna stare soli; scattare una foto
mandarla a caso ai gruppi su whatsapp
perché le ombre parlino, perché
stiano dolci sui colli e corrano
le ruote delle automobili sulle strade
come curve, come ricordi.
Bisogna aver perso il proprio cuore.
O averlo lontano
innominato e perduto, avuto come sogno
per resistere e non avere paura
di questo vento
di questo urlo di calanchi
che ci dimentica, ci cancella.
Sullo schermo poi.
Qualcuno che digita; qualcuno
che dice io. E dice amore.
Amore. Amore. Parola. Nero.
Notte. E vento. Le colline
dalla pietra del paese
arrivano
sulla nuca sono
come un colpo di buio.
On parle de:
al cor gentil ratto s'apprende,
Tommaso Di Dio
domenica 15 luglio 2018
"Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura" di Maria Anna Mariani
Accostare in un titolo i nomi di Primo Levi e Anna Frank significa concentrare un'attenzione incandescente su figure che, per ragioni diverse, sono diventate simboli della Shoah e raccoglierne, nella scrittura saggistica, le convergenze o gli aspetti che avvicinano le loro singolarità. Al contempo vuole dire apportare delle precise e nuove distinzioni attorno a due situazioni prominenti della letteratura mondiale, mettendo in conto una perlustrazione dei punti di contatto finora rimasti in ombra e anche delle derive e riusi della loro opera, valutare la presenza di Levi in opere di altri scrittori (o nei fumetti) e, nel caso di Anna Frank, riconsiderare i suoi racconti poco noti e spesso svalutati (il make-believe, o "fare-finta-di" del breve epilogo del libro). Del resto, lo ricordava Susan Sontag, siamo già da un po' nell'epoca della frammentazione e del riuso continuo delle opere, tanto più di quelle maggiori di un secolo, di quelle a maggior rischio di destoricizzazione. Naviga e beccheggia tra queste boe di delimitazione il recente saggio di Maria Anna Mariani intitolato Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura (Carocci, pp. 154, euro 17), che si apre all'insegna della considerazione del peso troppo grande e logorante della "testimonianza per delega" della quale lo scrittore torinese, divenuto "testimone collettivo", rappresenta appunto un caso preponderante e mondiale. La testimonianza per delega, per cortocircuito, fa pensare già dalle prime pagine all'altrettanto problematico avvenimento del "trauma per procura" e al paradigma vittimistico contemporaneo emerso così bene in Critica della vittima di Daniele Giglioli (citato anche dall'autrice circa a metà della sua trattazione). Questa testimonianza diventa una condizione altamente sfinente e sfibrante, nella quale il corpo del testimone si fa cavo per far spazio a una pluralità di voci precipitanti e appartenenti ai sommersi. A far da trattino di congiunzione tra i due nomi del titolo vi è anche quello che l'autrice definisce "il peccato della finzione" e sul quale si sofferma in un capitolo dedicato.
Lo studio si apre prendendo in considerazione come sintomo e situazione istruttiva la prima contestata traduzione americana di Se questo è un uomo. Sappiamo che il titolo fece riferimento alla sopravvivenza, rifiutandosi di aderire all'originale italiano, ma ricorrendo a un più altisonante Survival in Auschwitz (solo più tardi si è ricorsi a If This Is a Man e tuttora si trovano copertine in cui i due titoli coabitano). Ciò che disturba e viene alla fine contestato non è tanto la non-aderenza del titolo tradotto, bensì la preposizione "in". Per Maria Anna Mariani "Survival after Auschwitz" avrebbe reso il senso di quello che lei definisce "la tirannia della testimonianza impersonale" che Levi ha sperimentato nel suo libro più noto e di successo (si ricordi per inciso che Se questo è un uomo ha rappresentato un successo commerciale esorbitante per la casa editrice Einaudi). Chiaramente questa "tirannia" e il logoramento del testimone collettivo per delega trovano più volte, in queste pagine, un punto di confronto con il suicidio di Primo Levi dell'11 aprile 1987. Il saggio di Mariani procede quindi con un secondo capitolo dedicato alle opere in cui Levi torna a sperimentare la possibilità della singolarità di testimone, in percorsi editoriali autobiografici vissuti spesso obliquamente. Ed è così che trovano spazio in queste pagine le considerazioni su Il sistema periodico, su quel caso unico di antologia di scritture fondative che Levi compilò sotto il titolo de La ricerca delle radici (titolo facente parte di un più largo e non fortunato progetto di Einaudi dedicato alle antologie personali degli autori) e infine la tardiva registrazione della conversazione con Giovanni Tesio, raccolta col titolo Io che vi parlo. In quest'ultimo caso basti ricordare che la conversazione, risalente ai primi mesi del 1987 e programmata in vista di un'attesa biografia autorizzata, di poco anticipa il suicidio dello scrittore. Il grumo di domande allora precipita e si schianta al bivio di simili dilemmi: cosa deve fare un sopravvissuto di una sciagura epocale e collettiva di quel tempo che gli resta da vivere? Deve dedicare il resto della vita alla testimonianza accettando il logorio sfibrante della testimonianza per delega oppure, anche a costo di una rinuncia alla vita, deve riprendere in mano quella singolarità irriducibile, tanto meno a una delega ad accogliere nel proprio corpo voci, pensieri e storie dei sommersi?
La coppia data dal terzo capitolo intitolato "Primo Levi e il peccato della finzione" e dal successivo "Anna Frank e la sua vita postuma" entra nel vivo della trattazione sfociata nell'idea dell'autrice di dedicare un saggio (e inequivocabilmente un titolo) a queste due figure, unendole in un binomio tanto comprensibile quanto raramente portato in primo piano in precedenza dalla critica. Vi sono differenze fondamentali tra i due, certo, e questo è noto. Tra l'altro il diario di Anna coagula i sentimenti di un prima della deportazione e vive e si definisce anche per quel che è successo dopo a Bergen-Belsen (così come il dopo del suicidio di Levi tende sempre a diventare termine ad quem). Ed è in queste pagine del saggio che entriamo nel rapporto travagliatissimo di Levi con la finzione, opzione indispensabile quanto proibita e sofferta di escapismo. Qui la scelta di avvicinare le figure di Levi e Frank diventa rischiarante in ambo le direzioni. Compaiono allora gli pseudonimi adottati da Levi quasi a contrappeso del peccato di finzione e l'altro peccato "di e su" Anna Frank, coincidente con un processo di mutazione e destoricizzazione che sostanzialmente ebbe inizio già dall'editing compiuto da Anna e dal padre Otto Frank e che è poi dilagato nel mondo del teatro e del cinema, o in quello delle copertine (quella sorta di Barbie che vedete a lato è la sorprendente copertina di un'edizione coreana del diario di Anna Frank, con la quale si apre il capitolo quarto). Tutto il capitolo dedicato a Anna Frank è un susseguirsi di giusti interrogativi sugli statuti di autore, coautore (il padre è stato riconosciuto coautore e in questo modo i diritti del diario non sono ancora scaduti, essendo lui morto nel 1980) e editor. Rifacendosi allora a Appadurai e alle sue hard cultural forms, cioè a espressioni culturali che "oppongono resistenza alla dislocazione e trasformazione, e che quando vengono effettivamente esportate e alterate provocano turbamento" Mariani conclude così, prendendo una posizione ragguardevole:
Il motivo di novità e interesse di questo volume è dato già nel titolo, dal momento che raramente Primo Levi e Anna Frank erano stati così vicini in un percorso di critica. Tuttavia, come si è visto, è nel vivo della trattazione che sono disseminate le tesi più interessanti e coraggiose, necessariamente più gravide di conseguenze nel percorso che ci porta ogni volta alla Shoah e ai drammatici rischi di personalizzazione di questa. Si tratta di un processo inarrestabile? Oppure la consapevolezza della personificazione e genericizzazione della Shoah che dimostra questo studio è un primo tentativo di inversione di tendenza? Se sì, verso quali nuove acquisizioni della critica letteraria sul valore testimoniale della letteratura? Questo intelligente allineamento nel piano del discorso di testimonianza per delega, senso di colpa e peccato della finzione, riconsiderazione del paradigma vittimistico imperante, destoricizzazione e personalizzazione può dirci molto di come si è quello che si è diventati.
Lo studio si apre prendendo in considerazione come sintomo e situazione istruttiva la prima contestata traduzione americana di Se questo è un uomo. Sappiamo che il titolo fece riferimento alla sopravvivenza, rifiutandosi di aderire all'originale italiano, ma ricorrendo a un più altisonante Survival in Auschwitz (solo più tardi si è ricorsi a If This Is a Man e tuttora si trovano copertine in cui i due titoli coabitano). Ciò che disturba e viene alla fine contestato non è tanto la non-aderenza del titolo tradotto, bensì la preposizione "in". Per Maria Anna Mariani "Survival after Auschwitz" avrebbe reso il senso di quello che lei definisce "la tirannia della testimonianza impersonale" che Levi ha sperimentato nel suo libro più noto e di successo (si ricordi per inciso che Se questo è un uomo ha rappresentato un successo commerciale esorbitante per la casa editrice Einaudi). Chiaramente questa "tirannia" e il logoramento del testimone collettivo per delega trovano più volte, in queste pagine, un punto di confronto con il suicidio di Primo Levi dell'11 aprile 1987. Il saggio di Mariani procede quindi con un secondo capitolo dedicato alle opere in cui Levi torna a sperimentare la possibilità della singolarità di testimone, in percorsi editoriali autobiografici vissuti spesso obliquamente. Ed è così che trovano spazio in queste pagine le considerazioni su Il sistema periodico, su quel caso unico di antologia di scritture fondative che Levi compilò sotto il titolo de La ricerca delle radici (titolo facente parte di un più largo e non fortunato progetto di Einaudi dedicato alle antologie personali degli autori) e infine la tardiva registrazione della conversazione con Giovanni Tesio, raccolta col titolo Io che vi parlo. In quest'ultimo caso basti ricordare che la conversazione, risalente ai primi mesi del 1987 e programmata in vista di un'attesa biografia autorizzata, di poco anticipa il suicidio dello scrittore. Il grumo di domande allora precipita e si schianta al bivio di simili dilemmi: cosa deve fare un sopravvissuto di una sciagura epocale e collettiva di quel tempo che gli resta da vivere? Deve dedicare il resto della vita alla testimonianza accettando il logorio sfibrante della testimonianza per delega oppure, anche a costo di una rinuncia alla vita, deve riprendere in mano quella singolarità irriducibile, tanto meno a una delega ad accogliere nel proprio corpo voci, pensieri e storie dei sommersi?
La coppia data dal terzo capitolo intitolato "Primo Levi e il peccato della finzione" e dal successivo "Anna Frank e la sua vita postuma" entra nel vivo della trattazione sfociata nell'idea dell'autrice di dedicare un saggio (e inequivocabilmente un titolo) a queste due figure, unendole in un binomio tanto comprensibile quanto raramente portato in primo piano in precedenza dalla critica. Vi sono differenze fondamentali tra i due, certo, e questo è noto. Tra l'altro il diario di Anna coagula i sentimenti di un prima della deportazione e vive e si definisce anche per quel che è successo dopo a Bergen-Belsen (così come il dopo del suicidio di Levi tende sempre a diventare termine ad quem). Ed è in queste pagine del saggio che entriamo nel rapporto travagliatissimo di Levi con la finzione, opzione indispensabile quanto proibita e sofferta di escapismo. Qui la scelta di avvicinare le figure di Levi e Frank diventa rischiarante in ambo le direzioni. Compaiono allora gli pseudonimi adottati da Levi quasi a contrappeso del peccato di finzione e l'altro peccato "di e su" Anna Frank, coincidente con un processo di mutazione e destoricizzazione che sostanzialmente ebbe inizio già dall'editing compiuto da Anna e dal padre Otto Frank e che è poi dilagato nel mondo del teatro e del cinema, o in quello delle copertine (quella sorta di Barbie che vedete a lato è la sorprendente copertina di un'edizione coreana del diario di Anna Frank, con la quale si apre il capitolo quarto). Tutto il capitolo dedicato a Anna Frank è un susseguirsi di giusti interrogativi sugli statuti di autore, coautore (il padre è stato riconosciuto coautore e in questo modo i diritti del diario non sono ancora scaduti, essendo lui morto nel 1980) e editor. Rifacendosi allora a Appadurai e alle sue hard cultural forms, cioè a espressioni culturali che "oppongono resistenza alla dislocazione e trasformazione, e che quando vengono effettivamente esportate e alterate provocano turbamento" Mariani conclude così, prendendo una posizione ragguardevole:
Eppure, che ci piaccia o no, Anna e suo padre sono stati i primi a preparare una ricezione globale del diario. Sono stati loro i primi editor a neutralizzare il significato specifico della Shoah, trasformandola in un guscio vuoto: una storia generica di generiche vittime, generici oppositori, generiche ragazzine.È questa opposizione lacerante tra singolarità-genericità che percorre intelligentemente questo saggio e lo fa vibrare e da questa è possibile ripartire per future considerazioni su testimonianze e letteratura della Shoah, un terreno che si è via via sovraccaricato di dati e materiali e che necessita pertanto una nuova posizione teorica disposta a offrire coordinate plausibili per leggerli e ricollocarli. Il libro prosegue affrontando Primo Levi lettore di Anna Frank, lasciando fluttuare le riflessioni sul viso di Anna (questione tornata alla ribalta anche negli stadi di calcio italiani di recente), quella "fanciulla d'Olanda" (Levi) e "essere di mezzo" (Ortese) che secondo lo scrittore torinese "ci commuove più che gli innumerevoli altri che hanno sofferto proprio come lei, ma le cui facce sono rimaste nell'ombra". Come già anticipato, un capitolo è dedicato alle presenze di Levi nelle opere più vicine a noi e un breve epilogo ci parla dei racconti di Anna Frank, che per Mariani sono stati oggetti di giudizi duri e monolitici e che invece rappresentano un "conficcare gli occhi in ciò che verrà".
Il motivo di novità e interesse di questo volume è dato già nel titolo, dal momento che raramente Primo Levi e Anna Frank erano stati così vicini in un percorso di critica. Tuttavia, come si è visto, è nel vivo della trattazione che sono disseminate le tesi più interessanti e coraggiose, necessariamente più gravide di conseguenze nel percorso che ci porta ogni volta alla Shoah e ai drammatici rischi di personalizzazione di questa. Si tratta di un processo inarrestabile? Oppure la consapevolezza della personificazione e genericizzazione della Shoah che dimostra questo studio è un primo tentativo di inversione di tendenza? Se sì, verso quali nuove acquisizioni della critica letteraria sul valore testimoniale della letteratura? Questo intelligente allineamento nel piano del discorso di testimonianza per delega, senso di colpa e peccato della finzione, riconsiderazione del paradigma vittimistico imperante, destoricizzazione e personalizzazione può dirci molto di come si è quello che si è diventati.
sabato 14 luglio 2018
"L'altra natura. Eucaristia e poesia nel primo Seicento inglese" di Carmen Gallo
Grazie alla cortesia di editore e autrice pubblico di seguito l'introduzione del libro di Carmen Gallo L'altra natura. Eucarestia e poesia nel primo Seicento inglese (edizioni ETS, pp. 208, euro 22). Il saggio pone al centro le opere dei poeti metafisici inglesi John Donne, George Herbert e Richard Crashaw accavallando nel suo sviluppo l'analisi testuale e l'attenzione alle dispute teologiche del tempo.
L’altra natura.
Eucaristia e
poesia nel primo Seicento inglese
Carmen Gallo
Introduzione
L’altra natura: la difesa della
poesia e la crisi sacramentale
«Questo è il mio corpo che è dato
per voi. Fate questo in memoria di me» (Luca 22, 19). L’interpretazione di questo e degli altri passi evangelici sulla
trasformazione del pane e del vino durante l’Ultima Cena è stata, sin dalle
dispute medievali, motivo di scontri teologici che hanno mostrato le ambiguità
retoriche e i paradossi di una frase tanto semplice quanto cruciale nel
definire la natura della ‘vera presenza’ di Dio nel mondo[1]. Negli anni della Riforma inglese,
la crisi religiosa e gli sconvolgimenti politici e scientifici riaccesero
l’ossessione esegetica nei confronti delle Scritture, gettando le premesse per
una straordinaria proliferazione di formazioni discorsive che rielaboravano il
discorso religioso della tradizione cattolica: oltre ai primi compendi
liturgici in lingua inglese, troviamo manipolazioni satiriche e di propaganda, ma
anche formulazioni letterarie che testimoniano come «religion
during this period supplies the primary language of analysis. It is the
cultural matrix for explorations of virtually every topic: kinship, selfhood,
rationality, language, marriage, ethics, and so forth. Such subjects are […] not masked by
religious discourse but articulated in it»[2].
Complice
il contemporaneo successo dei trattati di retorica[3],
il principale argomento di controversia esegetica, seppure all’interno di
registri linguistici così diversi – divulgativi, argomentativi, politici o
devozionali – era, come si accennava, il dogma della transustanziazione, ovvero
la vera presenza di Cristo nell’eucaristia, che i cattolici difendevano
basandosi sull’interpretazione letterale
delle parole dei Vangeli, e i riformati (detti per questo tropisti) attaccavano riprendendo posizioni, già presenti nel
pensiero medievale cattolico, circa la natura puramente figurale di quelle
parole. Lo scontro tra queste due
posizioni, ulteriormente complicato dalle diverse correnti presenti nella
Chiesa inglese (calvinisti, puritani, arminiani, e laudiani, solo per citarne
alcuni), non si limitò a circolare negli ambienti ecclesiastici, ma divenne
oggetto di dibattito pubblico e occasione di indagine interiore in strati
sempre più ampi della società, prestandosi a usi e contesti anche molto lontani
da quelli tradizionali.
È in conseguenza della
forte commistione tra pressioni ideologiche e pragmatiche che si registra ciò
che assumo come premessa di questo volume, ovvero l’indebolimento dello statuto
di autorevolezza del discorso teologico dovuto al contemporaneo ampliamento del
suo orizzonte d’uso. Un indebolimento che è conseguenza e causa ulteriore
dell’inglobamento del discorso religioso all’interno del grande campionario di
saperi e linguaggi – scientifici, giuridici, e letterari – che, tra la metà del
sedicesimo e i primi decenni del diciassettesimo secolo, sono risemantizzati o
rifunzionalizzati dalla vis
discorsiva e drammatica dei poeti metafisici.
Rispondendo alle accuse
dei puritani contro l’immoralità della human
invention, la poesia metafisica si appropria delle forme del discorso
teologico (lessico teologico, sintassi argomentativa, imagery scritturale) per testimoniare una delle più complesse crisi
della storia occidentale, la tappa che, nel processo di secolarizzazione o
‘desacralizzazione’ della società europea, annunciava il passaggio da «a
religious culture to a religious faith»[4],
da una cultura religiosa omogenea, ancora dominante, che condivideva un
orizzonte di valori definiti, pubblicamente condivisi, e gerarchicamente
mediati e supervisionati, a una dimensione della fede sempre più legata, nel
mondo anglosassone, all’esperienza individuale, e alla pratica di una devozione
privata che passa attraverso la lettura personale delle Scritture.
La
crisi religiosa del Cinque-Seicento segna, infatti, l’affermarsi del
cristianesimo riformato come Word
religion, una religione fondata sulla parola, che alla tensione cerimoniale
e pubblica dei rituali risponde con la centralità dell’inwardness, l’esperienza interiore del fedele[5].
Prima conseguenza di questa attenzione alla parola a discapito del rito è
l’indebolimento del valore performativo della
parola nella trasformazione ‘reale’ delle specie eucaristiche in corpo e sangue
di Cristo. Negata la transustanziazione del pane e del vino, le parole
evangeliche della consacrazione durante l’Ultima Cena diventano un puro stimolo
psicologico: si assiste a ciò che Malcolm M. Ross descrive efficacemente come
«the unfleshing of the word»[6],
la ‘disincarnazione’ della parola
divina, che non intrattiene più alcun rapporto con la natura fisica di Cristo,
ma diventa, per i protestanti più radicali (i memorialisti), invito a una
comunione puramente spirituale. Ross è stato il primo, nel suo Poetry and Dogma: The Transfiguration of
Eucharistic Symbols in Seventeenth Century English Poetry (1954), a
riconoscere il ruolo cruciale giocato dai dibattiti eucaristici nella crisi
registrata dalla poesia del periodo. Suo è il merito di aver sottolineato come
il passaggio da «Questo è il mio
corpo»[7]
nell’interpretazione letterale del cattolicesimo a «Questo sta per, rappresenta il
mio corpo» nell’interpretazione figurale della Riforma segnasse una frattura
non solo religiosa ma anche epistemologica e retorica, che modificava il
rapporto tra linguaggio, realtà, ed esperienza sensibile. I dibattiti sull’eucaristia,
che da sempre avevano attraversato questioni più ampie come il rapporto tra
parola e sacramento, segno e referente, finirono con includere la relazione tra
percezione sensibile e dati di realtà (la transustanziazione essendo
considerata un inganno superstizioso dei sensi) che andava incontro alle
istanze razionaliste della new science,
istanze la cui traumaticità John Donne avrebbe ben descritto nella sua Anatomy of the World (1611), con i
famosi versi:
And new Philosophy calls all
in doubt,
The Element of fire is quite
put out;
The Sun is lost, and th’earth,
and no mans wit
Can well direct him where to
looke for it.
And freely men confesse that
this world’s spent,
When in Planets, and the
Firmament
They seeke so many new; then
see that this
Is crumbled out againe to his
Atomies.
’Tis all in pieces, all
coherence gone;
All just supply, and all
Relation:[8]
Dopo la pubblicazione del volume di Ross, e in polemica con
le posizioni anti-storiciste del New Criticism
angloamericano, sempre più numerosi sono stati gli studi che hanno preso in
considerazione la teologia sacramentale del tempo per l’analisi dei testi dei
poeti metafisici. Spesso, però, grandi energie sono state dedicate al tentativo
di individuare l’orientamento teologico dei singoli autori e le relative
ricadute letterarie, dando vita a una visione della poesia del periodo
intrappolata in rigide dicotomie (cattolico vs
protestante, ortodosso vs
eterodosso), incapaci di restituire la realtà di un quadro complesso, e di dar
conto insieme del contesto storico-religioso e delle peculiarità formali della
loro poesia. È questo il caso degli studi di Louis L. Martz e Barbara Lewalski,
intenti rispettivamente ad ascrivere – in modo per lo più esclusivo – l’uno
alla trattatistica meditativa cattolica, l’altra a fonti devozionali
protestanti, i modelli dominanti nella poesia di questo periodo, sulla scia di
pregiudizi personali o nazionalistici più o meno consapevoli[9].
Maggiormente orientato all’analisi delle implicazioni
retoriche ed estetiche dell’imagery
sacramentale in contesti profani e religiosi è invece lo studio di Theresa
DiPasquale, Literature and Sacrament: the
Sacred and the Secular in John Donne (1999), attento alle figuralità di una voce poetica che
agisce come «a quasi-divine maker or priestly minister»[10],
e rispetto al quale il lettore, sia quello reale sia quello fittizio talvolta
chiamato in causa nel testo, si configura come un worthy receiver[11]. L’impianto interpretativo
di DiPasquale sarà considerato fondativo della cosiddetta Sacramental Poetics, ma non va sottovalutato quanto abbiano
contribuito a rinnovare gli studi sulla letteratura early modern due importanti momenti della critica angloamericana:
da una parte l’affermarsi del neostoricismo di Stephen Greenblatt, che nel suo Practising New Historicism dedica ben
due capitoli ai dibattitti sulla transustanziazione, e il cui orientamento
critico, erede delle genealogie di Foucault e dell’antropologia di Clifford
Geertz, promuoveva l’uso integrato di testi letterari e altri materiali
culturali[12]; dall’altra, il cosiddetto religious turn[13],
dedito a rimediare a una carenza storico-letteraria che, in nome di un taciuto
pregiudizio anti-religioso, avrebbe limitato l’interesse della critica e dei
lettori nei confronti della produzione letteraria di questo periodo[14].
Non sono mancati, inoltre, contributi che hanno indagato le implicazioni
eucaristiche su spettri cronologici più ampi[15],
o con una maggiore autonomia teorica, come fa per esempio Douglas Burnham, che
legge nel «riddle» della transustanziazione «a metaphor of power and even the
danger of metaphorical language itself»[16].
Rispetto a questo panorama critico, il presente volume limita
le analisi e l’interpretazione dei testi a tre poeti, tutti per ragioni
diverse coinvolti nella crisi religiosa in atto tra Cinque e Seicento: John
Donne, di antica famiglia cattolica, poi predicatore di punta della Chiesa
inglese di Giacomo I; George Herbert, di famiglia protestante, ritenuto
l’iniziatore di quella che sarà chiamata la via
media anglicana; Richard Crashaw, figlio di un feroce pamphlettista
puritano, che disattendendo le aspettative paterne si converte al
cattolicesimo, viaggia in Europa e muore in Italia, nel santuario di Loreto.
La
cornice all’interno della quale le riflessioni sui rapporti tra le forme del discorso
teologico e quelle del discorso poetico dopo la Riforma saranno inquadrate non
è – come avviene invece in molti contributi stranieri – la ricognizione delle
correnti confessionali o delle preferenze dottrinarie dei singoli poeti, né la
lettura puramente storico-culturale dei discorsi poetici. Al centro del volume
ci sono le analisi dei testi e la possibilità di articolare, partendo da
queste, riflessioni generali sulle ibridazioni discorsive alla luce di un
contesto di crisi – approfondito
attraverso diverse tesi storiografiche – che costringe i poeti a riconfigurare
temi, stili e posture della tradizione poetica. L’obiettivo è mostrare come,
nella poesia di John Donne, George Herbert e Richard Crashaw siano in atto
strategie di rappresentazione e compensazione del processo di
‘desacramentalizzazione’ provocato dai dibattiti teologici interni alla nuova
Chiesa inglese. Un processo che scaturisce dal passaggio da una cultura
religiosa che ri-materializza attraverso la parola, durante il rito eucaristico,
la presenza fisica del divino nel mondo («Questo è il mio corpo»), a una fede
più individuale, quella dei riformati, che ritiene questa possibilità una
credenza superstiziosa, e accorda dunque al linguaggio poetico un potere tanto
più forte in quanto ha il compito di presentificare un’assenza che comincia a
essere avvertita come irrimediabile («Fate questo in memoria di me»).
Lo strumento
privilegiato di questa sfida alle inquietudini del tempo è il wit, usato a scopo argomentativo
(Donne), metapoetico (Herbert), o drammatico-rituale (Crashaw). È il wit, infatti, l’unico espediente
retorico capace non solo di tenere insieme – superando le rigide dicotomie del
decoro – registri stilistici e ambiti del sapere diversi, ma anche di
rimediare, in chiave più o meno provocatoria, su un piano retorico se non più
ontologico, allo statuto indebolito della “vera presenza”, rendendo affine,
contiguo, ciò che non lo è: l’umano e ciò che lo trascende, la parola del poeta
e il Dio-Logos.
L’idea della
funzione ‘trascendentale’ del wit,
d’altra parte, non è lontana da quanto Philip Sidney, nel tentativo di
coniugare aristotelismo e poetica protestante, aveva messo a fondamento della
sua Defense of Poesy (1581,
pubblicato postumo nel 1595). In questo trattato Sidney riconosce infatti solo al poeta – e non agli scienziati,
ai grammatici o ai filosofi, che studiano le regole della natura – la qualità
di essere un creatore, maker, capace
con la sua arte di superare i limiti della natura, e di creare «another
nature», un’altra natura, superiore agli esempi della storia e ai precetti
della filosofia:
Only the poet, disdaining to be tied
to any such subjection, lifted up with the vigour of his own invention, doth
grow in effect into another nature, in making things either better than nature
bringeth forth or, quite anew, forms such as never were in nature, as heroes,
demigods, cyclopes, chimeras, furies and such like. So as he goeth hand in hand
with nature, not enclosed within the narrow warrant of her gifts but freely
ranging only within the zodiac of his own wit.[17]
Il poeta,
secondo Sidney, non si limita a imitare la natura e a prendere in prestito le
sue leggi: pur restando nella «narrow warrant of her gift», è chiamato a creare
«another nature», «quite anew». Usando liberamente «his own wit», che gli
permette di trascendere i vincoli della natura, egli può creare cose che non
esistono, alterando, convertendo e trasmutando, quasi alchemicamente, le
qualità del mondo naturale: «Her [quello della natura] world is brazen, the
poet only delivers a golden»[18].
È questo un motivo ricorrente nella trattatistica sulla poesia del tempo. Anche
Francis Bacon, nelle riflessioni contenute in The Advancement of Learning, pubblicato
qualche anno più tardi, nel 1605, riconosce tra le caratteristiche proprie
della poesia quella di riuscire a intervenire sulle leggi della natura
alterandole:
Poesy is a part of learning, in measure of words for
the most part restrained, but in all other points extremely licensed, and doth
truly refer to imagination, which being not tied to the laws of matter, may at
pleasure join that which nature hath severed, and sever that which nature hath
joined, and so make unlawful matches and divorces of things.[19]
La
capacità della poesia, qui da intendersi come letteratura d’immaginazione, di
creare combinazioni o separazioni tra le cose talvolta illegittime («unlawful»),
contrarie alle leggi della natura, è ciò che avvicina la figura del poeta a
quella del creatore. «Poetry», scrive ancora Sidney, «raise and erect the
mind by submitting the show of things to the desires of mind, whereas reason
doth buckle and bow the mind unto the nature of things»[20].
Una tensione che
innalza, erect la mente umana
facendole superare l’apparenza visibile delle cose e il limite della ragione, e
che, anche secondo Bacon, sancisce la «participation in divineness» della
poesia[21].
Il pericolo che questa associazione di creazione poetica e creazione divina sia
«too saucy a comparison», un’associazione troppo ardita, è smentito
esplicitamente da Sidney, che legge invece in tale paragone la dimostrazione
della volontà divina di fare l’uomo a propria immagine e somiglianza, poiché
«in nothing he showeth so much as in poetry, when, with the force of a divine
breath, he [il poeta] bringeth things forth surpassing her doings [le opere
della natura]»[22].
Lo scopo della poesia per Sidney è infatti quello di elevare l’uomo dalla sua
condizione di peccatore, attraverso figure o rappresentazioni che, meglio della
storia e della filosofia, possono influenzare l’«infected will», la volontà
corrotta dell’uomo dopo il peccato originale, che tiene gli uomini lontani da
quella perfezione morale che invece l’«erected wit» della poesia aiuta a
riconoscere e perseguire[23].
Se il wit, nell’accezione più ampia di ingegno
e di facoltà immaginativa, rappresenta lo strumento retorico che rende
possibile la creazione di una natura altra,
la poesia diventa il mezzo, il medium
attraverso il quale «to know, and by knowledge to lift up the mind from the
dungeon of the body to the enjoying his own divine essence»[24].
Scevra delle astrazioni della filosofia e della casualità della storia, ma anzi
«representing, counterfeiting, or figuring forth», la poesia crea «a speaking
picture» capace di «teach and delight»[25],
secondo il noto dettame oraziano. L’influenza della Riforma su The Defense of Poesy di Sidney è
evidente nell’insistenza sulla figuralità. Come ha
sottolineato Timothy Rosendale, l’opera di Sidney, come il Book of Common Prayer apparso circa trent’anni prima, si fonda «on
the absolutely critical centrality of figural understanding as a means of
spanning the gap between real and ideal, earth and heaven»[26].
All’aspetto figurale è
demandato il compito di ricomporre la frattura tra cielo e terra aperta dai
dibattiti sacramentali e dalla ‘disincarnazione’ della parola divina. Se nella
celebrazione eucaristica l’andare al di là della natura, del sensibile – oltre
la sostanza – serve a lift up, a
elevare il comunicante verso l’essenza divina che si manifesta nella
transustanziazione, così la poesia e il suo linguaggio – da questo momento in
poi – faranno proprio il compito di elevare l’uomo dalla prigione della natura
affinché possa godere, in modo imperfetto in quanto umano, di un divino che
sopravvive non nell’esperienza dei sensi, ma nella possibilità del linguaggio
di trascendere la realtà.
Il wit
descritto da Sidney non coincide del tutto con il wit dei metafisici, che si distingue per una qualità più ardita,
sorprendente e straniante. È infatti l’uso spregiudicato di questo espediente
retorico a spingere la loro poesia non solo oltre i confini imposti dalle leggi
della natura, ma in uno spazio in cui la tenuta della discordia concors (di cui l’eucaristia-comunione appare non a caso
come una delle possibili figure) è messa alla prova da associazioni forzate
(disperate), talvolta ai limiti del decoro sia stilistico che religioso, come
si vedrà, per esempio, nell’analisi di The
Flea di John Donne, in cui una pulce diventa vittima e altare di un
triplice sacrificio religioso.
Era stato
questo, in fondo, anche l’aspetto della poesia metafisica maggiormente
criticato dai detrattori settecenteschi che, in accordo con l’ostilità
illuminista nei confronti della metafora e del sistema di corrispondenze
teologiche ed epistemologiche invalidate dal paradigma scientifico, avevano
rifiutato le ibridazioni dei metafisici e la formazione di compromesso da loro
messa in campo[27].
Sono famose in merito le parole di Dryden che valsero l’appellativo dispregiativo
appunto di ‘metafisico’ a John Donne, e che rivolgevano a quest’ultimo l’accusa
di ricorrere alla ‘metafisica’, ovvero a saperi filosofici o teologici, «not
only in his satires, but in his amorous verses, where only nature should reign»[28].
Anche Samuel Johnson riprenderà l’opposizione tra poeti metafisici e
natura, asserendo innazitutto che «they cannot be said to have imitated
anything»[29],
perché nella loro poesia «the most eterogeneous ideas are yoked together;
nature and art are ransacked for illustrations, comparisons, and allusions»[30].
Ciò che non poteva incontrare il gusto neoclassico era proprio questa modalità:
il wit eccede la natura, forza i collegamenti naturali tra le idee, e stabilisce
rapporti inediti tra le cose ricorrendo a figure come l’iperbole, la metafora,
la metonimia e il paradosso. Nella sua tensione insieme analitica e analogica,
il wit dei metafisici disseziona la
natura, restituendo di quest’ultima solo il dettaglio inatteso, senza fornire
se non in absentia il quadro
generale, al pari di chi «dissects a sun-beam with a prism can exhibit the wide
effulgence of a summer noon»[31].
Questa riconosciuta artificiosità o ‘alterità’ del wit – che inserisce il dibattito critico sulla poesia metafisica
nella querelle sul valore mimetico
della lirica di cui si discute ancora oggi[32]
– è in parte riabilitata dallo stesso Johnson, il quale ammette che il wit possa diventare strumento di rivelazione, di svelamento di una
verità:
Yet
great labour, directed by great ability, is never wholly lost: if they
frequently threw away their wit upon false conceit, they likewise sometimes
struck out unexpected truth; if their conceits were far-fetched, they were
often worth the carriage.[33]
L’unexpected truth che il wit rivela è ciò che salva, agli occhi
di Johnson, la poesia metafisica da un giudizio negativo senza appelli, ma
anche il motivo per cui il wit viene
eletto a strumento irrinunciabile per le rielaborazioni della retorica sacra, e
delle forme e dei contenuti dei dibattiti teologici. È nel suo potere di
sorprendere e rivelare che il wit dei
metafisici e il linguaggio religioso trovano un punto di convergenza che
legittima il primo e risemantizza il secondo. Il rapporto tra l’oltranza del wit e la retorica sacra, d’altra parte,
non è una novità della storia letteraria, né è nuova la diffidenza che la
critica ha mostrato nei confronti dell’uso di un espediente così ‘artificiale’,
che mostra esplicitamente l’operazione di alterazione (quasi in chiave ludica)
del linguaggio ordinario all’interno di un contesto con allusioni sacre. Walter
Ong attribuiva a questo pregiudizio la scarsa attenzione prestata a un certo
filone della poesia latina medievale che invece usava il wit proprio per instaurare un «paradoxical or curious and striking
comparison and analogy» capace di penetrare nelle relazioni profonde tra le
cose[34].
Significativamente, l’uso serio del wit
nella tradizione medievale del tredicesimo secolo è paragonato
da Ong a quello della poesia metafisica inglese, non solo per la comune scarsa
fortuna critica, ma sulla base delle affinità del contesto di produzione: «This
fact is intimately connected with the dominance of theological speculation in
the milieu in which these men moved»[35].
Erede del wit medievale, altrettanto legato alle speculazioni teologiche, e
della funzione religiosa del wit di
Sidney, la poesia metafisica elabora un discorso poetico caratterizzato da un
dettato fortemente argomentativo, sempre animato da una finalità
ineludibilmente persuasiva[36].
Questo aspetto aiuta a connotare ulteriormente il punto di intersezione tra
discorso teologico e discorso poetico nella poesia inglese dopo la Riforma[37]: lo
scopo della poesia metafisica è argomentare, con sintassi serpentine, immagini
sorprendenti, locuzioni drammatiche, e convincere il lettore (o il destinatario
interno della poesia) a riorientare la propria volontà, a ri-vedere le sue
posizioni sulla morale, sulla religione o la politica. In questo senso, le sue
finalità non sono tanto diverse da quelle che Paul Ricoeur, in «The Specificity of Religious
Language» (1975), attribuisce al linguaggio religioso,
il quale avrebbe appreso proprio dal linguaggio poetico a fare appello
all’immaginazione del fedele-lettore attraverso «an odd language», pieno di ‘espressioni-limite’ che
descrivono «what we might correlatively call the ‘limit-experiences’ of man»[38].
In un saggio successivo, «The Logic of Jesus, the Logic of God»
(1980), Ricoeur
tornerà sulla questione individuando come tratto specifico del linguaggio religioso
quella che chiama «logic of excess, of superabudance», ben esemplificata dalle
parabole di Cristo (porgere l’altra
guancia), e distinta dalla logica umana basata invece sulla misura
dell’equivalenza, che ritroviamo nell’Antico Testamento (occhio per occhio, dente per dente: Esodo 21, 24; Levitico 24, 20)[39].
È evidente che la
categoria dell’eccesso presiede e struttura tanto il linguaggio religioso
quanto quello poetico, perché entrambi sono dediti alla rivelazione di una
verità attraverso un linguaggio non ordinario, ‘innaturale’. Di certo, nel caso
dei poeti metafisici, la logica dell’eccesso – che significativamente passa da
Cristo alla voce poetica – è strettamente legata, come suggerisce Ong, al
contesto storico in cui essi operano, un contesto in cui perdura una
sensibilità medievale che percepisce l’antico legame tra le parole e le cose,
tra il micro e il macrocosmo, ma in cui s’insinua, allo stesso tempo, ciò che
Whalen chiama «post-Reformation logocentrism»[40], il
logo-centrismo promosso dalla Riforma come pratica devozionale a fondamento
dell’esperienza tutta spirituale della fede[41]. Se Dio ha lasciato il mondo, come suggerisce il sottotitolo di uno dei
più importanti contributi sull’argomento – Sacramental
Poetics at the Dawn of Secularism. When
God Left the World (2008) di Regina M. Schwartz[42]
– il discorso su Dio diventa allora
materia alla mercé dei poeti, che ne assicurano così la paradossale
sopravvivenza. Il discorso sulla presenza,
in particolare, diventa infatti lo strumento con cui il poeta-creatore può
prendere in prestito le forme della teologia eucaristica per creare un’altra natura in cui misurare ed eccedere
le possibilità del linguaggio. Imitando non la natura e le sue leggi, ma la
retorica di un mondo svuotato o in disfacimento perché ormai privo di un
garante indiscusso (la Chiesa ‘cattolica’, nel senso di universale), i poeti
suggeriscono una orizzontalità subdola, irriverente, blasfema, o utopica, con
quel Dio dal quale hanno imparato l’arte della creazione[43].
L’ipertrofia
linguistica dei metafisici, le strategie con cui rielaborano (anche
sovvertendolo) il discorso religioso e teologico servono a resistere contro la
scomparsa di un mondo. Se è vero, come sostiene Kenneth Burke, che ogni
riflessione intorno alla natura di Dio è soprattutto una riflessione sul
linguaggio stesso, e questo indipendentemente dall’esistenza di Dio[44],
possiamo dire all’inverso che ogni ragionamento sul linguaggio poetico è una
meditazione sulla natura divina, da intendersi come tutto ciò che trascende l’umano,
ciò di cui l’uomo intuisce l’esistenza senza poterne fare esperienza. In questo
senso, è possibile interpretare la figuralità eucaristica dei metafisici sia
come il riflesso di una inquietudine condivisa sulla natura della presenza (ed
esistenza) di Dio, sia come il tentativo di sostituire la forma svuotata del
linguaggio religioso con l’autorità del wit
e del linguaggio poetico. Queste due tensioni, per quanto apparentemente
opposte – l’una restauratrice, che guarda al passato, l’altra provocatoria e
dissacrante, che anticipa esiti futuri della poesia moderna – coesistono
inevitabilmente, e plasmano in modi diversi la poesia di Donne, Herbert e
Crashaw.
Questo
lavoro è strutturato in quattro capitoli. Il primo, Le Riforme in Inghilterra e i dibattiti sull’eucaristia,
ricostruisce le diatribe teologiche, di ascendenza medievale (da Pascasio
Radberto fino a Tommaso d’Aquino), riprese dal dibattito all’interno della
Chiesa inglese tra Cinquecento e primo Seicento. L’intenzione è quella di
fornire un quadro sintetico delle anatomie eucaristiche su cui costruirono
nuove posizioni e formulazioni teologiche i fautori della riforma della Chiesa:
Lutero, Calvino, Zwingli, riletti e mediati in Inghilterra da figure come
Richard Hooker, e in seguito da John Cosin e William Laud. Il primo capitolo si
sofferma, inoltre, sulla storia editoriale del Book of Common Prayer, il manuale liturgico che sostituì gran parte
dei testi connessi ai riti religiosi cattolici, e rappresentò il campionario –
principale, se non unico – di citazioni bibliche per diverse generazioni di
poeti, soprattutto dopo l’Act of
Uniformity (1558), che ne impose l’uso e la stretta osservanza in tutte le
chiese inglesi. Le diverse redazioni del Book
of Common Prayer, e in particolare delle parti relative alla celebrazione
eucaristica, permettono di seguire l’evoluzione retorico-teologica della Chiesa
inglese enriciana ed elisabettiana attraverso un documento storico il cui
impatto sulla cultura inglese, in termini soprattutto linguistici, è stato paragonato
a quello della diffusione della radio nel Novecento[45].
Scopo dei
tre capitoli successivi – John Donne e il
wit sacramentale; George Herbert e la vera presenza della
parola; Richard Crashaw e la
scrittura del corpo eucaristico – è leggere, alla luce del quadro teorico
delineato in questa introduzione, i testi e le raccolte dei tre poeti
attraverso una prospettiva insieme storica e formale, utile a mettere in luce
le specificità di ciascuno nella rielaborazione di concetti teologici, e le
loro eventuali affinità nella rielaborazione poetica.
Nel
capitolo dedicato a John Donne mi soffermo su testi che appartengono sia alla
raccolta dei Songs and Sonnets, sia a
quella sacra degli Holy Sonnets, per
dimostrare come la retorica eucaristica e le allusioni ai dibattiti teologici
sacramentali siano parte integrante dell’armamentario argomentativo – che
comprende la tradizione petrarchesca, quella ovidiana, la filosofia
neoplatonica, ma anche il lessico giuridico, la new science e la retorica cortese – con cui si costruisce tanto
l’ideale della comunione degli amanti che diventano una cosa sola, quanto la meditazione sul sacrificio e sull’imitatio
Christi nella poesia religiosa. L’analisi ravvicinata dei testi mostra come
tutta la poesia di Donne sia attraversata in filigrana dall’incontro-scontro
tra l’istanza divina e la voce poetica, che allude a se stessa come a una
figura cristologica sia nelle liriche d’amore (The Canonization, The Relique),
sia nelle poesie religiose, in cui il monologo-dialogo con Dio assume toni così
disperati da suggerire una tensione conflittuale che quasi mette in discussione
la ‘vera presenza’ del suo interlocutore.
Nel
capitolo dedicato a George Herbert è la raccolta The Temple. Sacred Poems and Private Ejaculations (1633) a essere
al centro dell’analisi, e in particolare la sezione centrale The Church, la cui struttura
complessivamente ricalca – su un piano insieme cerimoniale (sacred poems) e privato (ejaculations) – le tappe fondamentali
dell’esperienza eucaristica del poeta-fedele: dalla presentazione di The Altar (uno dei pattern poems della raccolta), che apre la sezione e rimanda alla
tradizione veterotestamentaria del sacrificio, fino al banchetto con Cristo
celebrato nel testo finale, Love III,
che annuncia la buona novella cristiana. Il paragrafo successivo è dedicato, in
particolare, al confronto di due componimenti tramandati per via manoscritta e
dedicati alla comunione eucaristica, H.
Communion (W) e H. Communion (B),
con il testo con lo stesso titolo contenuto nella postuma versione a stampa, e
indicato negli studi herbertiani come H. Communion
(1633). L’analisi diacronica dello sviluppo poetico del tema eucaristico
permette di ricostruire il modo in cui, in parte risentendo delle dispute
teologiche e in parte tentando di prendervi parte con una posizione poetica, Herbert rifletta in modi
diversi su uno dei temi più accesi del suo tempo. L’ultimo paragrafo, infine,
torna sull’incontro-scontro tra il poeta e l’istanza divina, già accennato in
Donne, ma ben più articolato in Herbert, che mette letteralmente in scena una agency poetica costantemente minata da
un’istanza trascendente e onnipotente che decide di ‘farsi presente’ nel testo,
e di prendere la parola per ricordare al poeta che il suo compito, come si
legge in Jordan (I), non è creare, ma limitarsi a copiare ciò che è
già stato scritto nelle Sacre Scritture: «How wide is all this long pretence! |
There is in love a sweetnesse readie penn’d: | Copie out only that, and save
expense» (vv. 16-18).
Infine,
l’ultimo capitolo è dedicato alla poesia di Richard Crashaw, uno dei poeti meno
rivalutati dalla riscoperta primo-novecentesca dei poeti metafisici, perché
accusato di cattivo gusto, perversione, eccentricità ‘straniera’ rispetto ai
canoni della tradizione inglese. In effetti, la poesia di Crashaw presenta
poche delle caratteristiche solitamente attribuite alla poesia metafisica:
l’unica che gli viene riconosciuta è la qualità drammatica, declinata
attraverso un registro impersonale di straordinaria efficacia, mentre la sua imagery appare fortemente influenzata
dal cerimonialismo – riformato, ma vicino alle forme del cattolicesimo –
dell’arcivescovo di Canterbury William Laud. Il primo paragrafo ricostruisce il
modo in cui, nel passaggio da Steps to the
Temple (1646, 1648) al volume postumo Carmen
Deo Nostro (1652), Crashaw riorganizza i materiali della prima raccolta (in
particolare quelli della più ampia seconda edizione del 1648, scritta prima
dell’esilio sul continente, e forse prima della conversione al cattolicesimo),
operando tagli e inserendo integrazioni che gli permettono di costruire un
macrotesto modellato sulla liturgia delle ore abolita dalla Riforma. Il secondo
paragrafo, invece, prende in considerazione i componimenti dedicati a Teresa d’Avila,
per discutere l’ostilità della Riforma nei confronti delle figure della
devozione femminile, e per mostrare i tentativi di Crashaw di conciliare la
tradizione cattolica della ‘femminilizzazione’ di Dio Padre (ricorrente, per
esempio, nell’immagine di Cristo-Pellicano degli emblemi) con un’attenzione
alla parola scritta – in questo caso non le Scritture, ma l’autobiografia della
santa – debitrice dell’ideologia della nuova Word religion. Tale compromesso, in cui converge la persistenza
dell’immaginario cattolico di Donne e la centralità della parola poetica di
Herbert, risulta ancora più evidente nei testi in cui corpo di Cristo è
presentato come corpo ‘scritto’, analizzati nell’ultimo paragrafo. All’enfasi
su elementi sacramentali come il sangue e le lacrime si affianca, infatti, un’imagery legata alla scrittura (le ferite
di Cristo, per esempio, sono red letters)
che testimonia la volontà di Crashaw di rappresentare sia la drammaticità
fisica e carnale del sacrificio eucaristico, sia il potere metamorfico della
parola poetica: non più quello della transustanziazione, contestato dalla
Riforma, ma quello tutto umano della poesia.
Il
cerchio sembrerebbe, dunque, chiudersi con Crashaw, che prova a conciliare
l’enfasi sulla parola scritta della Riforma e la teologia eucaristica
cattolica, ma in realtà il suo compromesso sarà, se non poco efficace, il meno
seguìto dai poeti successivi. Da Donne e Herbert, invece, meno inclini alla
soluzione delle aporie e più rappresentativi di conflitti insolubili, si dipartirà
una delle linee spiraliformi della poesia moderna, quella che sempre più
rappresenterà soggetti che dovranno misurare e negoziare retoricamente la loro posizione nello scontro-incontro con ciò che
li trascende in un contesto di crescente scetticismo religioso[46].
Una linea che investe Emily Dickinson e T.S. Eliot e arriva fino alla
contemporaneità, in figure come Elisabeth Bishop, Seamus Heaney, Paul Maldoon,
e Carol Ann Duffy, solo per citarne alcuni.
Adottando
uno sguardo di lunga durata, l’uso del wit
da parte dei metafisici, che ho analizzato qui nel suo compito più arduo – il
tentativo di ricomporre un mondo lacerato dalla crisi religiosa –, appare come
il primo tentativo di mostrare la fatica linguistica di tenere insieme pezzi
che andranno sempre più alla deriva, fino alla nota heap of broken images della terra desolata eliotiana. Con la crisi
sacramentale e la scomparsa di quello che Shuger chiama «the
sacramental/analogical character of pre-modern thought»[47]
s’indebolisce non solo l’autorevolezza del linguaggio religioso, ma soprattutto
lo statuto di verità di cui era depositario. I salti del wit, la fragilità logica delle associazioni, l’ironia corrosiva
della discordia concors, così come le
forme svuotate e risemantizzate del discorso religioso, raccontano in ultima
istanza gli sforzi con cui si tenta di postulare – nell’altra natura della poesia – verità tutte umane, dalla forma
provvisoria e ambigua, che competono con quelle un tempo garantite dalla
religione e discusse dalla teologia. Verità oscure, stranianti, ma ancora
dicibili grazie alla sola forma capace di dare forma all’esperienza linguistica
della loro sempre più difficile enunciazione.
[1] «Be they heresies, abuses, manipulations, extensions or
extrapolations, different eucaristic utterances were testing the language,
exposing its capacities, filling its spaces and spelling out its possibilities.
Divergent and wide-ranging as these utterances will appear, the Eucharistic
language of religion provided the means and rules for their construction», M.
Rubin, Corpus Christi. The Eucharist in
Late Medieval Culture, Cambridge, Cambridge University Press, [1991], 2004,
p. 45. Per un utile e agile resoconto sull’argomento, rimando a E. Giaccherini, L’‘Ebreo’
nella letteratura inglese medievale, Pisa, Pisa University Press, 2016, in
partic. pp. 79-86.
[2] D. K. Shuger, Habits
of Thought in the English Renaissance, Berkeley, University of California
Press, 1990, p. 6.
[3] Sophie Reid ha
recentemente messo in luce il collegamento tra i trattati di retorica che si
diffondono in questo periodo e l’attenzione dei protestanti alla lettura e
all’interpretazione delle Sacre Scritture. Secondo Reid, non sarebbe un caso se
i primi trattati di retorica scritti in inglese sono delle guide ai tropi della
Bibbia, come The Tropes and Figures of Scriptures
(c. 1537) di Thomas Swynnerton, e
il più diffuso Garden of Eloquence di
Henry Peacham, ministro della chiesa, che illustra i tropi e le figure del
discorso ricorrendo frequentemente a esempi tratti dalle sacre scritture. S. Reid, Eucharist
and the Poetic Imagination in Early Modern England, Cambridge, Cambridge University
Press, 2013, pp. 10-12.
[4] C. J. Sommerville, The Secularization of Early Modern
England: from Religious Culture to Religious Faith, New York, Oxford
University Press, 1992. Suo è anche il termine
‘desacralizzazione’, ivi, p. 5. Sommerville sottoscrive inoltre la tesi,
sostenuta nel 1971 da K. Thomas (Religion
and the Decline of Magic: Studies in Popular Beliefs in Sixteenth and
Seventeenth-Century England, London, Penguin, 1991), secondo la quale
l’impatto del Protestantesimo fu maggiore di quello della scienza (Sommerville,
op. cit., p. 50).
[5] Cfr. R. Targoff, «The Performance of Prayer:
Sincerity and Theatricality in Early Modern England», Representations 60 (1997), pp. 49-69; si veda anche della stessa
autrice Common Prayer: The Language of
Public Devotion in Early Modern England, Chicago, University of Chicago
Press, 2001.
[6] M. M. Ross, Poetry
and Dogma: The Transfiguration of Eucharistic Symbols in Seventeenth-Century
English Poetry, New
Brunswick, Rutgers University Press, 1954, p. 50.
[7] Marco 14, 22-6; Matteo 26, 26-30; Luca 22, 19; 1 Corinzi,
11, 23-5.
[8] J. Donne, «An Anatomie of the World» (vv. 205-10), in The Complete
Poetry and Selected Prose, ed. by C. M.
Coffin, New York, The Modern Library, 2001, pp. 198-9. «E la nuova filosofia mette tutto in dubbio, | l’Elemento del fuoco è
affatto estinto; | il Sole è perso, e la terra, e nessun ingegno umano | può
indicare all’uomo dove cercarlo. | E apertamente gli uomini confessano che
questo mondo | è estinto, quando nei pianeti, e nel firmamento, | ne cercano
tanti nuovi; vedono che questo | si è sgretolato tornando ai suoi atomi. | È
tutto in pezzi, scomparsa ogni coesione, ogni giusto sostegno e ogni relazione:»J. Donne, Poesie, a cura di A. Serpieri e S.
Bigliazzi, Rizzoli, Milano 2008, pp. 1023, 1025. Tutte le traduzioni dei testi
di Donne sono tratte da questo volume, cui si farà riferimento d’ora in poi
indicando solo il numero di pagina.
[9] Mi
riferisco a The Poetry of Meditation (1954)
di Louis L. Martz e Protestant Poetics
and the Seventeenth-century Religious Lyric (1979) di B. Lewalski. Sui
pregiudizi religiosi che hanno influenzato la ricezione critica dei poeti
metasifici, specie nei cosiddetti Oxford Studies, rimando al mio «Humpty
Dumpty, la critica novecentesca e la poesia metafisica», Between 10 (2015), pp. 1-16.
[10] T. M. DiPasquale, Literature and Sacrament: the Sacred and the
Secular in John Donne, Pittsburgh, Duquesne University Press, 1999, p. 1.
[11] DiPasquale nel suo volume discute in particolare le
divergenze dal volume di T. Docherty, John
Donne, Undone (1986), e di J. Baumlin, John
Donne and the Rhetoric of Renaissance Discourse (1991) che offrono
rispettivamente l’uno una lettura postmoderna, l’altro una lettura
post-strutturalista della poesia di Donne. Di impostazione decostruzionista è
anche il contributo di R. V. Young, Doctrine
and Devotion in 17th-Century Poetry: Studies in Donne, Herbert,
Crashaw and Vaughan, Woodbridge, D. S. Brewer, 2000.
[12] S. Greenblatt e C. Gallagher
dedicano all’eucaristia i capitoli «The Wound in the Wall» e «The Mousetrap»
del loro Practicing New Historicism,
Chicago, University of Chicago Press, 2000, pp. 75-109; 136-62. Scrivono i due
autori: «Poetry, in this account, is not the path to a transhistorical truth,
whether psychoanalytic or deconstructive or purely formal, but the key to
particularly historically embedded social and psychological formations» (ivi,
p. 7). Sullo stesso argomento si veda anche D. Aers, «New Historicism and Eucharist», Journal of Medieval and Early Modern Studies 33 (2003), n. 2, pp.
241-59.
[13] Dei tanti contributi esistenti sull’argomento, si
segnala il numero speciale di English
Language Notes dal titolo «Literary
History and the Religious Turn», 44 (2006), n. 1 (Spring), ed. by B.
Holsinger; il seminario presentato alla Conferenza della Modern Language
Association del 2007, a cura della Conference on Christianity and
Literature, On Christian Scholarship and the Turn to
Religion in Literary Studies e il più recente:
K. Jackson and A. Marotti, «The Turn to Religion in Early Modern English
Studies», Criticism 46 (2012), pp.
167-90.
[14] T. Rosendale, Liturgy
and Literature in the Making of Protestant England, Cambridge, Cambridge
University Press, 2007, p. 13. Anche secondo Shuger, la reazione
della critica early modern precedente
contro i pregiudizi teologici aveva eclissato le implicazioni religiose dei
testi a vantaggio di una lettura esclusivamente politica di quelle
implicazioni, come nel caso di Fredric Jameson che nella sua lettura del Paradise Lost assume la religione come
«the master-code of pre-capitalistic society» (F. Jameson, «Religion and
Ideology: A Political Reading of Paradise
Lost», in Literature, Politics, and
Theory: Papers from the Essex Conference 1976-84, ed. by F. Barker et al., London,
Routledge, 2003, p. 39). Conseguenza
di questa «almost total neglect of society’s religious aspetcs in favor of
political ones», sarebbe stato, secondo Shuger, «a curiously distorted picture
of the period», Shuger, op. cit., p.
5.
[15] E. J. McNees, Eucharistic
Poetry. The Search for Presence in the Writings of John Donne, George Manley
Hopkins, Dylan Thomas and Geoffrey Hill, Lewisburg, Bucknell University
Press, 1992. Interessante anche la sua interpretazione del processo di disincarnation nel linguaggio poetico,
ivi, p. 25.
[16] D. Burnham, «The Riddle of
Transubstantiation», in The Poetics of
Transubstantiation. From Theology to Metaphor, ed. by D. Burnham and E. Giaccherini, Aldershot, Ashgate, 2005, p. 1. Burnham offre un importante contributo
sulla storia dell’eucaristia, dalle nuove origini greche (l’omophagia) ai dibattiti della tradizione
filosofiche europea. Più in generale, il volume da lui curato con Enrico
Giaccherini ospita contributi che usano la transustanziazione cattolica come
metafora o metonimia di un ampio spettro di temi e procedimenti come la
traduzione, la transizione, la transessualità, la riscrittura, e la metamorfosi
– intesa anche come magia e alchimia –, o ancora come
metafora della creazione artistica (ivi, p. 53). Il volume ha inoltre il merito
di proporre un percorso diacronico da Descartes a Erri De Luca, passando per
Shakespeare, Donne, Conrad, Eliot, Joyce, e altri.
[17] P.
Sidney, An Apology for Poetry or A
Defense of Poesy (1595), in G. Alexander (ed.), Sidney’s
‘The Defense of Poesy’ and Selected Renaissance Literary Criticism, London,
Penguin, 2004, p. 9.
[18] Ibid.
[19] Ivi, p. 289.
[20] Ivi, p. 290.
[21] «And therefore it was ever thought to have some participation of
divineness, because it doth raise and erect the mind by submitting the shows of
things to the desires of the mind, where reason doth buckle and bow the mind
unto the nature of things», ibid.
[22] Ivi, p. 10.
[23] «Since our erected wit maketh us know what perfection
is, and yet our infected wit keepeth us from reaching unto it», ibid.
[24] Ivi, p. 13.
[25] Ivi, p. 10.
[26] Rosendale, op. cit., p. 145.
[27] Su
questo, fondamentale è il contributo di F. Orlando in Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1982,
pp. 65-127. La tesi avanzata da Orlando – in polemica con quanto sostenuto da Michel
Foucault in Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane (1966) – è che «la letteratura possa
alimentarsi di residui ideologici invecchiati non benché, ma perché essi
sono tali» (Orlando, op. cit., p.
73). In questo senso è possibile leggere, alla luce della sua teoria freudiana
della letteratura, quelle che ho chiamato ‘strategie di compensazione’ dei
poeti metafisici come una formazione di compromesso che registra il ritorno,
sotto apparenze poetiche, della teologia cattolica repressa dalla Riforma.
[28] «He affects the metaphysics not only
in his satires, but in his amorous verses, where nature only should reign; and
perplexes the mind of fair sex with nice speculations of philosophy, when he
should engage their hearts, and entertain them with the softness of love» (Dryden, «A Discourse Concerning the
Original and Progress of Satire», 1693,
cit. in A. J. Smith, John Donne: Essays in Celebration,
London, Methuen, 1972, p. 3).
[29] S. Johnson, Lives of the Poets (1779-1781), ed. by A. Napier, London, George
Bell and Sons, 1890, p. 23.
[30] Ivi, pp. 24-5.
[31] «Their attempts
were always analytic; they broke every image into fragments; and could no more
represent, by their slender conceits and laboured particularities, the prospect
of nature, or the scene of life, than he, who dissects a sun-beam with a prism,
can exhibit the wide effulgence of a summer noon», ivi, p. 144. Johnson fa
questa riflessione nel saggio dedicato a Abraham Cowley, ma è chiaro che
l’oggetto del suo discorso sono tutti I poeti metafisici
[32] J. Culler, Theory of the Lyric, Cambridge,
Harvard University Press, 2015.
[33] Johnson, op. cit., p. 144.
[34] W. Ong, «Wit and Mystery: A
Revaluation in Mediaeval Latin Hymnody», Speculum
22 (1947), n. 3 (July), pp. 310-41:12. Aggiunge Ong: «Puns are used, as the
English metaphysicals and others were later to use them, for serious effects –
that is, puns are used to another purpose than that of giving a prima facie startling appearance to
essentially drab fact. Puns are used where semantic coincidence penetrates to
startling relations in the real order of things» (ivi, p. 315).
[35] Ivi,
p. 339.
[36] Anche Judith Dundas attribuisce al wit la funzione ‘religiosa’ di essere una «net in which to catch
sinners, making the poets fisher of men», ovvero un espediente in cui scopo è
‘impigliare’ nelle maglie di immagini concettose e di una sintassi serpentina
l’animo dei lettori. J. Dundas, «All Things are Bigge with Jest. Wit as a
Means of Grace», in New Perspectives in
the Seventeenth-Century, ed. by J. R. Roberts, Columbia, University of
Missouri Press, 1994, p. 126.
[37]
Questo discorso appare rilevante in particolare nel contesto inglese perché influenzato
dall’ostilità puritana nei confronti della poesia, delle arti e della finzione
in generale, mentre nella tradizione europea la relazione tra ‘poesia’ e
‘teologia’ era stata non solo ricorrente ma anche ampiamente argomentata, fra
gli altri, da Boccaccio in questo passo: «Dico che la teologia e la poesia
quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico
più: che la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio. […] Dunque bene
appare, non solamente la poesia essere teologia, ma ancora la teologia essere
poesia. E certo, se le mie parole meritano poca fede in sì gran cosa, io non me
ne turberò; ma credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio ad ogni gran cosa,
il quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi teologizzanti»,
G. Boccaccio, Trattatello in laude di
Dante, Milano, Garzanti, 1995, par. 154, p. 57.
[38] P. Ricoeur, «The Specificity of Religious Language», Semeia. Sperimental Journal for Biblical
Criticism 4 (1975), pp. 107-8.
[39] P. Ricoeur, «The Logic of Jesus, the
Logic of God», Anglican Theological
Review 62 (1980), pp. 37-41.
[40] R. Whalen, Poetry of Immanence: Sacrament in Donne and Herbert, Toronto,
Toronto University Press, 2002, p. xviii.
[41] Su questo Young si esprime con una formula molto
efficace: «What emerges is a view of poetry striving to capture in the spell of
verbal form a sense of the mystery that was rapidly being banished from the
world» (Young, Doctrine and Devotion,
cit., p. 2).
[42] R. M. Schwartz, Sacramental
Poetics at the Dawn of Secularism. When God Left the World, Stanford,
Stanford University Press, 2008. Allo stesso filone appartiene anche M.
Woodward, «Ben Jonson’s Sacramental Poetics. Manners as Mystery in his Poetry
and Drama», Ben Jonson Journal 22 (2015), n. 1 (May), pp. 41-61. Sui rapporti tra sacramento e letteratura in Italia, vale
inoltre la pena di segnalare lo studio sulla confessione di R. Camerlingo, Crimini e peccati. La confessione al tempo di Amleto, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 2014.
[43] Per una lettura
della triangolazione tra il poeta, Dio e la creazione alla luce della teoria
mimetica del desiderio di René Girard, che non approfondisco qui, rimando al
mio «Triangolazioni religiose del
desiderio in Donne e Herbert», Between
3 (2013), pp. 1-20.
[44] «It
should be possible to analyse remarks about the “nature of ‘God’” like remarks
about the “nature of ‘Reason’”, in their sheer formality as observations about
the nature of language. And such correspondence between the theological and
‘logological’ real should be there, whether or not ‘God’ actually exists», K.
Burke, The Rhetoric of Religion. Studies
in Logology, Boston, Beacon Press, 1961, pp. 1-2. Ciò vale anche
all’inverso: «what we say about words, in the empirical realm, will
bear a notable likeness to what we say about God, in theology», ivi, pp. 13-14.
[45] V. Pitt, «The Luck of the English», in Jacobean Poetry and Prose: Rhetoric,
Representation and the Popular Imagination, ed. by C. Bloom, London,
Macmillan, 1988, pp. 44-56:56. Il Book of
Common Prayer (1549) di Thomas Cranmer, così come le traduzioni della
Bibbia da Wycliffe e Tyndale fino all’Authorized
Version (1611) patrocinata da Giacomo I, contribuirono a un generale
processo di Englishing of theology,
che comportò tra le altre cose un significativo arricchimento del lessico
inglese di ambito religioso.
[46] Cfr. S. Bigliazzi (ed.), Early Modern Scepticism and the Culture of
Paradox, numero speciale di English
Literature 1 (2014), n. 1, e il mio saggio ivi contenuto: «The Logic of
Excess Religious Paradox and Poetical Truth in Donne’s Love Poetry», pp.
101-16.
[47] Shuger, op.
cit., p. 11. Nel pensiero sacramentale-analogico dell’età premoderna, come
ben riassume Shuger, «nothing is simply itself, but things are signs of other
things and one thing may be inside another, as Christ is in the heart, or turn into something else, as the substance of the
eucharistic bread turns into the body of Christ» (ibid.).
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