martedì 12 giugno 2018

Origami: Treviso Ricerca Arte ospita la presentazione del libro "Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste"



Martedì 3/07, ore 20:45
ORIGAMI. ALTRI USI DELLA CARTA
"Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste"
con Franco Baldasso (Bard College, New York), Francesco Bortolotto, Eleonora Fuochi e Federica Parodi (Università di Bologna)
Presenta Alberto Cellotto

TRA – Treviso Ricerca Arte
Ca' dei Ricchi
via Barberia, 25
Treviso



“Origami. Altri usi della carta” è il nuovo format ideato da Alberto Cellotto per TRA Treviso Ricerca Arte per veicolare la presentazione di un libro: 60 minuti, suddivisi in 4 diversi momenti, per far parlare le pieghe del libro e del suo autore e per evitare di parlar loro addosso. Il nome della rassegna evoca l’atto del piegare un foglio di carta per ottenere una figura singolare, spesso sorprendente. Rinvia a un’arte e a un passatempo curioso ancora diffuso nel contemporaneo e la carta, protagonista nelle pieghe dell’origami, è un supporto tra gli altri ancora disponibili attraverso il quale veicolare idee, discussioni, polemiche.


Il volume “Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste” (Pendragon, 2018) nasce dall’esperienza dell’omonimo laboratorio didattico organizzato da alcuni studenti dell’Università di Bologna all’interno del dipartimento di Italianistica. La scelta di periodizzare uno sguardo sulla letteratura italiana dal Novecento a oggi seguendo l’evoluzione delle riviste letterarie e culturali è dettata dall’interesse nei confronti dello strumento rivista, dinamico e onnipresente, che può fungere da ottima chiave di lettura di un arco temporale quanto mai problematico per la letteratura. Punto di forza della ricerca, oltre al tentativo di proporre alcune delle più importanti questioni letterarie della contemporaneità sotto una nuova luce, è l’eterogeneità dei contributi, che rende il volume polifonico, coinvolgendo accademici, poeti, operatori editoriali e gli stessi studenti. Tale carattere permette altresì di non appiattire la trattazione su una mera storia delle riviste letterarie, ma strutturare un discorso – senza alcuna pretesa di completezza – ricco di spunti e approfondimenti, da affiancare alla materia viva della letteratura contemporanea e al contatto con le riviste. Non un manuale, dunque, ma un supporto che possa tanto supportare lo studioso, quanto accompagnare un primo approccio alla trattazione delle riviste letterarie.

Link appuntamento: http://www.trevisoricercaarte.org/rassegne/origami-altri-usi-della-carta-2/

Ingresso riservato ai soci TRA o su offerta responsabile.

Si ricorda che il primo appuntamento con la rassegna "Origami. Altri usi della carta" sarà martedì 26 giugno sempre alle 20:45 con Maria Anna Mariani e il libro Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exorma). 
Link appuntamento: http://www.trevisoricercaarte.org/rassegne/origami-altri-usi-della-carta/


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domenica 10 giugno 2018

Oltre la letteratura, conversazioni con Susan Sontag: "La mia vita è la mia capitale, la capitale della mia immaginazione. Mi piace colonizzare."

Chissà se era vero che Susan Sontag non leggeva mai le recensioni ai propri libri, nemmeno quando erano totalmente favorevoli, e se se le faceva raccontare dagli amici in termini di "like". Dobbiamo crederle, del resto, anche perché detestava le recensioni. È uno dei tanti aspetti di cui si può fare conoscenza leggendo questo libro di piccolissimo formato pubblicato da Medusa Edizioni e intitolato Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontag (pp. 116, euro 13, cura e traduzione di Luana Salvarani). Il volume raccoglie quattro conversazioni-interviste rilasciate dalla scrittrice a Geoffrey Movius, Eileen Manion e Sherry Simon, Edward Hirsh e Tom Robotham per testate come "Boston Review", "The Paris Review" o "Port Folio Weekly". Editorialmente parlando, per l'Italia, si tratta di un volume di passaggio, in un frangente storico in cui, a ben vedere, si fatica non poco a trovare le traduzioni italiane dei suoi libri, per la maggior parte non disponibili e fuori catalogo. Di recente, e sempre inquadrabile nell'ottica dell'intervista, c'è da ricordare il volume pubblicato da Il Saggiatore Odio sentirmi una vittima, l'intervista di Jonathan Cott su "amore, dolore e scrittura". E non è un caso che con Sontag torni costante l'attenzione primaria alla scrittura, perché al di là di tutto quello che si può dire e accentuare della sua figura, stiamo parlando di una scrittrice piena, che confessa di aver imparato molto sulla punteggiatura e la velocità da Donald Barthelme, mentre su aggettivi e ritmi della frase riconosce un debito grande a Elizabeth Hardwick (di cui il lettore italiano cercherà invano qualcosa di tradotto).


Le quattro conversazioni qui radunate affrontano temi ricorrenti, che hanno come legante la scrittura, ma spaziano dalla guerra al femminismo, dalla realtà accademica alla necessità della scrittura fuori da questa, da considerazioni generali su fiction e non-fiction a aspetti molto concreti dell'atto di scrittura (Sontag sostanzialmente ha evitato il word processor a lungo). Apprendiamo ad esempio, a seguito delle insistenti domande degli intervistatori, che per lei "intellettuale" è quasi esclusivamente un aggettivo e non un sostantivo. Capiamo che, a dispetto dell'immagine che in Italia abbiamo di lei, si vedeva come una scrittrice di fiction e non tanto di saggi. Puntella continuamente le risposte con considerazioni che diventano importanti per ripercorre tutta la sua opera e il senso dello scrivere, come quando ad esempio dichiara "La mia vita è la mia capitale, la capitale della mia immaginazione. Mi piace colonizzare" oppure quando ricorda "non scrivo perché c'è un pubblico. Scrivo perché c'è la letteratura". E così, tra dichiarazioni d'amore per certi autori e opere, ricordi di viaggi o ritorni frequenti al suo saggio più noto Sulla fotografia, c'è spazio per qualche divagazione temporale e spaziale, come quella sulla letteratura russa del Diciannovesimo secolo, nel momento in cui Edward Hirsh le chiede se l'obiettivo della letteratura è educarci alla vita:
Sì, ci educa alla vita. Non sarei la persona che sono, non capirei ciò che capisco, se non fosse per certi libri. Sto pensando alla grande questione della letteratura russa del Diciannovesimo secolo: come si dovrebbe vivere? Un romanzo che valga la pena di leggere è un'educazione del cuore. Esso amplia il nostro senso di possibilità umana, di ciò che è la natura umana, di ciò che accade nel mondo. È un creatore di introspezione.
E su questa riflessione, anche molto controversa (fossi stato l'intervistatore le avrei chiesto di approfondire il concetto di "natura umana", che non mi pare così semplice e dato una volta per tutte) chiudiamo con un invito ad avvicinare questo breve libro, in attesa che l'opera di Susan Sontag torni ad avere anche in Italia una maggiore agilità di frequentazione. Non ci si spiega infatti la portata e l'onda lunga della sua riflessione, sin dalle sue Notes On "Camp" del 1964, se confrontata con la pochezza di quanto disponibile oggi in libreria.

giovedì 7 giugno 2018

"Lettere al duca di Valentinois" di Marcel Proust

Chi ha sfogliato e letto qualcosa dall'epistolario di Marcel Proust - per intendersi: un insieme di lettere che in Francia Philip Kolb ha curato in ben ventuno volumi usciti tra il 1970 e il 1993 - sa che l'autore della Recherche spesso non anteponeva la data alle proprie lettere. Questo dato ha l'aria di essere rilevante per chi si affaccia su una corrispondenza sterminata che nel nostro paese, ad eccezione del Meridiano antologico curato da Gian Carlo Buzzi nel 1997 intitolato Le lettere e i giorni, si è soliti proporre e leggere a spizzichi e bocconi. L'assenza di data sembra quasi una spia del modo in cui Proust governava il flusso delle comunicazioni epistolari, non uno spregio del tempo, delle sue suddivisioni oppure una distrazione, ma un intralcio al teatro di marionette e ombre lunghe che affollava l'universo delle sue lettere. Tale montagna di lettere, che non va certo anteposta alle opere per cui ricordiamo Proust, si è via via imposta come un regesto fervido e fecondo per la scrittura delle cosiddette opere maggiori e di Contro Sainte-Beuve, essenziale scritto contenente preziose distinzioni puntualmente disattese su "io che scrive" e "opera".

Il criterio editoriale della frammentazione delle lettere secondo un destinatario ritorna anche nel caso del libro di oggi e tutto sommato si rende necessario per un epistolario talmente vasto, non soltanto per ragioni pratiche o editoriali-commerciali. Va detto poi che il libro in questione è reso possibile grazie all'apertura recente degli archivi monegaschi da parte del principe Alberto II. In Lettere al duca di Valentinois (Archinto, pp. 88, euro 18, a cura e con note di Jean-Marc Quaranta, prefazione di Jean-Yves Tadié, traduzione di Francesco Bergamasco) sono radunate quattro missive e un telegramma sinora inediti conservati a lungo negli archivi del Principato. Le ricostruzioni ci dicono che siamo tra l'estate e l'autunno 1920. Proust ha quindi 49 anni (morirà di lì a poco, nel novembre del 1922) e si rivolge al giovane Pierre de Polignac, futuro padre di Ranieri III di Monaco, che nel marzo di quell'anno aveva sposato la principessa Charlotte de Monaco, acquisendo il titolo di duca di Valentinois.

Ora un passo indietro: nel 1919 era uscito per Gallimard À l'ombre des jeunes filles en fleurs e nello stesso anno Proust aveva ricevuto il prix Goncourt. È in tale scia che si colloca questa nuova costola del suo epistolario uscita dagli archivi dinastici del Principato. In una delle lettere qui proposte Proust propone al principe la sottoscrizione a un'edizione lussuosissima di All'ombra delle fanciulle in fiore, ignorata dal duca e causa della rottura tra i due. Insomma, questa manciata di lettere è la storia di una rottura e di una sparizione che ferì lo scrittore. Da qui si passa spesso a citare la nemesi proustiana cucita sui panni nel personaggio del conte di Nassau, che per molti interpreti evoca il duca. Eppure sappiamo proprio da Proust (e anche con Raboni, il suo importante traghettatore italiano) oppure anche dalle Lettere alle amiche di Céline (Adelphi, 2016) quanto inutile, piccino e inconcludente sia l'esercizio di trovare analogie tra personaggi di un'opera e personaggi reali che compaiono nella biografia o in un epistolario (Céline ad esempio se la prendeva con la madre e i suoi commenti all'uscita di un nuovo libro). Proust si mostra prodigo di consigli letterari per il duca, persona reputata di grande sensibilità artistica, ma alla fine questo sparuto gruppo di lettere altro non è che la storia di un'interruzione di una relazione che era iniziata durante la guerra, nel 1917, quando il conte era però in partenza per la Cina per una missione diplomatica. Si lascia a chi leggerà questo breve libro la possibilità di fare ipotesi su questo taglio, la possibilità di leggere anche le ipotesi che compaiono nella lunga postfazione, che sono ricondotte a una incompatibilità tra queste due creature e alle sollecitazioni pressanti e sgradevoli di Proust. Eppure questa interruzione che sappiamo essere voluta dal duca ha quasi il sapore di un gesto che si fa per preservare qualcosa che c'è stato, per proteggerlo almeno finché si è in vita.

mercoledì 6 giugno 2018

Origami: Treviso Ricerca Arte ospita Maria Anna Mariani e il libro "Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche"



Martedì 26/06, ore 20:45
ORIGAMI. ALTRI USI DELLA CARTA
"Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche" 
di Maria Anna Mariani
Presenta Alberto Cellotto

TRA – Treviso Ricerca Arte
Ca' dei Ricchi
via Barberia, 25
Treviso


"Origami. Altri usi della carta” è il nuovo format ideato da Alberto Cellotto per TRA Treviso Ricerca Arte per veicolare la presentazione di un libro: 60 minuti, suddivisi in 4 diversi momenti, per far parlare le pieghe del libro e del suo autore e per evitare di parlar loro addosso. 
Il nome della rassegna evoca l’atto del piegare un foglio di carta per ottenere una figura singolare, spesso sorprendente. Rinvia a un’arte e a un passatempo curioso ancora diffuso nel contemporaneo e la carta, protagonista nelle pieghe dell’origami, è un supporto tra gli altri ancora disponibili attraverso il quale veicolare idee, discussioni, polemiche. 

Il primo appuntamento della rassegna è con "Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche" di Maria Anna Mariani (Exorma, 2017), un singolare resoconto di più di quattro anni vissuti in un luogo che, al momento della partenza dall'Italia, l'autrice a malapena collocava nel mappamondo. Maria Anna Mariani infatti, terminato il dottorato a Siena, ha deciso di partire perché in Corea del Sud c'era a tutti gli effetti un lavoro per lei. E le pagine di questo diario atipico si caratterizzano a poco a poco per una nota dolente e divertente al contempo, collocandosi tra il reportage brillante e la cocente confessione relativa a quella cornice di tempo, prima dell'approdo a Chicago, dove attualmente l'autrice vive e lavora.



Il libro è un susseguirsi di brevi e smaglianti capitoli datati, proprio come un diario, che ci parlano ogni volta di qualcosa di nuovo: dell'impatto con la nazione, dell'inganno e della reificazione della vita nel dormitorio "surrogato del globo", della solitudine, delle lezioni con gli studenti, dei diversi paesaggi che sporgono da un finestrino o sotto un piede, della vicinanza con la Corea del Nord, di tabù, di incontri più o meno aforistici e di affondi introspettivi senza sconti. E c’è qualcosa di nuovo quasi a ogni capitolo, in una variazione continua di temi e toni. Eppure tutto è legato con un unico nastro e assomiglia a una strana corrispondenza, una condivisione che pare lontanissima da quella istantanea tipica dei social e delle chat con le loro esche a buon mercato. Potremmo quindi ipotizzare che "Dalla Corea del Sud" sia una sorta di strano libro epistolare diventato reportage, diario e testimonianza, nel quale non emergono destinatari delle singole lettere-paragrafi. Assai di rado capita di leggere pagine così affilate e riflettenti in uno scritto che si può ricondurre ai territori dell'autobiografia contemporanea. 

Qui la recensione apparsa su "Librobreve".

Ingresso riservato ai Soci TRA o su offerta responsabile.
(Maggiori info)

Il secondo appuntamento con la rassegna "Origami" sarà martedì 3 luglio sempre alle 20:45. Altre informazioni qui.


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domenica 3 giugno 2018

L'eroe da romanzo. Da Goya e Barrès ad Aragon e Céline. Una selezione di testi critici di Pierre Drieu La Rochelle

È stata una buona idea quella di Mimesis di raggruppare in un piccolo libro della collana "A lume spento" alcuni scritti critici di Pierre Drieu La Rochelle. Si intitola L'eroe da romanzo. Da Goya a Barrès ad Aragon e Céline (pp. 100, euro 8) questa selezione curata e tradotta da Marco Settimini e scorrerla è un tuffo nelle riviste che hanno fatto il dibattito degli anni Trenta del Novecento francese: testate come "Je Suis Partout", "Nouvelle Revue Française", "La Flèche" già riecheggiano e intersecano alcune problematiche che già abbiamo discusso su queste pagine, come quella degli scrittori della "tentazione fascista" (la categoria è di Tarmo Kunnas, che radunava in uno studio tuttora ineguagliato i casi di Pound, Hamsun, Céline, Brasillach e appunto La Rochelle), i conti con l'eredità e il tribunale della storia, le vigliaccherie della critica, i malfunzionamenti o le storture del modo in cui leggiamo e delle sovrastrutture che ci abitano quando affrontiamo il lascito di taluni autori. La Rochelle, oltre a essere stato un grande un grande scrittore, fu anche un critico capace di intervenire efficacemente su alcuni nodi importanti del dibattito culturale e questo piccolo volume ne dà finalmente un utile spaccato.

I brevi contributi di questo libro incominciano con due interventi su Barrès, proseguono con uno scritto accorato dedicato al genio di un Goya che se la ride nella sua solitudine sempre più rimbombante, con la sua satira, con il suo non essere cristiano ("gli spagnoli non sono mai stati cristiani" ha detto una volta Ortega y Gasset proprio a La Rochelle in quanto partecipano a una "religione più primitiva"). Il piccolo volume non contiene solo estratti da rivista, ma è intervallato da alcuni frammenti del diario dello scrittore, di cui il più interessante e sorprendente pare quello dedicato alla pièce filosofica A porte chiuse di Jean-Paul Sartre. Nella libertà del diario La Rochelle scrive che la cosa "diventa noiosa come un romanzo poliziesco nel quale la mediocrità dell'autore trasuda a ogni pagina". Seguono gli apprezzamenti su Nietzsche e Hemingway, con la proposta della sua prefazione all'edizione Gallimard del 1931 di L'Adieu aux armes. Il brano che presta il titolo al libro, L'eroe da romanzo, parla dell'espediente tramite il quale, un romanziere ormai non più giovane, dedica un'opera a un eroe giovane e in questa
mette in scena le parti ancora vive di se stesso assieme a quelle che sono morte. È quel luogo meraviglioso in cui confluiscono l'osservazione e la creazione, la memoria e il sogno, il realismo e l'idealismo, il rimpianto e la speranza, l'illusione e la visione a freddo. Soltanto la giovinezza in cui regna senza contesto tutto il possibile può accogliere così tanti incontri. 
Di particolare interesse sono gli scritti su Chesterton, Benjamin Constant e Henry de Montherlant. Si passa dunque a un doveroso contributo a Céline, che "ha avuto la stessa sorte della verità", a due scritti importanti dedicati al surrealismo e allo scritto conclusivo, intitolato "La poesia al di sopra di tutto", che mi è parso l'unico anello debole, o semplicemente meno interessante, di questa preziosa crestomazia.

martedì 29 maggio 2018

"Una donna" di Annie Ernaux: un'ombra larga e bianca sopra di me

C'è un contrasto forte tra il titolo indeterminativo Una donna, pronto ad accogliere proiezioni e traslazioni, e la conoscenza che il lettore farà della protagonista di questo brevissimo libro di Annie Ernaux, l'ultimo proposto in ordine di tempo da L'orma, editore italiano che si è incaricato delle traduzioni di questa fortunata scrittrice francese (pp. 112, euro 13, traduzione di Lorenzo Flabbi). La protagonista è infatti la madre di chi scrive, evocata con una scrittura che trova il proprio incipit qualche giorno dopo la morte e affonda il proprio cominciamento in una telefonata di un infermiere di una casa di riposo di Pontoise, Île-de-France, che comunica il decesso avvenuto la mattina di un 7 aprile, lunedì. Tempo fa, scrivendo de Il posto, altro suo breve libro, mi interrogavo, anche con qualche perplessità, sulle ragioni del successo di questa scrittrice. Voglio dire, ad esempio, che se leggo Ernaux mi pare di fare un percorso simile a quello che Luigi Tenco, nell'orbita della canzone italiana, ha fatto tanti decenni fa. Non mi pare un'esagerazione questa. Chiaro, quella era canzone, questa di Ernaux è scrittura. Ora comprendo che non ha molto senso soffermarsi su questi aspetti o rinverdire questioni da manuale scolastico, come quella del "best seller di qualità", anche se i legacci che uniscono godibilità e qualità non possono non starci a cuore. Annie Ernaux ha mostrato, e non solo con questo libro, di coinvolgere i lettori con una prosa che puntella il proprio voler esserci tra l'auto-bio-grafia, la letteratura, la sociologia e persino un'analisi socio-economica sui generis. Nei suoi libri si rilegge la storia di quasi un secolo attraverso una scrittura lenticolare che ritorna spesso sulla storia di una famiglia. È qui che continuamente Ernaux saccheggia il proprio immaginario per la parola, salvo poi confessare, proprio in questo corto libro, di voler insultare le persone che le chiedono notizie sul suo prossimo libro.

Chi legge Una donna fa la conoscenza di più parti della Francia, dalla Normandia con le sue fabbriche di inizio Novecento all'hinterland della capitale, segue la storia di questa donna nata nel 1906 attraverso più decadi, con particolare indugio nella vita di commerciante, consumata nella classica configurazione casa-bottega che abbiamo conosciuto anche qui. Si giunge, in mezzo a una miriade di descrizioni, a un primo incidente stradale grave in età avanzata e poi all'Alzheimer. La madre è al centro della scrittura, ma anche Ernaux è al centro di una scrittura che sospinge e ritira come la marea, con lievi ellissi, corpose analessi o fugaci prolessi. Curioso è che quando deve ricorre al discorso diretto Annie Ernaux elida verbi come "disse", "esclamò" o "urlò", dando solo una minima coordinata di quel frammento di voce che si incastra improvvisamente nel tessuto del memoir. Raramente si concede aperture che fuoriescono dal materialismo dell'analisi, come ad esempio potrebbero essere quelle che sconfinano nei mondi del sogno. Un esempio è questo, e capita verso la fine:
Nei dieci mesi in cui ho scritto l'ho sognata quasi ogni notte. Una volta ero sdraiata sull'acqua, in mezzo a un fiume. Dal mio ventre, dal mio sesso di nuovo liscio come quello di una bambina, si dipanavano piante in filamenti che galleggiavano, molli. Non era soltanto il mio, di sesso, era anche quello di mia madre.
Ad un certo punto pare sia l'autrice stessa a voler offrire un'imbeccata per interpretare quanto ha scritto nei dieci mesi, ammettendo di aver scordato nel percorso della scrittura alcuni dettagli delle prime parti del testo, scritte dopo quella telefonata, il funerale e la sepoltura:
Questa non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia. Era necessario che mia madre, nata tra i dominanti di un ambiente dal quale è voluta uscire, diventasse storia perché mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata.
Ernaux scrive che non vorrebbe sapere più niente sulla madre dopo la sua morte, niente oltre quello che sapeva quand'era viva, insomma vorrebbe congelare la conoscenza a quando c'è stata compresenza nel mondo. L'immagine materna sgattaiola allora come "un'ombra larga e bianca sopra di me". E questo libro, che a un certo punto viene considerato "un lusso" poter scrivere avendo il tempo e i mezzi dopo la perdita della madre, si apre sotto un'epigrafe da Hegel che vale la pena riportare in chiusura: C'è chi dice che la contraddizione non si può pensare: ma essa nel dolore del vivente è piuttosto una esistenza reale.

sabato 26 maggio 2018

"L'esercizio del distacco" di Mary Barbara Tolusso nella lettura di Matteo Giancotti

Questa recensione di Matteo Giancotti a L'esercizio del distacco di Mary Barbara Tolusso (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 14) è apparsa la scorsa settimana su "La Lettura" del "Corriere della sera". 

Giovedì 31 maggio alle ore 18:30 alla Libreria Moderna Udinese si terrà una presentazione del libro nella quale Lorenzo Marchiori dialogherà con l'autrice.


Al centro del racconto di Mary Barbara Tolusso, L’esercizio del distacco, c’è un messaggio che riceve forza non solo dal contenuto ma anche dalla sua variata e insistita ripetizione. Questo procedimento, più lirico che narrativo, è reso efficace dalla competenza che l’autrice ha maturato nella contaminazione dei generi: quando scrive poesie, accenna profili e situazioni narrative; quando scrive prosa, rallenta o blocca la progressione del racconto con la continua variazione lirica di pochi motivi ben definiti. Indubbiamente Mary B. Tolusso sa farsi leggere, nell’uno e nell’altro versante della sua scrittura: in poesia agganciando temi quasi glamour, in prosa costruendo – più che una lingua – un ritmo dalla fisionomia precisa, che dopo alcune pagine diviene identificabile, penetrante, e prende per mano il lettore. E’ un «sound» moderno ed elegante, che non ha nulla di particolarmente ricercato, se non le sue sprezzature: «Eravamo una generazione di raffinati prigionieri in fila per la doccia o per la mensa, con molte regole e molto futuro».

Così la voce narrante di questo racconto definisce il «noi» che ne è protagonista: un gruppo di ragazzi che subiscono con dolce passività un internamento educativo in un collegio eccellente, dove imparano a diventare padroni del proprio destino, già segnato dall’importanza o dalla supponenza dei nomi e cognomi: «Dionisio Malaspina, Rebecca von Habsburg, Gabriele della Torre, nomi di angeli, di dei, nomi sacri». In questa comunità che traghetta verso il nuovo millennio un’élite selezionata con criteri «ancien régime» (quale miglior sede, per il collegio, delle alture che circondano Trieste?) si distingue e riconosce per affinità un sottogruppo, formato dalla protagonista (Sofia Foscarini), Emma e David.
«Io, Emma e David camminavamo a lungo». In questa frase c’è già tutto: l’imperfetto che sfuma il tempo storico in un gesto eterno, l’autosufficienza e la chiusura dei legami adolescenziali, la seduzione indifferenziata che si trasmette dall’uno all’altro dei vertici del triangolo senza ostacoli di genere. In questo tempo dilatato, specialmente dall’effetto della memoria che tende a ingigantire i pochi mesi che si considerano realmente vissuti nella propria vita, i riferimenti cronologici non sono evidenziati ma si lasciano recuperare: Sofia ha 16 anni quando, intorno al 1995, il suo legame con Emma e David tocca, tra le mura del collegio, i momenti più intensi; ne ha venti di più quando si mette a scrivere la storia di quell’amicizia collegiale e di ciò che ne è seguito.

Il libro – che inaugura una nuovo corso per la narrativa italiana Bollati Boringhieri, sotto la guida di Andrea Bajani – è diviso in due parti, la prima senza titolo, la seconda significativamente intitolata «Nel tempo». Se ne deduce che la prima parte, quella dedicata al periodo della vita in collegio, è da considerare fuori dal tempo e da ogni possibile cronologia, poiché l’adolescenza che vi si racconta è stata così intensamente (e insaziabilmente) vissuta che talvolta la protagonista dubita che faccia davvero parte della sua storia personale: «A momenti pensavo che nulla fosse davvero esistito, né i miei ricordi, né il collegio, come se fossi in un perenne letargo». Questo è il messaggio che Mary B. Tolusso continua a far ripetere alla sua Sofia Foscarini in ogni pagina: la vera vita è quella dell’adolescenza, durante la quale prende forma nella memoria un tempo mitico che lentamente continua a irradiarsi e a distillare il suo senso nell’età adulta, che altrimenti si rivelerebbe qual è, vuota e insopportabile.

 L’atmosfera del collegio dà una caratterizzazione peculiare a questo mito dell’adolescenza che accomuna la Tolusso a molti autori (tra i quali Goffredo Parise, non ininfluente in questo libro): i ricchi ospiti vengono educati al «distacco» da ogni troppo accesa passione, da ogni legame troppo forte, acquisizione fondamentale per una migliore gestione del potere che certamente avranno nella vita adulta. Sofia, Emma, David, che accettano, senza protestare, la garbata coercizione della signorina Stein e di suor Sara, certo non hanno una giovinezza turbolenta ma le loro passioni, paradossalmente, sono anche più cariche di come sarebbero state fuori dal collegio. Sotto la morbida pressione dell’ambiente, il senso di prossimità e insieme di inafferrabilità della vita, tipico dell’adolescenza, diventa una specie di calore bianco che fonde l’esperienza; la realtà scompare, ma il suo alone cresce e acceca.

I tre protagonisti declineranno ognuno a proprio modo, nelle rispettive esistenze post-collegiali, l’educazione istituzionale e quella sentimentale ricevute in quegli anni, ma fin da subito Sofia si distingue dai compagni per la ricerca di una dimensione meno ovattata, più reale. Le sue fughe notturne dal collegio, in direzione del confine, la portano in uno spazio senza regole, apparentemente ambiguo e pericoloso, dove però il delirio di un’energia senza sbocchi può trovare, se non altro, un argine. Anche per l’organizzazione simbolica dello spazio, come per quella del tempo, Mary B. Tolusso ha costruito un congegno narrativo semplice e funzionale.

Matteo Giancotti