Si propone di seguito un'analisi del libro La mela nel buio di Clarice Lispector pubblicato in italiano da Feltrinelli nel 1988 (pp. 307, traduzione di Renata Cusmai Belardinelli, libro fuori commercio). La prima edizione de A Maçã no escuro risale al 1961. L'autore del contributo è Ludovico Setten, del quale troverete una breve nota in fondo al post.
LA MELA NEL BUIO: IL DELITTO COME NECESSITÀ PER LA
CREAZIONE DI DIO
La mela nel buio
è il quarto romanzo di Clarice Lispector, nonché il più lungo. È un’opera
complessa e tratta una notevole varietà di temi: è la storia di un uomo
chiamato Martim, che commette un crimine e fugge dalla città in cui vive.
Vagando per la campagna, trova una fazenda
dove inizia a lavorare sotto la supervisione della proprietaria, una donna di
nome Vitoria, e di sua cugina, la giovane vedova Ermelinda. La storia di Martim
è un’allegoria del mito della Creazione, di cui l’autrice analizza i diversi
passaggi.
Innanzitutto, l’uomo si trova nella situazione di
dover liberare se stesso da tutto ciò che lo incatena alla società in cui vive
e per farlo deve intraprendere un’azione che non può essere accettata dal
pensiero dominante: l’uomo deve commettere un crimine. Martim decide dunque di assassinare sua moglie, in modo
tale da liberarsi dalle catene della società. Ma, come fa notare Benjamin
Moser, uno dei principali estimatori e critici di Clarice Lispector, “I peccati
di Martim sono neutrali.”[1] Il protagonista non si
sente affatto colpevole per il suo crimine: perpetrandolo, egli perde ogni tipo
di legame con il mondo convenzionale e in special modo con il suo linguaggio, spostandosi
verso un mondo che può essere percepito come amorale. Martim è divenuto l’ombra
di un uomo la cui unica colpa è di esistere; proprio ciò rappresenta il motivo
per cui viene perseguitato. Una volta arrivato nella fazenda di Vitoria, Martim comincia a lavorare per lei,
ritrovandosi in uno stato di quasi completa sottomissione nei suoi confronti e
agendo automaticamente senza nemmeno pensare. Moser mette in evidenza come, in
questo momento, Martim possa essere paragonato a una figura tipica del folclore
ebraico, il Golem:
È vero che
questa figura non può parlare ma può comprendere, a un certo livello, ciò che
le si dice e comanda. È chiamato Golem ed è usato come servo per ogni tipo di
lavoro casalingo: non può mai uscire da solo. Sulla sua fronte è scritta la
parola Emet (Verità; Dio).[2]
Esattamente come un Golem, Martim non è in grado di
parlare la “lingua comune”, perché sta cominciando a crearne una completamente
nuova; come un Golem, inoltre, egli fa qualsiasi tipo di lavoro nella fazenda.
Le parole
uccidono i sentimenti che esse stesse partoriscono. Il dire modifica il
sentire. E così, esposti a un alternarsi di stati mutevoli che li incatenano a
un flusso e un riflusso imprevedibile, i personaggi di Clarice Lispector sono
più vittime che artefici di un’esperienza interiore che non sono in grado di
controllare, e dove nulla vi è di permanente se non la passione di esistere che
li accomuna.[3]
Le parole del filosofo brasiliano Benedito Nunes
rappresentano esattamente il percorso di Martim verso la follia che, secondo
Lispector, è l’unico modo attraverso il quale l’uomo può raggiungere il cosiddetto
“stato di grazia”, arrivando dunque a conoscere i più sottili e complessi
significati che il mondo in cui vive ha da offrire: in questo caso particolare,
la follia è un “utile strumento per il raggiungimento della conoscenza, non un
mezzo per l’autodistruzione. Eppure, proprio l’autodistruzione ne è il
prerequisito.”[4]
Attraverso l’autodisfacimento, Martim è in grado di guardare le cose da una diversa
prospettiva, comprendendone il loro significato e cercando di descriverle
attraverso il linguaggio degli uomini: ma egli non è più capace di esprimersi
con questo idioma. Ci riuscirà solamente al termine del romanzo, quando sarà
arrestato per il tentato omicidio della moglie.
Prima di ricordare il linguaggio, Martim deve
ricrearsi, rinascere, e per fare ciò deve passare attraverso molteplici e
distinte fasi: deve cominciare con identificare se stesso con altre parti del
mondo.[5] Il personaggio comincia
dunque a evolversi da una roccia a una pianta, a un topo, a una mucca, a un
cavallo e, infine, diventa un uomo. Ecco cosa “trovare un linguaggio” significa
per Clarice Lispector: “il simbolo della cosa nella cosa stessa”.[6] Martim, tornato ad essere
uomo, rinato, deve riscoprire i simboli del linguaggio, in modo tale da
raggiungere la vera essenza delle cose.
In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in
principio presso Dio:
tutto è
stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò
che esiste.[7]
Questo passaggio tratto da San Giovanni rappresenta il
punto di ispirazione di Clarice Lispector per la stesura di La mela nel buio. In questo passaggio
delle Sacre Scritture si può apprendere ciò che Martim deve compiere: creare
Dio attraverso il linguaggio, trovando la singola parola che a dà vita a Dio,
la parola nascosta che egli non riesce a pronunciare e che è la causa del suo
conflitto interiore. “Il nome è un simbolo di Dio ed è Dio, il simbolo della cosa
nella cosa stessa.”[8]
Il protagonista riesce a creare Dio attraverso il linguaggio – Dio è anche
identificato con il linguaggio – e,
con tale creazione, è finalmente in grado di redimersi. Moser scrive: “Il
momento in cui Martim inventa Dio è il momento in cui riesce finalmente a
comprendere la natura del suo crimine: ‘Ho ucciso, ho ucciso, confessò
infine.’ Senza Dio, anche senza un Dio artefatto, non ci può essere il peccato.”[9] Il peccato è la parte più
cruciale nella strada che conduce all’autodistruzione, rappresenta “l’accesso
traumatico alla verità, successivo a una morte simbolica, insomma alla
cancellazione violenta e definitiva della vecchia identità naturale.”[10]
Martim, però, confessando il suo crimine, fallisce nel
suo tentativo di divenire ciò che veramente vuole essere, rimanendo bloccato
nell’essere solo un uomo, restando incompleto. Egli non è in grado di adempiere
alle sue aspettative e perciò si ritira nel mondo da cui proviene: il
cambiamento sussiste nel fatto che ora, nel mondo, egli è considerato un
criminale che deve essere punito, pagando tributo alle leggi della società.
Martim è bloccato tra la “conversione” a un linguaggio puro e nuovo e il suo
vecchio idioma, quello comune, in grado di definire le sue azioni, come il crimine.
Il protagonista de La
mela nel buio può, sotto molti aspetti, essere paragonato a Smerdjakòv, uno
dei protagonisti de I fratelli Karamàzov
di Dostoevskij. Smerdjakòv è il figlio illegittimo di Fëdor Pavlovic e lavora
per lui e i suoi fratellastri Dmitrij, Ivàn e Alekséj. Egli si ritrova
continuamente disprezzato e perseguitato dalla maggior parte delle persone che
lo circondano. Anche lui, al pari di Martim, può essere comparato a un Golem,
in quanto rappresenta una figura che obbedisce ed esegue gli ordini che gli
vengono impartiti in modo da guadagnarsi la fiducia del padrone.
Smerdjakòv, esattamente come Martim, è “colpevole di
esistere”. Egli cresce ascoltando le teorie filosofiche di suo fratello Ivàn,
da cui resta fortemente influenzato:
Se vi è
qualcosa anche al nostro tempo che tuteli la società e redima il criminale
stesso, trasformandolo in un altro uomo, è solo e sempre la legge di Cristo,
che si esprime nel riconoscimento della propria coscienza. Solo riconoscendo la
propria colpa come figlio della società di Cristo, cioè della Chiesa, riconosce
anche la propria colpa dinanzi alla società stessa, cioè dinanzi alla Chiesa.[11]
Martim e Smerdjakòv si riconoscono come colpevoli di
esistere e, per liberarsi, decidono di commettere un omicidio: Martim sceglie
di assassinare sua moglie; Smerdjakòv suo padre. Ancora una volta, il delitto è
l’unica possibilità che il personaggio creato da Dostoevskij trova per
liberarsi, poiché “il delitto non solo deve essere lecito, ma persino
riconosciuto come la più intelligente via d’uscita, la sola necessaria per ogni
ateo!”[12]
All’inizio de La
mela nel buio, Martim è un uomo senza Dio, perché non è ancora riuscito a
crearlo; Smerdjakòv è un ateo, esattamente come suo fratello Ivàn. La
somiglianza tra questi due personaggi salta all’occhio in maniera piuttosto
evidente. Smerdjakòv vive in un mondo le cui leggi affermano che “tutto è
permesso”[13]:
in un mondo senza Dio, dove regna l’amoralità e in cui “tutto è permesso”,
avviene così una legittimazione del crimine, visto come elemento necessario
alla liberazione dell’individuo dalla “colpa di esistere” e, nel caso di
Martim, alla creazione di Dio. Le
storie dei due personaggi, però, si dirigono entrambe verso il fallimento:
Smerdjakòv , poco dopo aver confessato il suo delitto al fratello Ivàn, che
considerava come “la mente” di tutto ciò, commette suicidio. Per lui, la
salvezza e la redenzione si rivelano impossibili.
Un altro interessante paragone può essere quello tra
Martim e Ivàn. Il primo, uccidendo sua moglie, uccide se stesso e tutto ciò che
ha in comune con la società, decidendo in questo modo di guardare da un’altra
prospettiva, distruggendo il riflesso di ciò che era prima. Il secondo agisce
invece con delle modalità del tutto diverse, quasi inconsciamente, avendo però
in mente lo stesso obiettivo: distruggersi per rinascere come un uomo nuovo.
Ivàn vede un riflesso di sé in suo padre e decide di eliminarlo, poiché
riconosce che quella parte di sé è in profonda relazione con la società in cui
vive, società che egli disprezza e aborre. Tuttavia, Ivàn non commette il
crimine: pensa solamente di
assassinare il padre, ma, quando si tratta di perpetuare l’atto omicida, egli
si tira indietro. Il solo pensiero di assassinare il padre è però sufficiente
per fargli raggiungere lo “stato di grazia” in cui si ritrova anche Martim: la
follia. Ivàn infatti, una volta che Smerdjakòv gli confessa di aver ucciso
Fëdor Pavlovic, scivola velocemente nella pazzia: si rende conto che anche solo
il pensiero dell’omicidio è, in sé, un crimine. Esattamente come per Martim, lo
“stato di grazia” della follia consente a Ivàn di vedere le cose per quello che
sono veramente, rendendolo capace di comprendere l’essenza del mondo, ma
contemporaneamente impedendogli di comunicare ciò che vede e conosce: il
linguaggio che egli ha raggiunto non è più umano e, di conseguenza, non può essere
compreso dagli uomini. Le rivelazioni di cui egli si fa carico non possono
essere capite dagli altri, che considerano il farneticare di Ivàn solamente
come sintomo di sopraggiunta pazzia e malattia mentale. Qui sta infatti la
differenza tra il mistico e il folle: il primo è in grado di ricordare il suo
viaggio attraverso lo “stato di grazia” e, soprattutto, di raccontarlo agli
altri; il secondo ne è invece incapace.
Sia Martim che Ivàn finiscono con il rimanere folli,
incapaci di usare il linguaggio dell’uomo per esprimere scoperte che non sono
umane. Un interessante passaggio ne I
fratelli Karamàzov, in cui Ivàn tiene una conversazione con un uomo
identificato come il Diavolo, spiega il senso di mistico e “magico” che il
viaggio attraverso lo “stato di grazia” include:
“Non ti ho
preso per una realtà neanche per un istante” gridò Ivàn quasi furente. “Tu sei
una menzogna, la mia malattia, un fantasma. Solo che non so come distruggerti e
vedo che devo soffrire per un po’ di tempo. Sei la mia allucinazione. Sei
l’incarnazione di me stesso, però di un mio lato soltanto… dei miei pensieri e
dei miei sentimenti, ma solo dei più meschini e stupidi. […]” […]
“Ripeto,
modera le tue pretese; non pretendere da me ‘il grande e il sublime’ e vedrai
come vivremo amichevolmente” disse gravemente il gentleman. “In verità, ti
arrabbi con me perché non ti sono apparso in una nube rossa, ‘tuonante e
abbagliante’, con ali infuocate, ma mi sono presentato sotto un aspetto tanto
modesto. […]”[14]
Martim, proprio come Ivàn, non può comunicare ciò che
ha imparato perché non riesce a esprimerlo attraverso un linguaggio umano, dato
che ciò che ha appreso non è di umana natura: Dio non è umano e, pertanto, è
estremamente complesso testimoniarne l’esistenza tramite l’utilizzo di umana
favella. Questo è proprio il motivo per cui Martim fallisce: confessando il suo
delitto alla polizia, egli si ritrae nuovamente verso il mondo delle
convenzioni umane, dove il Dio che ha appena scoperto non esiste e in cui le
azioni che gli hanno consentito di trovarLo sono considerate come criminali e,
quindi, da punire.
Tuttavia, un’altra domanda deve essere posta: Martim è
perseguitato e ricercato solamente a causa del crimine che ha commesso? René
Girard, ne Il capro espiatorio, mette
in evidenza alcune delle caratteristiche tipiche di persone che sono oggetto di
persecuzione:
Accanto ai
criteri culturali e religiosi ve ne sono di puramente fisici. La malattia, la follia, le deformità genetiche, le
mutilazioni accidentali e perfino le infermità in generale tendono a
polarizzare i persecutori. […]
L’infermità
s’inscrive in un insieme indissociabile di segni vittimari, e in certi gruppi –
un internato scolastico, per esempio – ogni individuo che prova delle
difficoltà di adattamento, lo straniero, il provinciale, l’orfano, il figlio di
famiglia, lo squattrinato o semplicemente l’ultimo arrivato, è più o meno
intercambiabile con l’infermo.
Quando le
infermità o le deformità sono reali, tendono a polarizzare gli spiriti
‘primitivi’ contro gli individui che ne sono afflitti. Parallelamente, quando
un gruppo umano ha preso l’abitudine di scegliere le sue vittime in una certa
categoria sociale, etnica, religiosa, tende ad attribuire a questa categoria le
infermità o le deformità che rafforzerebbero la polarizzazione vittimaria se
fossero reali.[15]
La follia e la diversità, dunque, di pari passo con
l’aspetto fisico, rappresentano segni di persecuzione; la stessa analisi può
essere effettuata per spiegare la persecuzione di cui è vittima Smerdjakòv ne I fratelli Karamàzov. Sia Martim che
Smerdjakòv sono perseguitati anche per via della loro condizione sociale[16], fattore assolutamente
non secondario dato che, agli occhi dei persecutori, le vittime sono percepite
come diverse. Il diverso crea uno
stato di crisi (qui intesa nel suo
senso originale: dal greco krisis,
ovvero separazione, divisione, scelta, giudizio) e viene dunque trasformato dai
persecutori in un capro espiatorio, al fine di risolvere i problemi di cui
teoricamente è l’origine.
Arrestando Martim, Vitoria, Ermelinda e tutti gli
altri decidono di eliminare il diverso, tornando alla situazione di presunto
equilibrio in cui si trovavano prima del suo arrivo, rifiutando di evolversi:
Martim diventa dunque lo strumento per giustificare la loro inattività, la loro
staticità. La mela nel buio è,
dunque, un libro che parla del fallimento e dell’incapacità di comunicare
dell’umanità.
La mela nel buio
non è solamente un romanzo sulla ricerca di Dio: descrive ed analizza il
percorso che un uomo intraprende per raggiungere la propria identità.
Ma come
facciamo a produrre la nostra identità, la nostra distinzione, se non
attraversando ciò che noi non siamo,
e cioè quindi se non ponendoci in relazione, riflettendoci con ciò che non
siamo? A non è non A. Per produrre,
per conquistare – se volete – la nostra identità noi dobbiamo lavorare in
relazione, mediandoci costantemente con ciò che noi non siamo, riconoscendo ciò
che noi non siamo per poterci conoscere. Non c’è nessuna identità nostra prima di questa fatica, prima di questo lavoro.
Noi ci produciamo individui, non nasciamo
individui. […] Noi tendiamo a pre-supporre
la nostra identità, e poi eventualmente
accade che ci sia la relazione di A con altro da sé: io sono io, e poi mi accade forse di conoscere altro da me. […] In
fondo, che cosa significa il logos
eracliteo che va ascoltato per
sfuggire all’idioma dell’idiòtes[17] […]? Cos’è quest’appello
eracliteo all’ascolto? […] La vera identità si produce attraverso l’ascolto di
qualcosa che non è già implicito nella nostra, appunto, idiota individualità. La nostra identità si costruisce nel
confronto e nell’ascolto con una dimensione che è altra rispetto al nostro idioma privato: e finchè restiamo
nell’ambito del nostro idioma privato siamo come dormienti, che non ascoltano il cum[18], poiché la nostra
identità si determina soltanto nel cum,
che è questa dimensione dell’ascolto: quando ascolto io sono ciò che ascolto.[19]
Molte somiglianze tra le parole di Cacciari e il
comportamento di Martim possono essere trovate. Innanzitutto, si può notare
come il protagonista, una volta commesso il crimine, e dunque dopo essere
rinato, è in continua ricerca della sua identità: identità che non è nata con
lui, ma che deve essere costruita lentamente e pazientemente, passo dopo passo,
tramite la comparazione con ciò che egli sente non essere lui. Come detto in precedenza, Martim cerca di
identificarsi con una varietà di cose: una roccia, una pianta[20], un topo, una mucca e un
cavallo. Infatti, il primo pensiero del protagonista dopo la sua rinascita è:
chi sono? Ovviamente Martim non è nato con la risposta, la deve cercare,
analizzando le cose che lo circondano e comprendendo se può avere un rapporto
di comparazione con loro. Ecco perché egli comincia ad ascoltare tutto ciò che lo circonda, cerca di identificarsi con
ogni cosa per capire se è effettivamente come
quella determinata cosa. Una volta constatata la diversità che lo distingue dai
termini di paragone, Martim arriva alla conclusione di non essere né una roccia, né una pianta, né un topo, né una mucca,
né un cavallo: egli è finalmente un uomo.[21]
Clarice Lispector ha compreso molto bene questo
meccanismo, e ne è completamente consapevole: non è infatti un caso che la
prima parte del romanzo sia intitolata “Come si fa un uomo” e la seconda
“Nascita dell’eroe”. Quella di Lispector non è infatti solo una scelta
stilistica: l’autrice è completamente conscia dell’importanza espressiva e
specifica delle parole; sa molto bene quanto arduo e tortuoso sia il cammino
che conduce all’identità e, in quest’opera straordinaria, riesce nell’intento
di sottolineare e descrivere i vari stadi che l’essere umano deve attraversare
per trovare e capire ciò che veramente è, diventando, infine, un individuo.
Solo tramite la costruzione di un idioma, e dunque attraverso la comparazione
con ciò che si percepisce come diverso, è possibile per l’uomo raggiungere la
piena individualità, l’identità.
Bibliografia
· Bloch, Chayim. The Golem: Legends of the Ghetto of Prague. Vienna: The Golem, 1925
Cacciari, Massimo. “Identità e alterità”. Conferenza tenutasi a Montebelluna, Italia, il 2 febbraio 2002: https://provedivolo.files.wordpress.com/2012/09/identitc3a0-e-alteritc3a0-massimo-cacciari.pdf
· Dostoevskij, Fëdor. I Fratelli Karàmazov. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1994
· Girard, René. Il Capro Espiatorio. Milano: Adelphi Edizioni, 1987
· Lispector, Clarice. Vicino al Cuore Selvaggio. Milano: Adelphi edizioni, 2003
· Lispector, Clarice. La Mela nel Buio. Apparso in: Lispector, Clarice. Le Passioni e i Legami. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Edizioni, 2013
· Moser, Benjamin. Why This World. A biography of Clarice Lispector. Londra: Penguin Books Ltd, 2014
· Nunes, Benedito. “Dalla concezione del mondo alla scrittura”. Rivista di Cultura Brasiliana – Clarice Lispector: la parola inquieta. Roma: Ambasciata del Brasile a Roma, 2013
· Trevi, Emanuele. “Sola come Clarice”. Apparso in: Lispector, Clarice. Le Passioni e i Legami. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Edizioni, 2013
[1]
Benjamin Moser, “Redemption through Sin” in: Why this World, (2014, Penguin Books Ltd, Londra), 219. La traduzione dall’inglese
all’italiano delle citazioni dalle opere di Moser è mia.
[2]
Jacob Grimm, citato in: Chayim Bloch, The
Golem: Legends of the Ghetto of Prague, 26-27, a sua volta citato in:
Benjamin Moser, “Redemption through Sin”, in: Why this World, 229
[3] Benedito Nunes, “Dalla concezione
del mondo alla scrittura”, in Rivista di
Cultura Brasiliana – Clarice Lispector: la Parola Inquieta, (2013,
Ambasciata del Brasile, Roma), 22
[4]
Benjamin Moser, “Redemption through Sin”, in: Why this World, 219
[5] È di fondamentale importanza, al
fine di comprendere questo passaggio, considerare il notevole apporto che la
filosofia di Spinoza ha avuto su Lispector, in particolar modo i passaggi
riguardanti l’identificazione di Dio con la Natura, tema fondamentale nella
poetica dell’autrice brasiliana.
[6] Clarice Lispector, Vicino al Cuore Selvaggio”, (2003,
Adelphi Edizioni, Milano), 45
[7] San Giovanni, (1, 1-3) in: Sacra Bibbia (Conferenza Episcopale
Italiana)
[8]
Benjamin Moser, “Redemption through Sin”, in: Why this World, 226
[9] Ibid., 228
[10] Emanuele Trevi, “Sola come
Clarice”, in Clarice Lispector, Le
Passioni e i Legami, (2013, Giangiacomo Feltrinelli Edizioni, Milano), 12
[11] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, (1994, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano), 90-91
[12] Ibid., 98
[13] Ibid., 873
[14] Ibid., 881, 895
[15] René Girard, Il capro espiatorio, (1987, Adelphi Edizioni, Milano), 37-38
[16] “Al limite, tutte le qualità
estreme sono quelle che attirano, di tanto in tanto, i fulmini collettivi: non
soltanto gli estremi della ricchezza e della povertà, ma anche quelli del
successo e dell’insuccesso, della bellezza e della bruttezza, del vizio e della
virtù, del potere di seduzione e del potere di essere sgradevoli; è la
debolezza delle donne, dei bambini, dei vecchi, ma è anche la forza dei più
forti che diventa debolezza davanti al numero. È abbastanza regolare che le
folle si rivoltino contro quelli che hanno esercitato su di loro un ascendente
eccezionale.”
Ibid., 39
[17] Qui le parole idioma e idiota vanno
intese nel loro senso originale: dal greco idiòma
e idios, che significano
rispettivamente caratteristica specifica
e uomo privato e, dunque, opposto di uomo pubblico, che non è esperto.
[18] Attenzione al significato completo
del termine latino cum: significa sia
con, insieme a e contro.
[19] Questo passaggio è tratto da una
conferenza intitolata “Identità e alterità”, tenuta dal filosofo Massimo
Cacciari a Montebelluna il 2 febbraio 2002. Si può trovare in formato PDF
all’indirizzo:
https://provedivolo.files.wordpress.com/2012/09/identitc3a0-e-alteritc3a0-massimo-cacciari.pdf
[20] “E là era bello. Là nessuna pianta
sapeva chi era lui; e lui non sapeva chi era lui; e lui non sapeva quello che
erano le piante; e le piante non sapevano quello che erano loro. Eppure tutti
erano così vivi quanto si può essere vivi: probabilmente era questa la grande
meditazione di quell’uomo. Come il sole brilla e come un topo è soltanto un
grado più in là della grossa foglia piatta di quella pianta – questa era la sua
meditazione.” In: Clarice Lispector, La
Mela nel Buio, in Le Passioni e i
Legami, 200.
[21] “Oscuramente, si turbava perché
cominciava a sentirsi superiore alle piante, e perché si sentiva in un certo
senso uomo se rapportato ad esse.” Ibid., 201.
Ludovico Setten è nato a Treviso nel 1994 e si è laureato in Lingue, Civiltà e Scienze del Linguaggio presso l'Università Ca' Foscari - Venezia. Le lingue e letterature comparate, europee ed extraeuropee, sono diventante l'area disciplinare privilegiata dei suoi studi universitari. Il suo ambito di ricerca spazia dalla letteratura in lingua inglese, francese, spagnola e portoghese. In questo momento frequenta il corso di laurea specialistica in Francesistica presso l'Università Ca' Foscari - Venezia.