Sono stati molti gli incontri di poesia organizzati da Marco Scarpa nel 2013. Qui accanto vedete il poeta in una foto che curiosamente è finita in copertina di un libro che potete aver letto, Figli e pianeti di Clemens J. Setz edito da gran vía. In questo blog credo di averli segnalati tutti o quasi tutti. Se avete un brutto ricordo di incontri di poesia (5 o 8 persone al massimo, atmosfera pallosa, relatori che non capiscono che si stanno parlando addosso e non accennano a tagliare) dimenticate tutto perché quando questo vulcanico poeta si muove per organizzare qualcosa non annoia e due ore rischiano di passare filate e lisce. E non arrivano 8 persone al massimo. Credo vada riconosciuto questo merito, non comune. L'attività del 2013 è confluita ora in un libro edito da Prufrock spa. Gli incontri tenuti a Rio Selva a Preganziol a febbraio e poi quelli di TraVersi, una rassegna di poesia italiana contemporanea a Treviso, nella cornice di Ca’ dei Ricchi, hanno dato vita a un volume. Il percorso delineato dai diciotto profili critici che compongono il libro è arricchito da una antologia di testi a firma delle autrici e degli autori coinvolti.
Scritti su:
Cristina Alziati | Antonella Bukovaz | Alessandra Carnaroli | Alberto Cellotto | Roberto Cescon | Mario De Santis | Roberta Durante | Giovanna Frene | Stefano Guglielmin | Laura Liberale | Franca Mancinelli | Fabio Orecchini | Luca Rizzatello | Flavio Santi | Mary Barbara Tolusso | Ida Travi | Giovanni Tuzet | Gian Mario Villalta
(Le immagini del booktrailer qui sotto sono tratte da opere di Sara Tisci.)
Non resta che vedere cosa ha in serbo Marco Scarpa per i prossimi mesi, se le energie rimangono con lui (e magari provare a immaginare come potrebbe migliorare ancora il suo operato con un minimo di sostegno, se solo qualche soldo rimasto per la fantomatica "cultura" non finisse sempre nelle solite tasche). Nel frattempo, se passate per Padova domenica 13 ottobre alle ore 17:00, nella Sala Ottagona del Caffè Pedrocchi, trovate Igor De Marchi, Fabio Donalisio e lo stesso Marco Scarpa in un appuntamento dal titolo "Caproni a venire. Letture e confronto sulla poesia contemporanea" (in collaborazione con Tra Versi di Ca' dei Ricchi di Treviso e Progetto Giovani Padova).
giovedì 10 ottobre 2013
Marco Scarpa e "Traversi" per le edizioni Prufrock spa
On parle de:
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Igor De Marchi,
Marco Scarpa,
Padova,
Prufrock Spa,
Sara Tisci,
Traversi,
Treviso
lunedì 7 ottobre 2013
Robert Brasillach. Su alcuni libri e sulla sua "fortuna" in Italia
Desiderata #2
Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #17
Bisognerebbe ormai riconoscere senza troppi timori che nel secolo scorso molte tra le penne migliori appartennero a intellettuali e scrittori "di destra". Prima che si alzino non desiderate lodi da destra o gli scudi della sinistra permalosa riporto l'attenzione sulle parole da me usate: "penne migliori" e non "pensieri migliori" (c'è poco da antologizzare nel "pensiero" novecentesco). Se da un lato registriamo l'esistenza di penne che all'estremità contenevano una bella sfera mobile, di vari spessori e sfumata, dall'altro lato, all'estremità delle penne, troviamo non di rado una monolitica palla. Anzi, diciamocelo pure: due palle. Volendo spiegare questa situazione si potrebbe ricorrere alla libertà concessa da un certo individualismo metodologico tipico della destra da un lato e all'irreggimentazione d'apparato riverberatasi pesantemente sulla scrittura dall'altro lato. Pensate a uno scrittore come Céline. Siamo tutti consapevoli di quali flatulenze di pensiero sia stato capace, ma allo stesso tempo, con ammirazione, lo riteniamo quasi universalmente, almeno in Europa, uno dei più importanti scrittori del Novecento. Parimenti forse potremmo riconoscere maggior interesse nella scrittura di un Lukács delle opere più d'occasione, quand'è lontano dai progetti più ambiziosi. Questa mia è ovviamente una semplificazione drastica, così come il mio esordio è una generalizzazione altrettanto drastica (magari dovuta anche al fatto che all'Italia sono irrimediabilmente mancati dei Koestler o degli Orwell?). Però tutto questo mi serve a dire, non senza rammarico, che uno dei grandi mali della sinistra - almeno in Italia - è stato, oltre a quel fastidioso piglio civilizzatore che qui da noi si porta ancora dietro come un marchio di fabbrica detestabile, il non saper essere stata protagonista di una scrittura e di una retorica convincente, innovative e al passo coi tempi (non penseremo mica che un sindaco rampante di una importante città toscana tolga le castagne dal fuoco a questa retorica ormai compromessa?). E quest'incapacità la sinistra sembra scontarla ancora oggi, con la differenza che anche da destra, ormai da molto tempo, da oltre mezzo secolo forse, ci si sta appiattendo e sterilizzando, con una perdita evidente per tutti e per il dibattito, che forse potrebbe rigenerarsi a partire da un gesto semplice, quantunque imbarazzante per molti: sbarazzarsi delle frecce di destra e sinistra. Farlo una volta per tutte. Magari cambiare anche l'architettura dei parlamenti, a cerchio anziché a semicerchio, così non esiste più una destra e una sinistra e la seduta diventa libera...
Pensavo a queste cose cercando di approfondire la vicenda editoriale di Robert Brasillach nel nostro paese. Sembra infatti caduto un veto sulla sua produzione. In questi anni di scarso "cinema visto" per me, cerco di sopperire malamente con qualche "lettura di cinema", e mi sono imbattuto sulle sue critiche cinematografiche e di striscio sulla sua Histoire du Cinéma che non ha certo avuto grandi fortune qui da noi, a quanto pare, anche se si contraddistinse per innovazione di approccio e sguardo. (Eppure non mancano case editrici attente al cinema, l'arte del Ventesimo secolo come l'ha definita qualcuno.) E così Brasillach è finito nel sottobosco editoriale dell'estrema destra, lo stesso che ha accolto sotto certe luci e echi pensatori come Mircea Eliade. Libero da certi preconcetti, ancora una volta, sembra essere stato Vanni Scheiwiller, che nel 1974 pubblicò il libello André Chénier (pp. 66, traduzione di Clara Morena, introduzione di Franco Maestrelli). Il piccolo saggio che Brasillach dedica al poeta del Settecento assomiglia da vicino al classico libro che si scrive "nel presentimento di". Così come Chénier fini gligliottinato, anche Brasillach, di lì a poco, finì giustiziato a Montrouge nel febbraio 1945 su mandato di De Gaulle e a poco valsero gli appelli "pesanti" di molti intellettuali per salvarlo. Ho come l'impressione che il riaccendersi di una lampadina su Brasillach potrebbe essere salutare anche al dibattito italiano. La cosa buffa, almeno per quel che concerne l'editoria italiana, è che ad esempio si trova tradotto Intelligence avec l'ennemi: Le procès Brasillach di Alice Kaplan per Il Mulino - sulla scia di un importante premio vinto dal libro - quando è facile che qualcuno si chieda "ma chi era questo Brasillach?" o "da dove salta fuori?".
Ma non voglio dilungarmi oltre. Ho scritto queste righe per un paio di motivi: perché è bene che si riconosca questa cosa della scrittura "di destra" spesso più convincente e avvincente di quella che veniva dalla sponda opposta (almeno nella prima metà del Novecento) e poi per riportare l'attenzione su Brasillach. Chissà che qualche editore serio possa prendersi la briga di farlo conoscere al lettore italiano, magari proprio a partire dagli scritti di cinema (tra l'altro non mi pare versi in condizioni entusiasmanti la nostra critica cinematografica). E poi, se qualcuno è fortunato, può ripescare quel libretto pubblicato da un editore vero come Scheiwiller. In fondo, anche con Drieu La Rochelle il veto è caduto e abbiamo scoperto uno scrittore altrettanto vero.
(Su Brasillach vi rimando infine a questa pagina del sempre interessante Lankelot.eu.)
Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #17
Bisognerebbe ormai riconoscere senza troppi timori che nel secolo scorso molte tra le penne migliori appartennero a intellettuali e scrittori "di destra". Prima che si alzino non desiderate lodi da destra o gli scudi della sinistra permalosa riporto l'attenzione sulle parole da me usate: "penne migliori" e non "pensieri migliori" (c'è poco da antologizzare nel "pensiero" novecentesco). Se da un lato registriamo l'esistenza di penne che all'estremità contenevano una bella sfera mobile, di vari spessori e sfumata, dall'altro lato, all'estremità delle penne, troviamo non di rado una monolitica palla. Anzi, diciamocelo pure: due palle. Volendo spiegare questa situazione si potrebbe ricorrere alla libertà concessa da un certo individualismo metodologico tipico della destra da un lato e all'irreggimentazione d'apparato riverberatasi pesantemente sulla scrittura dall'altro lato. Pensate a uno scrittore come Céline. Siamo tutti consapevoli di quali flatulenze di pensiero sia stato capace, ma allo stesso tempo, con ammirazione, lo riteniamo quasi universalmente, almeno in Europa, uno dei più importanti scrittori del Novecento. Parimenti forse potremmo riconoscere maggior interesse nella scrittura di un Lukács delle opere più d'occasione, quand'è lontano dai progetti più ambiziosi. Questa mia è ovviamente una semplificazione drastica, così come il mio esordio è una generalizzazione altrettanto drastica (magari dovuta anche al fatto che all'Italia sono irrimediabilmente mancati dei Koestler o degli Orwell?). Però tutto questo mi serve a dire, non senza rammarico, che uno dei grandi mali della sinistra - almeno in Italia - è stato, oltre a quel fastidioso piglio civilizzatore che qui da noi si porta ancora dietro come un marchio di fabbrica detestabile, il non saper essere stata protagonista di una scrittura e di una retorica convincente, innovative e al passo coi tempi (non penseremo mica che un sindaco rampante di una importante città toscana tolga le castagne dal fuoco a questa retorica ormai compromessa?). E quest'incapacità la sinistra sembra scontarla ancora oggi, con la differenza che anche da destra, ormai da molto tempo, da oltre mezzo secolo forse, ci si sta appiattendo e sterilizzando, con una perdita evidente per tutti e per il dibattito, che forse potrebbe rigenerarsi a partire da un gesto semplice, quantunque imbarazzante per molti: sbarazzarsi delle frecce di destra e sinistra. Farlo una volta per tutte. Magari cambiare anche l'architettura dei parlamenti, a cerchio anziché a semicerchio, così non esiste più una destra e una sinistra e la seduta diventa libera...
Pensavo a queste cose cercando di approfondire la vicenda editoriale di Robert Brasillach nel nostro paese. Sembra infatti caduto un veto sulla sua produzione. In questi anni di scarso "cinema visto" per me, cerco di sopperire malamente con qualche "lettura di cinema", e mi sono imbattuto sulle sue critiche cinematografiche e di striscio sulla sua Histoire du Cinéma che non ha certo avuto grandi fortune qui da noi, a quanto pare, anche se si contraddistinse per innovazione di approccio e sguardo. (Eppure non mancano case editrici attente al cinema, l'arte del Ventesimo secolo come l'ha definita qualcuno.) E così Brasillach è finito nel sottobosco editoriale dell'estrema destra, lo stesso che ha accolto sotto certe luci e echi pensatori come Mircea Eliade. Libero da certi preconcetti, ancora una volta, sembra essere stato Vanni Scheiwiller, che nel 1974 pubblicò il libello André Chénier (pp. 66, traduzione di Clara Morena, introduzione di Franco Maestrelli). Il piccolo saggio che Brasillach dedica al poeta del Settecento assomiglia da vicino al classico libro che si scrive "nel presentimento di". Così come Chénier fini gligliottinato, anche Brasillach, di lì a poco, finì giustiziato a Montrouge nel febbraio 1945 su mandato di De Gaulle e a poco valsero gli appelli "pesanti" di molti intellettuali per salvarlo. Ho come l'impressione che il riaccendersi di una lampadina su Brasillach potrebbe essere salutare anche al dibattito italiano. La cosa buffa, almeno per quel che concerne l'editoria italiana, è che ad esempio si trova tradotto Intelligence avec l'ennemi: Le procès Brasillach di Alice Kaplan per Il Mulino - sulla scia di un importante premio vinto dal libro - quando è facile che qualcuno si chieda "ma chi era questo Brasillach?" o "da dove salta fuori?".
Ma non voglio dilungarmi oltre. Ho scritto queste righe per un paio di motivi: perché è bene che si riconosca questa cosa della scrittura "di destra" spesso più convincente e avvincente di quella che veniva dalla sponda opposta (almeno nella prima metà del Novecento) e poi per riportare l'attenzione su Brasillach. Chissà che qualche editore serio possa prendersi la briga di farlo conoscere al lettore italiano, magari proprio a partire dagli scritti di cinema (tra l'altro non mi pare versi in condizioni entusiasmanti la nostra critica cinematografica). E poi, se qualcuno è fortunato, può ripescare quel libretto pubblicato da un editore vero come Scheiwiller. In fondo, anche con Drieu La Rochelle il veto è caduto e abbiamo scoperto uno scrittore altrettanto vero.
(Su Brasillach vi rimando infine a questa pagina del sempre interessante Lankelot.eu.)
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Histoire du cinéma,
Riletture,
Robert Brasillach,
Scheiwiller
sabato 5 ottobre 2013
da "L'amaro miele" di Gesualdo Bufalino
Una poesia da #24

Com'era il Bufalino poeta? L'autore che qui sopra vedete ritratto in compagnia di Leonardo Sciascia a Racalmuto nel 1987 ha scritto anche poesie. Francamente non lo so. Leggo con voi, a partire da questa poesia qui sotto. Se convince la poesia in copertina, si può provare ad aprire e sfogliare l'intero libro...
Pubblico solo questa e la lascio nella gabbia della copertina Einaudi, non la riscrivo nemmeno. Post breve oggi, brevissimo. Il libro L'amaro miele (pp. 182, euro 12) è uscito nel 1989 e ormai non si trova più tanto facilmente in giro. Però la poesia che avevano scelto per la copertina lascia il desiderio di approfondire.
On parle de:
Einaudi,
Gesualdo Bufalino,
L'amaro miele,
Una poesia da
giovedì 3 ottobre 2013
Alberto Pellegatta illustra la collana "Poesia di ricerca" delle Edizioni Edb
Librobreve intervista #26
Storie di collane micro #9
Qualche giorno fa la presentazione milanese di Wilderbeast di Jack Underwood (UK 1984) e Francesca Moccia (Benevento 1976) è stata un successo. Alberto Pellegatta la ricorda come un "record per la nostra collana, per pubblico e per vendite." Sembra insomma esserci spazio e ascolto per la poesia. Ma non mi va di parlare di poesia e editoria, è uno dei discorsi più noiosi che si possa fare. Mi premeva più che altro sottolineare che forse non è del tutto vero quello che ci raccontiamo attorno alla poesia da troppo tempo. Forse bisogna semplicemente agire, come avviene nelle scelte di questa collana. Allora andiamo più a fondo dentro il contenitore che accoglie anche il nuovo libro di Underwood e che si chiama "Poesia di ricerca" (è pubblicata dalle Edizioni Edb). Ne parliamo con Alberto Pellegatta, suo principale animatore.
LB: L'aggancio per iniziare arriva dal recente libro di Leopoldo María Panero (Madrid, 1948) intitolato Il cervo applaudito e tradotto da Ianus Pravo. Ci racconti che libro è? E chi è Leopoldo María Panero?
RISPOSTA: Leopoldo María Panero è autore dell’opera più radicale della poesia spagnola contemporanea, un autore immaginifico con una biografia travagliata e un linguaggio lacerato. Vive nel manicomio psichiatrico di Las Palmas e, non scrivendo più di suo pugno, ha dettato questo libro al nostro traduttore. Il cervo applaudito è un libro inedito anche in Spagna, probabilmente il più bello pubblicato negli ultimi anni dall’autore di Peter Pan non è che un nome. Lo abbiamo presentato a Barcellona davanti a un pubblico numeroso, e presto sarà presentato anche all’Università di Palermo, dove è già entrato in una tesi di laurea.
LB: Allarghiamo lo sguardo alla collana che curi per le Edizioni Edb. Quali titoli sono usciti sinora? Ce li descrivi brevemente?
RISPOSTA: Siamo ormai al quinto titolo, è stato un lavoro complesso di campionatura, allargato a diversi paesi. Ha coinvolto molti studiosi, anche se ho dovuto poi trovare una sintesi. La collana è nata con l’idea di proporre giovani autori in volumi doppi, in un’ottica di confronto e di ricerca sul linguaggio. Queste uscite sono cadenzate da volumi singoli di maestri viventi della poesia universale, com’è appunto il caso di Panero. Citerò due esempi su tutti: Il sentimento dei vitelli di Francesco Maria Tipaldi e Luca Minola, e Wilderbeast di Jack Underwood e Francesca Moccia, neonato della collana. Nel primo caso i due giovanissimi poeti, diversissimi tra loro, l’uno napoletano e l’altro bergamasco, sono riusciti a creare un testo compatto e insieme variegato, ironico e materico, limpido e antiretorico. Un testo che è già alla seconda ristampa e che ha vinto il Premio Sea/Maconi. Nel secondo libro un giovane autore londinese, già uscito in patria per la mitica Faber&Faber, imposta un dialogo “infernale” con la poetessa beneventina Francesca Moccia, nota ai lettori per la potenza delle sue immagini e l’equilibrio della forma.
Potrei anche citare il libro di Silvia Caratti, della quale non usciva niente dal 2005, e che insieme a Mary Barbara Tolusso ha pubblicato nella nostra collana Mea infera caro, un volume che è già in esaurimento.
LB: Quale idea di poesia vorresti trasparisse nitidamente da questa collana? Si parla di poesia di ricerca...
RISPOSTA: Non ho mai pensato che potesse esistere un’ideologia poetica. La nostra non è un’operazione editoriale o di parrocchia, bensì una ricerca culturale. Chiunque potrà verificare che non esiste uno stile privilegiato. Non è importante l’appartenenza a una linea o una scuola, ciò che importa è la qualità: ci guida una sorta di giustizia estetica.
LB: Pur avendo dovuto dar forfait all'appuntamento di Pordenone per una febbre improvvisa, sei reduce anche tu dell'esperimento "poetry trailer" presentato a Pordenonelegge. Ci racconti cosa avete fatto e che idea ti sei fatto di questo contatto tra poesia e video?
RISPOSTA: I ragazzi della Scuola di Cinema di Milano hanno scelto una mia poesia e hanno lavorato con passione e curiosità sul testo, lo hanno interpretato senza sovrapporsi, con grande rispetto e sensibilità. Il risultato è davvero interessante. Sarebbe bello se la televisione emettesse questi e altri lavori simili, per far conoscere chi eroicamente si dedica al mantenimento del linguaggio e alla poesia. Devo ringraziare in particolar modo il giovane regista, Leonardo Fallucca, che ha firmato il video della mia poesia.
LB: Quale poeta vorresti pubblicare subito perché introvabile in italiano?
RISPOSTA: Sono molti i poeti stranieri che non sono ancora stati tradotti, penso a quelli in lingua spagnola (iberici o sudamericani) ma anche agli anglofoni. Ci sono anche autori ormai classici che si fa fatica a trovare. . Essendo responsabile di un almanacco di poesia, erede del glorioso Almanacco dello Specchio (rifondato e velocemente archiviato da Mondadori), traghettato dal suo direttore Maurizio Cucchi presso un piccolo editore specializzato in poesia come Lietocollelibri (il primo numero uscirà a novembre) ho potuto inserire uno degli autori angloamericani che ha avuto maggiore influenza sulle giovani generazioni di poeti in lingua inglese, da noi completamente sconosciuto: Micheal Donaghy. Ma avremo anche un’anticipazione di uno splendido libro di Antonio Gamoneda che uscirà per Poesia di Ricerca/Edb, un libro inedito in Italia.
LB: E ora gettiamo uno sguardo in avanti: cosa ci attende? Mi dicevi che la programmazione di qui a un paio di anni è pressoché stabilita e i lettori del blog sono curiosi...
RISPOSTA: Facciamo solo tre libri l’anno, per questo è facile arrivare con la programmazione al 2015. In uscita c’è il volume di una giovane e notevole rappresentante della poesia meridionale, Carla Saracino, affiancata da un raffinatissimo Stelvio Di Spigno. In primavera uscirà invece una plaquette inedita di Maurizio Cucchi, illustrata da un grande scultore milanese come Alberto Ghinzani. Seguiranno altri volumi doppi molto interessanti, di giovani autori italiani e stranieri. Invitiamo i lettori del blog a seguire il nostro lavoro perché non li deluderemo.
Storie di collane micro #9
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Alberto Pellegatta è nato nel 1978. Vive a Milano. |
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Il cervo applaudito di L.M. Panero |
RISPOSTA: Leopoldo María Panero è autore dell’opera più radicale della poesia spagnola contemporanea, un autore immaginifico con una biografia travagliata e un linguaggio lacerato. Vive nel manicomio psichiatrico di Las Palmas e, non scrivendo più di suo pugno, ha dettato questo libro al nostro traduttore. Il cervo applaudito è un libro inedito anche in Spagna, probabilmente il più bello pubblicato negli ultimi anni dall’autore di Peter Pan non è che un nome. Lo abbiamo presentato a Barcellona davanti a un pubblico numeroso, e presto sarà presentato anche all’Università di Palermo, dove è già entrato in una tesi di laurea.
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Mea infera caro di Caratti-Tolusso |
RISPOSTA: Siamo ormai al quinto titolo, è stato un lavoro complesso di campionatura, allargato a diversi paesi. Ha coinvolto molti studiosi, anche se ho dovuto poi trovare una sintesi. La collana è nata con l’idea di proporre giovani autori in volumi doppi, in un’ottica di confronto e di ricerca sul linguaggio. Queste uscite sono cadenzate da volumi singoli di maestri viventi della poesia universale, com’è appunto il caso di Panero. Citerò due esempi su tutti: Il sentimento dei vitelli di Francesco Maria Tipaldi e Luca Minola, e Wilderbeast di Jack Underwood e Francesca Moccia, neonato della collana. Nel primo caso i due giovanissimi poeti, diversissimi tra loro, l’uno napoletano e l’altro bergamasco, sono riusciti a creare un testo compatto e insieme variegato, ironico e materico, limpido e antiretorico. Un testo che è già alla seconda ristampa e che ha vinto il Premio Sea/Maconi. Nel secondo libro un giovane autore londinese, già uscito in patria per la mitica Faber&Faber, imposta un dialogo “infernale” con la poetessa beneventina Francesca Moccia, nota ai lettori per la potenza delle sue immagini e l’equilibrio della forma.
Potrei anche citare il libro di Silvia Caratti, della quale non usciva niente dal 2005, e che insieme a Mary Barbara Tolusso ha pubblicato nella nostra collana Mea infera caro, un volume che è già in esaurimento.
LB: Quale idea di poesia vorresti trasparisse nitidamente da questa collana? Si parla di poesia di ricerca...
RISPOSTA: Non ho mai pensato che potesse esistere un’ideologia poetica. La nostra non è un’operazione editoriale o di parrocchia, bensì una ricerca culturale. Chiunque potrà verificare che non esiste uno stile privilegiato. Non è importante l’appartenenza a una linea o una scuola, ciò che importa è la qualità: ci guida una sorta di giustizia estetica.
LB: Pur avendo dovuto dar forfait all'appuntamento di Pordenone per una febbre improvvisa, sei reduce anche tu dell'esperimento "poetry trailer" presentato a Pordenonelegge. Ci racconti cosa avete fatto e che idea ti sei fatto di questo contatto tra poesia e video?
RISPOSTA: I ragazzi della Scuola di Cinema di Milano hanno scelto una mia poesia e hanno lavorato con passione e curiosità sul testo, lo hanno interpretato senza sovrapporsi, con grande rispetto e sensibilità. Il risultato è davvero interessante. Sarebbe bello se la televisione emettesse questi e altri lavori simili, per far conoscere chi eroicamente si dedica al mantenimento del linguaggio e alla poesia. Devo ringraziare in particolar modo il giovane regista, Leonardo Fallucca, che ha firmato il video della mia poesia.
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Michael Donaghy, Collected Poems |
RISPOSTA: Sono molti i poeti stranieri che non sono ancora stati tradotti, penso a quelli in lingua spagnola (iberici o sudamericani) ma anche agli anglofoni. Ci sono anche autori ormai classici che si fa fatica a trovare. . Essendo responsabile di un almanacco di poesia, erede del glorioso Almanacco dello Specchio (rifondato e velocemente archiviato da Mondadori), traghettato dal suo direttore Maurizio Cucchi presso un piccolo editore specializzato in poesia come Lietocollelibri (il primo numero uscirà a novembre) ho potuto inserire uno degli autori angloamericani che ha avuto maggiore influenza sulle giovani generazioni di poeti in lingua inglese, da noi completamente sconosciuto: Micheal Donaghy. Ma avremo anche un’anticipazione di uno splendido libro di Antonio Gamoneda che uscirà per Poesia di Ricerca/Edb, un libro inedito in Italia.
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Carla Saracino |
RISPOSTA: Facciamo solo tre libri l’anno, per questo è facile arrivare con la programmazione al 2015. In uscita c’è il volume di una giovane e notevole rappresentante della poesia meridionale, Carla Saracino, affiancata da un raffinatissimo Stelvio Di Spigno. In primavera uscirà invece una plaquette inedita di Maurizio Cucchi, illustrata da un grande scultore milanese come Alberto Ghinzani. Seguiranno altri volumi doppi molto interessanti, di giovani autori italiani e stranieri. Invitiamo i lettori del blog a seguire il nostro lavoro perché non li deluderemo.
domenica 29 settembre 2013
da "Trasfusione" di Ghiannis Ritsos
Una poesia da #23
Ho rare frequentazioni con la poesia neogreca del Novecento. Ho letto alcune cose di Kavafis, persino regalato suoi libri, ma davvero non sono riuscito a fermarmi su molti suoi testi. Forse l'ho letto troppo presto, o troppo tardi. Forse, semplicemente, non mi piace Kavafis. Non so cosa farci e forse non è nemmeno così grave. Molto di più invece mi ha coinvolto la lettura di Odisseas Elitis (trovate alcuni suoi libri nel catalogo Donzelli) o Ghiannis Ritsos (1909-1990). Il libro da cui pesco una poesia è Μετάγγιση, Trasfusione, uscito per Einaudi nel 1980 per la cura del un suo pluridecennale traduttore (nonché editore) Nicola Crocetti. Si tratta di un volume di poesie "italiane", come rileva anche il sottotitolo, vergate tra Catania, Taormina, Venezia, Firenze, Milano. Ogni poesia riporta in calce un luogo e una data. Colpisce quante poesie siano raggruppabili sotto la stessa data (è qualcosa che rileva con stupore già Vittorio Sereni nella premessa). Tra tutte c'è un trittico di poesie scritte a Venezia. Non sono le più belle, perché in fondo è questo un libro contraddistinto da una grande omogeneità di tensione. Di queste riprendo qui sotto la terza. Della introduzione di Sereni invece riporto solo un passo per me molto importante, ora che sembra stia tornando di moda un vociare a volte ciarliero e affrettato attorno alla "poesia civile":
"In altri termini, il rischio maggiore cui va incontro sull'onda del sentito dire la poesia di Ritsos è di vedersi affibbiare, e di esaurire in questa la propria identità e e portata, l'etichetta di poesia civile - la quale comporta sempre, anche a torto, l'idea di un committente, reale o supposto, conscio o inconscio, non importa quale."
La poesia che leggete nella copertina è stata invece scritta a Firenze il 31.V.1976. Chissà perché l'editore, abituato a scegliere una poesia per le copertine di questa collana "bianca" di poesia, non riportò anche la data e il luogo...
Devo partire - dice - partire
quello che viaggia
con una borsa appesa al fianco
no non sono io
io me ne sto immobile dentro la mia morte - dice-
ho chiacchierato coi rigattieri nella piazzetta chiusa
vecchie incisioni portagioie intagliati
chiavi specchi statuette casse
ho comprato una tunica rossa con bordure d'oro
mi sono seduto al bar accanto al ponte
ho mangiato un gelato tinto di fragola
ho gettato il cucchiaino d'argento nell'acqua nera.
Venezia, 30.V.76.
mercoledì 25 settembre 2013
Marco Sonzogni ci racconta "La speranza di pure rivederti...": Irma Brandeis e Eugenio Montale in un libro di Archinto
Librobreve intervista #25
Le mie domande lo raggiungono a Wellington, in Nuova Zelanda dove insegna, nel bel mezzo di un lavoro febbrile di revisione. Sarà sua infatti la cura e traduzione del Meridiano di Seamus Heaney in uscita per Mondadori nel 2014. E non potrebbe essere diversamente. Marco Sonzogni mi scrive che ha sentito il grande poeta nordirlandese pochi giorni prima che morisse, lo ricorda come maestro nella vita e anche nella morte. Nelle risposte che seguono però parla anche di come ha accolto la notizia, in preghiera, diversamente dalle troppe persone che "sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui". Lo distolgo però per qualche attimo da Heaney (anche se non dal dolore) per poi farci ritorno con l'ultima domanda di questa intervista. In Italia è da poco uscito per Archinto un suo lavoro intitolato La speranza di pure rivederti... Clizia, Montale e l'impossibilità di dirsi addio (pp. 83, euro 12). Sento di doverlo ringraziare ancora, da queste poche righe introduttive, per l'intervista che leggerete, forse la più bella che ho sin qui pubblicato (siamo alla 25esima, forse sto esagerando, ma mi rendo conto che le interviste attorno ai libri brevi sono un bel sistema per lasciare spazio ad altre voci, risparmiarvi la mia e per risparmiare a me tempo). Sono certo vi catturerà e vi inietterà il desiderio della rilettura, sia delle risposte, sia dei testi di cui qui si parla.
LB: Potresti
tratteggiare per i lettori le scosse principali della vicenda umana
Montale-Brandeis? Se sappiamo bene o male chi è e cosa ha scritto Montale,
possiamo sapere da te, brevemente, chi è Irma e come incontra Eugenio?
LB: La
speranza di pure rivederti... titola il libro. Il mottetto si chiude con quei
tre versi tra parentesi del servo gallonato tra i portici a Modena. Per me è
sempre stata una delle immagini più nitide di Montale. Ci parli un
po’ proprio del Mottetto VI?
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Marco Sonzogni |
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Il libro pubblicato da Archinto |
RISPOSTA:
Sono le scosse “normali” che scandiscono le vicende umane di un uomo e di una
donna che si innamorano, vorrebbero stare insieme, ci provano, ma alla fine per
una ragione o per un’altra, non ci riescono. Nel caso di Irma e di Eugenio,
come per tutti, la prima scossa è senz’altro quella del primo incontro, del
famigerato colpo di fulmine, nel luglio del 1933, a Firenze. Eugenio Montale
non ha la più pallida idea di chi sia questa giovane, colta e affascinante
americana di nome Irma Brandies che chiede di incontrarlo (lui è direttore del
prestigioso Gabinetto Vieussuex, che lei frequenta). Lei invece sa già
abbastanza di lui: gliene hanno parlato Gino Bigongiari (con cui ha una
relazione piuttosto complessa) e Leo Ferrero (anche con lui ha una breve
relazione), da cui riceve una copia di Ossi
di seppia (quella stampata da Carabba nel 1931, quindi la terza edizione)
che subito divora. La lettura instiga il desiderio di conoscere personalmente
l’uomo che ha scritto poesie così belle: e se da un punto di vista estetico
Eugenio non fa certo colpo su Irma, da un punto di vista poetico e
intellettuale tra i due si instaura un legame che è subito forte, profondo,
necessario ma anche difficile, problematico – un oceano di distanza li separa
per buona parte dell’anno, colmato all’inizio da una corrispondenza fittissima,
e poi un mare di problemi (soprattutto di Montale) piano piano li separerà per
sempre. La seconda scossa è sicuramente la scoperta da parte di Irma –
inquivocabilmente solo nel 1935, dopo due anni, quindi, di sentimenti, speranze
e progetti – che Montale è legato a un’altra donna, quella che lei continuerà a
chiamare “X”: la Mosca, Drusilla Tanzi Marangoni. Valgono poco le tardive
spiegazioni di Montale: sarebbero anche state, in un certo senso,
comprensibili, ma l’averle taciute non lo mise in buona luce, diciamo così. La
terza scossa è il mancato incontro quando Montale si reca negli USA a bordo del
volo inaugurale Roma-New York nell’estate del 1950. Di questa occasione persa
ci restano solo ricordi avvolti in parte nel mistero e sui quali dubito si
possa arrivare a mettere la parola fine. Certo è che Montale, nelle poche ore
in cui si trova nella Grande Mela, telefona a un’amica, sua e di Irma, Giovanna
Calastri (la stessa che gli telefona nei versi di Una musa oltreoceano) ma non ha il coraggio di
chiamare Clizia – o meglio, fa il numero ma poi riattacca. Chissà perché
(soprattutto per poi raccontare l’accaduto a Irma in un biglietto purtroppo
andato perso). La quarta scossa, silenziosa, è la morte della Mosca – con lei
in vita Irma, che in Italia di tanto in tanto faceva ritorno (per esempio va a
fare la volontaria in occasione dell’alluvione di Firenze del 1966), non aveva
mai cercato di riallaciare i contatti con Montale. La quinta e ultima scossa –
dopo le crescenti attenzioni che gli studiosi (in particolare Luciano Rebay e
Glauco Cambon) riversano su di lei, a volte con irrispettosa insistenza,
soprattutto a seguito dell’assegnazione a Montale del Premio Nobel per la
Letteratura – è la pubblicazione dell’edizione critica dell’Opera in versi di Montale nel dicembre
del 1980. Irma riceve una copia con la dedica di uno dei due curatori,
Gianfranco Contini, e un biglietto quasi illeggibile dello stesso Montale, che
le dice di considerarla ancora la sua divinità, e le chiede quando e come si sarebbero
riincontrati. Siamo nel giugno del 1981. Da quel momento, con la mediazione di
amici “di lunga fedeltà”, Irma ed Eugenio cercano di riincontrarsi per
guardarsi negli occhi un’ultima volta, mezzo secolo dopo il loro primo
incontro. Ma il 13 settembre, quando Irma sta per mettersi in viaggio alla
volta di Milano, Cambon le telefona per dirle che Montale è morto.
LB: Quando nasce e come
prende forma il progetto di questo libro pubblicato da Archinto e dedicato al
rapporto tra Montale e Clizia, l’ispiratrice del sesto mottetto de Le occasioni
dal quale è stato preso il titolo del volume? A tuo sentire, il costrutto
celeberrimo di “visiting angel” tiene ancora bene con il passare degli anni o
forse andrebbe rivisto dalla critica?
RISPOSTA: Nel
1999, grazie alla mediazione dell’amico Bill Weaver, che era Irma Brandeis
Professor of Literature a Bard College, sono entrato in contatto con Jean Cook,
amica ed esecutrice letteraria di Irma Brandeis. Ci siamo sentiti per email e
per telefono, per qualche anno, e poi ci siamo conosciuti di persona: prima a
Dublino, dove io abitavo e dove lei aveva accompagnato una scolaresca, e poi a
New York (sto per tornarci tra poche settimane, proprio per parlare di questo
libricino alla Fordham University e per rivedere Jean e altri amici newyorkesi).
Un rapporto di amicizia e di fiducia subito forte e trasparente: a me, come a
lei, premeva far conoscere la storia di Irma Brandeis – quella di Clizia
l’aveva già raccontata in versi Montale; e dalle lettere di Montale a lei, pubblicate
nel 2006, di Irma non emerge più di tanto. In tutti questi anni, quindi, ho
avuto modo di studiare le carte di “I.B.”: lettere, diari, traduzioni,
racconti, studi accademici – e, allo stesso tempo, parlare con persone che
l’avevano conosciuta. Così è stato quasi come averla conosciuta anch’io e
spero, con i miei lavori, di aver contribuito a far conoscere una donna il cui
valore umano e intellettuale va ben oltre quello di musa montaliana... Quindi, se si vuole davvero capire e apprezzare chi è stata Irma Brandeis, non solo la definizione di salfivico visiting angel – perfettamente legittima, con l’intercessione di Beatrice e Laura – ma anche il nome stesso “Clizia” – scelto per Brandeis da Montale sempre sulla scia del poeta sommo, come ha chiarito Contini – vanno ad un certo punto messi da parte. Del resto Irma stessa, ormai vecchia ed esasperata, ha cercato di liberarsi, una volta per tutte, delle responsabilità mitopoietiche di cui l’ha investita Montale.
LB: Nel libro trovano
spazio materiali inediti? Da dove provengono e come li hai montati nel tuo
discorso?
RISPOSTA: In
tutti i miei scritti su Montale e Brandeis ho presentato carte inedite. In
questo caso di stratta di tre lettere – due di Gianfranco Contini e una di
Cesare Vivante – e di fogli sparsi con prove di traduzione di poesie di
Montale. Come tutte le altre carte che ho studiato e pubblicato anche queste
sono in possesso di Jean Cook. Credo fermamente nell’autorità del documento: la
mia lettura e le mie interpretazioni sono quindi state costruite intorno a
queste carte. Sono loro a parlare, io ho fatto solo da tramite.
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The Ladder of Vision, il saggio su Dante di Irma Brandeis |
LB: Qual è stata per te
la cosa più bella, la scoperta più emozionante nella scrittura di questo libro?
RISPOSTA:
Sicuramente la lettera di Cesare Vivante, trovata quasi per caso in un folder gonfio di fogli e ritagli di
giornale che non promettevano niente di interessante (tra l’altro era l’ultimo
faldone che mi era rimasto da scartabellare e non so proprio spiegarmi come sia
finita lì). E poi l’incontro con Cesare (e sua moglie Mirella), a Milano: un
momento davvero emozionante e commovente. L’affettuosa accoglienza affetto, il
nitido ricordo di Irma e di Montale nella casa dei genitori, Leone e Elena
Vivante, a Villa Solaia, in Toscana, e poi il ricordo della figlia, Elena anche
lei, tragicamente morta giovane, inseguendo l’amore... Tra le carte mi ha
sicuramente colpito anche la testimonianza – in poche lucide righe manoscritte
– del triangolo in cui Irma finì suo malgrado a trovarsi: lei, lui (Montale) e
l’altra (la Mosca), e la risoluzione del dispiacere per quanto successo
affidata a Dante.
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Irma e i gatti... |
RISPOSTA: È
stato scritto tanto su queste due bestiole. Montale stesso, camuffato da Mirco,
ha raccontato la cosa e credo che in questo caso gli si possa credere. Altri
hanno poi confermato (appartenevano a un tizio di Modena ma questo tipo di
dettaglio, poeticamente, conta poco o nulla). A Irma piacevano gli animali, i
gatti soprattutto, ma anche quelli meno comuni, come appunto i due sciacalli
portati a spasso dal servo gallonato sotto i portici di Modena. Ci sta quindi
che siano un suo senhal. Ho provato a
frugare nella simbologia dello sciacallo – animale che nella cultura
occidentale ha un pedigree non troppo positivo. Qualche traccia interessante
l’ho trovata, e l’ho seguita, coinvolgendo mezzo mondo, con il conforto di una
foto davvero intrigante, ma per ora non ho trovato prove sufficienti a validare
un’interpretazione alternativa. Un giorno forse ne scriverò comunque – magari
ne esce un racconto piuttosto che un saggio critico. Vediamo. Tornando al
mottetto: credo che il titolo dica tutto. Eugenio si sta già rassegnando a
perdere Irma – in un certo senso la perde ogni volta che la vede ripartire per
gli Stati Uniti. Lo strappo sarà anche, come da tradizione, poeticamente
fertile, ma umanamente parlando Montale soffre come ognuno soffrirebbe nel
doversi separare dalla persona amata. L’amor de lonh, per dirla con Jaufré
Rudel, ha senso e tiene fino a un certo punto: insomma, le poesie non bastano e
infatti Irma vuole di più e quando si rende conto che le cose non sarebbero mai
cambiate, mette fine alla relazione. Detto questo, mi ha sempre colpito, fin
dalla prima volta che ho letto questo mottetto, il presentimento di Montale –
sentiva che ogni saluto, come presto sarebbe stato, poteva essere l’ultimo. È
come se, in un certo senso, avesse rimosso anche la possibilità della speranza.
Un mottetto in momentanea absentia di
lei che prelude, anzi annuncia, la sua absentia
definitiva – quasi fosse inevitabile.
![]() |
Il giovane Seamus Heaney |
LB: Sei
reduce da un ciclopico lavoro di traduzione da Heaney in uscita tra qualche
mese nei Meridiani Mondadori. In questo libro si sviluppa invece un
appassionato inseguimento montaliano. Se mi passi il termine scolastico di
“collegamenti”, quali “collegamenti” faresti tra poeti lontani nello spazio e
nei tempi come Seamus e Eugenio?
RISPOSTA: Il lavoro ciclopico – come lo hai giustamente
descritto tu, e non solo per me ma per tutti quelli coinvolti in un progetto
come questo – si era concluso il 26 agosto in vista della pubblicazione per il
75° compleanno del poeta nell’aprile del 2014. Ma pochi giorni dopo, la mattina
del 30 agosto, Seamus se ne è andato per sempre. Ti confesso che stato un colpo
durissimo, e che mi ci vorrà tanto tempo a smaltire anche se, te lo dico
sinceramente, non mi ha colto del tutto di sorpresa. Ora il lavoro ciclopico si
è raddoppiato: i cantieri del Meridiano sono stati riaperti per accogliere
traduzioni e commenti a tutta l’opera in versi di Heaney, inclusa una sezione
di inediti (due poesie giovanili, due poesie recenti e due traduzioni
completate pochi giorni prima della morte). Sarà il modo migliore di
ricordarlo. Anche se lo conosco, lo leggo e lo studio da più di 20 anni ho
preferito restare in silenzio, e in preghiera, pensando a Marie, Michael,
Christopher e Catherine Ann. Troppe persone sono subito corse a raccontare su
carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e
bevuto con lui, quante volte lo avevano incontrato o gli avevano parlato, cosa
di lui avevano letto, scritto o tradotto (c’è addirittura chi ha ristampato le
proprie traduzioni il giorno stesso della morte) – finendo per parlare più di
se stessi che di lui. Ma anche in questo forse inevitabile karaoke dell’ego c’è
del giusto e del bello: Seamus sapeva toccare tutti, già al primo sguardo, e lo
tsunami di testimonianze da ogni parte del pianeta e da ogni fascia sociale e
professionale ha dato conto del segno lasciato da un uomo e da un poeta
straordinario, e del vuoto che dobbiamo ora accettare, colmandolo almeno in
parte con la sua opera in versi e in prosa.
Mi chiedi di
Montale e Heaney. Sono due poeti molto diversi – già per nascita (e non mi
riferisco alle condizioni delle rispettive famiglie, per altro diverse anche
quelle): uno nasce in riva al mare l’altro nel cuore della terra. Ecco,
paradossalmente, quello che forse più li accomuna risiede proprio in questa
differenza, per così dire, topografica: entrambi partono, umanamente e
poeticamente, dal paesaggio che li circonda e che ne determina le coordinate
esistenziali ed intellettuali. La strada della poesia che intraprendono, e che
porta entrambi a Stoccolma, segue poi percorsi piuttosto diversi, ma qualche
intersezione c’è. Montale muore (1981) poco prima che Heaney raggiunga una
notorietà mondiale – anche se la fama del poeta nordirlandese è in rapida
crescita dopo che Helen Vendler (Harvard University) ne recensisce la quarta
raccolta, North (1975, l’anno in cui
a Montale è assegnato il premio Nobel per la Letteratura), sul «New York Review
of Books». L’incontro più significativo tra i due poeti è quello nel segno
l’anguilla, animale che Heaney conosceva bene (il padre della moglie gestiva un
pub ad Ardboe, sulle rive di Lough Neagh, in Irlanda del Nord, frequentato da
pescatori di anguille, con cui aveva anche rapporti di lavoro, e che Heaney
stesso ebbe modo di frequentare). La traduzione della poesia montaliana (una
versione, per altro, ai limiti della riscrittura, secondo me neanche troppo
convincente) da parte del poeta americano Robert Lowell – che il poeta
nordirlandese ammirava, ricambiato – ha messo in moto qualcosa
nell’immaginazione di Heaney, che ci ha a sua volta lasciato due bellissime
poesie incentrate sull’anguilla: ‘A Lough Neagh Sequence’ (‘Sequenza di Lough
Neagh’), nella seconda raccolta (Door
into the Dark, 1969) e, trent’anni dopo, ‘Eelworks’ (‘Anguilleria’), nella
dodicesima e ultima raccolta (Human Chain,
2010). Heaney ha letto Montale, non soltanto l’opera in versi ma anche i suoi
scritti in prosa. E poi il titolo che Heaney aveva scelto per la Frank Kermode Lecture che avrebbe tenuto
a Londra il prossimo novembre la dice lunga: “The Second Life of Art” – è il
titolo di un saggio di Montale del 1949 pubblicato sul «New York Review of
Books» nel 1981 nella splendida traduzione di Jonathan Galassi (incluso con
altre prose nel volume eponimo pubblicato presso i tipi newyorkesi di The Ecco
Press l’anno successivo). Solo per dire che i grandi poeti sono sempre in
dialogo, in un modo o in un altro, indipendentemente dal fatto che si siano
incontrati, sulla pagina o di persona.
lunedì 23 settembre 2013
Gli epitaffi scritti sull'aria da Nelly Sachs
Ogni volta che si avvicina l'opera della Sachs sembra inevitabile ricominciare daccapo, da tutti i temi e i tempi più atroci che l'hanno attraversata: la migrazione indotta dal Nazismo, l'esilio svedese, la devastazione materiale e spirituale della Shoah sperimentata da sopravvissuta. I testi-epitaffi che Chiara Conterno ha tradotto e radunato qui appartengono al periodo 1943-1946 e disseminano pertanto un momento fondamentale della vicenda personale e del continente europeo stesso: dai momenti più difficili della guerra al primo anno senza la guerra. Sono componimenti per lo più brevi, per lo più riportanti un titolo e due iniziali relative al nome della persona alla quale sono dedicati (non tutti però, ad esempio quello intitolato Die Mutter è dedicato probabilmente alle madri e non a una madre soltanto, visto che non è seguito da iniziali). A volte - e lo scopriamo nelle ricche e curatissime note a piè di pagina, ricavate anche dalle lettere riportate in appendice - conosciamo il destino dei dedicatari, altre volte lo ignoriamo, o meglio, ad un certo punto della deportazione le tracce si perdono. Non conosciamo allora né nomi di luoghi né date di morte certe o presunte. Tutto questo ci fa pensare anche all'imponente lavoro di ricostruzione di percorsi di morte che la Shoah ha innescato a guerra in corso e appena terminata. Sono tutte persone che riaffiorano nella memoria famigliare e negli affetti dell'autrice, che anziché affidare l'epitaffio alla pietra lo affida all'aria, alla voce, al vento. Facili potrebbero diventare le associazioni, anche con testi fortunati come la Spoon River di Masters. A ben vedere, a ben ascoltare soprattutto, la poesia della Sachs in questo frangente è fatta di un fiato flebile che sa dire, per contrasto, l'assordante verità dell'esistenza di queste vite cancellate dalla furia distruttrice dell'Olocausto.
Epitaffi scritti sull'aria diventa allora un libro di memoria profonda nel senso quasi "liturgico", di ritratti accennati e perciò ancor più vibranti, nato dalla necessità di accendere i ricordi, di bruciare di ricordo: persone, visi e movimenti - in altre parole un frammento di tempo - catturati e consegnati ad una eternità stranita e turbata profondamente dalla tragedia che ha spazzato una comunità. Così avviene avviene anche, ad esempio, nel componimento scritto nell'estate del '43 e dedicato allo studioso di Spinoza, l'insegnante privato Hugo Horwitz, marito claudicante di un'amica, Dora Jablonski. E c'è traccia di una lettera della Sachs indirizzata a Gudrun Dähnert dove scrive dei coniugi Horwitz, deportati a Theresienstadt l'8 settembre 1942. A Theresienstadt i coniugi Horwitz non vi arrivarono mai.
DER SPINOZAFORSCHER [H.H.]
Du last und hieltest eine Muschel in der Hand.
Der Abend kam mit zarter Abschiedsrose.
Dein Zimmer wurde mit der Ewigkeit bekannt
Und die Musik begann in einer alten Dose.
Der Leuchter brannte in dem Abendschein;
Du branntest von der fernen Segnung.
Die Eiche seufzte aus dem Ahnenschrein
Und das Vergangne feierte Begegnung.
LO STUDIOSO DI SPINOZA [H.H.]
Leggevi tenendo una conchiglia in mano.
Con una delicata rosa d'addio giunse la sera.
La tua camera conobbe l'eternità
E la musica cominciò in un vecchio carillon.
Il candelabro ardeva nella luce del tramonto;
tu ardevi della lontana benedizione.
La quercia sospirava dallo scrigno degli avi
E il passato celebrava l'incontro.
(Traduzione di Chiara Conterno)
On parle de:
Chiara Conterno,
Epitaffi scritti sull'aria,
Ida Porena,
Nelly Sachs,
Progedit
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