venerdì 29 giugno 2018

Piccola Biblioteca a caccia di immagini?

©overtures #17



Qualche trasgressione a una gabbia grafica solitamente sgombra si è vista altre volte nella "Piccola Biblioteca", la collana forse più nota della casa editrice dei "libri unici", quella che sogna-disegna-costruisce passo passo il proprio lettore seriale (non a caso compare il numero progressivo del volume in copertina e sul dorso, chiaro monito ai collezionisti). Nella maggior parte dei casi lo schema però è dato: colore cangiante ma scelto con criterio (Nietzsche giallo, Bennett rosa, verdino Flaiano, Schopenhauer arancione ecc.), nome dell'autore, titolo, emblema/nome dell'editore e cornicetta. Viene da chiedersi se due recenti proposte collocate in questa collana, Ombre giapponesi di Lafcadio Hearn Giorni tranquilli a Clichy di Henry Miller (da poco in libreria), ci dicano però di una stanchezza di questa pulizia oppure di una rinuncia all'immagine di copertina che rischia di diventare un lusso persino per una collana che ha costruito la propria immagine sull'assenza di immagine. Naturalmente queste sono valutazioni estemporanee, fatte sulla base di un rapido giro in libreria, ma è sempre curioso seguire il diorama delle copertine in un mondo dove si pubblica tanto, si legge abbastanza poco, si rende molto e si va al macero (anche se non è questo il caso di chi è "editore di catalogo"). Almeno le copertine restano e le vediamo in tanti e dicono qualcosa dell'editore che propone determinati titoli. A volte le copertine sono dei sintomi. Potrebbe benissimo essere che queste trasgressioni della Piccola Biblioteca di Adelphi (c'è anche la Piccola Biblioteca Einaudi, per parlare di nomi di collana) siano perfettamente calcolate, con il fine di rafforzare quella che rimane una collana aniconica, eccezione fatta per l'emblema della casa editrice. Non credo che queste trasgressioni della norma possano diventare molto frequenti, pena la destabilizzazione di un formato così consolidato. Allo stesso tempo tuttavia mi pare percepibile una certa inquietudine della gabbia e una pressione a forzarla più spesso. E la questione delle copertine rimane per ora tutt'altro che secondaria.



mercoledì 27 giugno 2018

"Sistema periodico: il secolo interminabile delle riviste". Il secondo appuntamento con Origami. Altri usi della carta a Treviso

In vista della seconda serata della rassegna "Origami. Altri usi della carta" che si terrà a Treviso martedì 3 luglio 2018 negli spazi di Treviso Ricerca Arte (informazioni qui, evento Facebook qui) pubblichiamo di seguito l'introduzione al volume Sistema periodico: il secolo interminabile delle riviste (Pendragon, 2018) a cura di Francesco Bortolotto, Eleonora Fuochi, Davide Antonio Paone e Federica Parodi. 
A Treviso interverranno Franco Baldasso (Bard College, New York), Francesco Bortolotto, Eleonora Fuochi e Federica Parodi (Università di Bologna).


Introduzione

«Sistema periodico: il secolo interminabile delle riviste» vuole essere anzitutto un volume di passaggio. Esso non ha la pretesa di porsi come meta conclusiva della ricerca e dello studio, ma di diventare un utile compagno di viaggio, una lettura in itinere dell’evoluzione del sistema-rivista nel corso del Novecento. Vorrebbe altresì farsi passaggio: da un lungo lavoro compiuto a uno ancora da stabilire e svolgere, proiettato, noi speriamo, in un futuro prossimo. Il progetto Sistema periodico nasce nel 2016 su iniziativa di un ristretto gruppo di studenti, alcuni dei quali sono ora i curatori di questo volume. In origine esso voleva proporsi come spazio di confronto e condivisione all’interno dell’Università di Bologna. L’auspicio era quello di predisporre una piattaforma di dialogo organizzata, gestita e rivolta da e per gli studenti; uno spazio laboratoriale in cui ascoltare chi sulla materia aveva speso gran parte della propria vita e poter cimentare i nostri strumenti ancora in corso di formazione, poter in qualche modo contribuire alle dinamiche critiche e convogliare l’entusiasmo degli studenti che ogni giorno vivevamo in prima persona. Fu così che nell’ottobre di quell’anno si decise di proporre l’idea a Stefano Colangelo, il quale non solo l’accolse con entusiasmo, ma consentì anche di dare forma concreta al progetto. Grazie alla sua mediazione, e con l’approvazione del dipartimento di Italianistica, siamo giunti alla creazione di un vero e proprio laboratorio didattico, inserito a tutti gli effetti nel curriculum della laurea magistrale di Italianistica e Scienze Linguistiche.
Una volta realizzata la possibilità di strutturare un progetto che partisse dagli studenti, ma che riuscisse parimenti a coinvolgere nella riflessione esperti e accademici, reputammo essenziale scegliere un tema che fosse utile al nostro percorso di studi e, al contempo, lasciato ai margini dei tradizionali programmi universitari. Si decise di indirizzare il progetto verso una trattazione sistematica delle riviste letterarie del Novecento italiano.
La scelta nacque alla luce di alcune considerazioni: ci accorgemmo innanzitutto che le riviste costituiscono uno degli strumenti di raccordo ineludibili per comprendere i passaggi più importanti della storia del XX secolo. Poi, sempre con quest’ottica retrospettiva e appassionata, fummo presi anche da un poco di malinconia: noi quelle riviste – ossia lo strumento per leggere la storia che si stava scrivendo – non le abbiamo potute leggere. Infine constatammo che, probabilmente, senza le riviste molti degli autori che leggiamo e amiamo non li avremmo mai conosciuti. Ma c’è una ulteriore, forse più cogente, motivazione. Studiando e discutendo ci parse spesso che in alcune semplificazioni la letteratura fosse vista come una concatenazione di fatti, opere, date, autori, correlati certo tra loro, ma ognuno impegnato a portare avanti il proprio discorso. Sappiamo bene che non è così e che la letteratura è qualcosa molto più complesso e intrigante. Guardando alle riviste ci sembrò che potessero costituire l’emblema di una letteratura che non procede per soliloqui, una letteratura come processo inesauribile che si costituisce come fatto sociale e antropologico, che quindi si affianca all’uomo nel suo continuo mutare.
Tra le varie denominazioni che il secolo appena passato si è guadagnato nel suo breve, eppure intenso e indelebile passaggio, ce n’è una che fa il caso nostro: Novecento, “il secolo delle riviste”. Novecento e riviste: come se l’uno si rispecchiasse nell’altro, o come in un rapporto di causa-effetto (decidete voi quale sia la causa e quale l’effetto). Due fenomeni, insomma, che coesistono, che coabitano e che proprio in virtù di questa convivenza iniziano a somigliarsi. Da qui il titolo – proposto inizialmente da Stefano Colangelo come un richiamo citazionistico in riferimento a Primo Levi – assunse progressivamente una forza evocativa cui non siamo riusciti a rinunciare. L’intento è quello di indagare un meccanismo che pone a sistema i periodici letterari a partire dalla seconda metà del Novecento (con le dovute retrospettive alla prima parte del secolo) per arrivare a discutere sulle questioni contemporanee inerenti al ruolo della rivista, all’avvento di internet e alla produzione letteraria – specialmente poetica – entro il nuovo contesto che a partire dagli anni Duemila sta prendendo forma. Un vero e proprio Sistema periodico, dunque. Quasi a indicare che il cambio di episteme auspicato dall’avvento del post-modernismo continui a essere rimandato in favore di una protuberanza sempre più lunga del Novecento, per via delle indubbie caratteristiche di continuità.

Nel tentativo di fornire delle coordinate per orientarsi entro questo “secolo interminabile” abbiamo ritenuto necessario organizzare il materiale rimanendo fedeli all’evoluzione cronologica, cercando al contempo di tessere un discorso proiettato alla situazione odierna. Il lavoro prova a rispondere ad alcuni quesiti fondanti, partendo dallo strumento rivista (inteso alla maniera novecentesca), e coinvolgendo questioni riguardanti la produzione poetico-letteraria e la sua diffusione in relazione ai nuovi contesti che si stanno costituendo. Naturalmente una trattazione completa dell’argomento avrebbe richiesto uno spazio decisamente più ampio e un lavoro differente, ma è nostra convinzione che porre in essere la problematizzazione di tale discorso significhi gettare le fondamenta affinché si sviluppino riflessioni di più lungo corso. La scelta è stata dunque quella di suddividere il volume in cinque parti: la prima è un’introduzione allo strumento rivista che caratterizzò il secolo scorso; la seconda una retrospettiva storica rispetto alle riviste del primo Novecento; la terza, più approfondita perché ci consente di entrare nel merito del discorso sulla contemporaneità, è costituito da otto approfondimenti su alcune delle riviste del secondo Novecento, le quali ci sono parse più significative per descrivere il peso che la rivista ha avuto sul piano storico-letterario. Con la quarta parte si apre il discorso sulla produzione poetica contemporanea in relazione agli spazi e alle forme – dunque al contesto in cui si situa – a partire dal nuovo millennio, mantenendo sempre al centro l’ormai labile strumento rivista (il discorso sulla poesia si chiude con una tavola rotonda tra Vincenzo Frungillo, Gianluca Rizzo e Ivan Schiavone, poeti tra loro molto diversi ma che condividono uno sguardo per certi versi comune); la quinta parte è il tentativo di avviare alcune riflessioni riguardo allo sviluppo delle riviste e della letteratura a seguito dell’avvento di internet, chiamando in causa, in ultimo, la voce di alcune delle riviste più interessanti in attività.
Unica avvertenza che ci sentiamo in dovere di fare è la seguente: il presente studio non ha lo scopo di proporsi come fonte esauriente ed esaustiva dell’argomento, ma come insieme composito di approfondimenti. Consigliamo dunque di utilizzare il volume come strumento di accompagnamento alla lettura e allo studio delle riviste. Questo significa, dunque, che la lettura dei saggi non sostituisce quella dei periodici, ma la supporta e la fortifica. La raccomandazione è quella di cercare le riviste, prenderle in mano, sfogliarle, scoprire la loro materialità, assieme alla stupefacente storia di cui sono portatrici.

[...]

Franco Baldasso è direttore delll'Italian Program di Bard College, NY, dove è Assistant Professor di Italian Studies. Nella sua ricerca esamina la complessa relazione tra Fascismo e Modernismo, l'eredità della violenza politica in Italia e l'idea del Mediterraneo nell'estetica moderna e contemporanea. Ha scritto il libro Il cerchio di gesso. Primo Levi narratore e testimone (Pendragon, 2007) ed è co-editore della pubblicazione di Nemla-Italian Studies intitolata “Italy in WWII and the Transition to Democracy: Memory, Fiction, Histories.” Sta lavorando a un libro titolato provvisoriamente “Against Redemption: Literary Dissent during the Transition from Fascism to Democracy in Italy.” Scrive per il sito publicbooks.org ed è membro della redazione della rivista "Allegoria" e fa parte del comitato scientifico dell'Archivio della Memoria della Grande Guerra del Centro Studi sulla Grande Guerra "P. Pieri" di Vittorio Veneto.

Francesco Bortolotto è autore del paragrafo 3.d («Caro Vitt»: Leonetti racconta il «Menabò»), co-autore del paragrafo 3.i (Una crepa nel sistema: dalla crisi di Quindici alla ricostruzione di Alfabeta), curatore del paragrafi 3.f (Paradossale classicismo: «Botteghe Oscure» e «Paragone Letteratura») e 3.g (Marcatré). 
Eleonora Fuochi è co-autrice del paragrafo 5.b (Cultural studies: un problema di politica culturale), curatrice dei paragrafi 2.b (Le riviste sotto il regime fascista), 3.e (il verri), 3.h (Ciclostilati in proprio: la critica dei Quaderni piacentini), 4.c (La (forma) rivista come forma della ricerca) e 5.c (La voce delle riviste). 
Davide Paone è co-autore del paragrafo 3.i (Una crepa nel sistema: dalla crisi di Quindici alla ricostruzione di Alfabeta), curatore dei paragrafi 1 (Percorsi tra le riviste del Novecento), 3.a (Le riviste del secondo Novecento), 3.c (Uno sguardo al Politecnico), 4.a (Lo spazio della poesia e la rete), 4.b (Di forme e formati. Appunti sui modi di presenza della poesia contemporanea) e le parti di Vincenzo Frungillo e Ivan Schiavone del paragrafo 4.d (La voce dei poeti: il contesto, la poesia, la rivista). 
Federica Parodi è co-autrice del paragrafo 5.a (Riflessioni sull’informazione digitale nella critica letteraria), curatrice dei paragrafi 2.a (Rinnovamento culturale e peso del passato. Lacerba e il futurismo) e della parte di Gianluca Rizzo del paragrafo 4.d (La voce dei poeti: il contesto, la poesia, la rivista).

sabato 23 giugno 2018

"Fra me e te la verità. Lettere a Muska" di Nicola Chiaromonte

Quote #20

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Non è molto che è uscito per Donzelli il libro Nicola Chiaromonte. Una biografia di Cesare Panizza. Facendo un passo indietro di qualche anno, sempre Cesare Panizza, assieme a Wojciech Karpiński, compare tra i curatori del libro Fra me e te la verità. Lettere a Muska (Una città, pp. 312, euro 18). Il volume ritratto qui a lato restituisce solo una parte di una corrispondenza enorme che l'intellettuale lucano, che visse tra il 1905 e il 1972, intrattenne negli ultimi anni della sua vita con Mother Jerome, al secolo Melanie von Nagel Mussayassul (1908-2006), monaca benedettina che viveva negli Stati Uniti. Quando si scrive enorme si intende davvero enorme: si parla infatti di una media di tre missive a settimana per un totale di circa 1200 lettere. La cornice temporale dello scambio va dal 1967 fino alla morte di Chiaromonte, circa un lustro quindi. Si tratta di una testimonianza straordinaria, in tutti i sensi di questo aggettivo inflazionato: straordinaria perché infrequente e rara anche nel valore, straordinaria per quello che vi si può trovare e leggere all'interno. Già che una suora potesse intrattenere una corrispondenza del genere fu un'eccezione, e difatti Mother Jerome aveva ottenuto un permesso speciale per poter alimentare questo dialogo.

Questo atomo di lettere colpisce e uncina in modo indelebile chi prova a guardarci dentro, con il suo nucleo accarezzato e con gli orbitali degli elettroni indeterminabili e vitali. Ogni passo e spostamento di questa corrispondenza-fiume vibra in un'aria che cambia spesso direzione, densità e temperatura, anche quando l'argomento è una rappresentazione napoletana de I Cenci di Artaud con un'Adriana Cipriani che secondo Chiaromonte potrà diventare una "vera attrice (se non si lascia afferrare dal cinema o guastare dal successo)", in una cornice partenopea dal mare grigio, strada rumorosa e "Xmas decorations" meno orribili di quelle di Roma oppure anche quando un postscriptum verte sull'accettazione dell'incarico di critico drammatico a "L'espresso" ("notizia non molto importante"). A Chiaromonte piace scrivere a Mushka "sulla carta intestata di questi alberghi dove capito". Questo libro restituisce, parzialmente ma in modo efficace, un lustro di un dialogo che ha tutta l'aria di essere stato poderoso nella sua interezza.


* * * *

Roma, 11 maggio 1967


Mushka carissima,
nel chiudere la lettera, ieri sera, ne è caduto il francobollo qui accluso.

È un buon pretesto per continuare a parlarti.
Vorrei discorrere un po' con te sulla ricerca del "primordiale": quel tuo scendere a tastoni nelle viscere della terra, così bene espresso in "stufen"*.
Sì, bisogna anche scendere nelle viscere della terra, interrogare segni lasciati dagli uomini che abitavano la terra in età lontanissime - e certo il volto della fanciulla neolitica ha un "messaggio" profondamente commovente. Ma non credi che il vero sforzo sia di rintracciare il fondo dell'essere nei volti dei nostri compagni di vita, travolti e oscurati come sono? E non solo nei volti - ma nei passi, nei modi d'essere, nelle parole - il cercare di misurare la distanza che separa noi e loro da una possibile verità, dalla "realtà vera"?
In altri termini, la ricerca del primordiale è pericolosa, e non tanto perché può finire in un miraggio: il miraggio di credere che ciò che è più elementare, più inarticolato, più contrastato dal peso oscuro del mondo e di un essere indecifrabile sia più vero. Mentre a me sembra che il Partenone o la piazza del Campidoglio siano più, e non meno, "veri" (=belli anche) del palazzo di Cnosso, diciamo - o degli idoli delle Cicladi.
L'equilibrio - il punto di verità - è difficile trovarlo, certo. E noi siamo sovraccarichi di ornamenti - fin dal Rinascimento almeno - e da lì vengono quasi tutti gli equivoci culturali (e religiosi) in cui ci dibattiamo.
L'argomento è lungo e complicato. Vedi gli accenni di Caffi al "razionalismo unitario" che pesa sulla nostra civiltà fin dal Cinquecento.
Vorrei poter esercitare un po' di magia (io che non sono mago affatto...) e toglierti almeno il dolore fisico che ti affligge, Mushka diletta.
Nicola


* Tedesco, "gradini"

giovedì 21 giugno 2018

I cambi di stagione: solstizio d'estate


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.


Infanzia


Bisogna avere un pensiero nascosto,
e con questo giudicare di tutto, continuando
a parlare tuttavia come il popolo.

Blaise Pascal, Pensieri


Quel che ci veniva meglio era
mangiare il ferro 
dopo spaventi lunghi una guerra,
vibrare alle immagini malcerte
più sono tempo uso o linea…
E soltanto dopo, ricordare: l’anguilla nel mastello
bianco al mercato se era viva,
le canalette quando curvano, 
il sifone nascosto
fra le canne rade del bambù.
Il potere che è argilla, gli inerti,
la catastrofe del cervello
che non aiuta a passare.
……………………….
……………………….
               Intanto piano
usciamo da questa serpe di binari
che tengono i treni fermi a lato
nell’aria che sferraglia. Si sobbalza
nel lento siero
che è restare a guardare. Se ti sposti
lo vedi un poco da qui:
siamo un pozzo tondo
e neanche tanto fondo.
Dentro sono caduti 
senza fare onde
gli orari dei treni di tutto il mondo.
Sai quel diteggiare sui bottoni dei cappotti?
Non vedremo tundre e steppe però,
non avremo una casa nella prateria.
Darsi alla macchia non è una scelta.
Un muro bianco diga di un liquido nero.
Così, naufraghi di vero senza intero.

sabato 16 giugno 2018

"Muga-muchū" di Philippe Forest

Nella collana "Microgrammi" di Nonostante Edizioni appare Muga-muchū di Philippe Forest (traduzione di Gabriella Bosco, pp. 164, euro 16, con una introduzione dell'autore). Il libro costituisce una tappa della lunga frequentazione tra la traduttrice, che ha firmato quasi quasi tutte le traduzioni italiane, e quest'autore francese che in passato trovò ospitate diverse sue opere nel catalogo di una casa editrice tanto interessante quanto presto scomparsa dai radar schizofrenici dell'editoria: la padovana Alet. E come già ricordato un'altra volta, per uno scherzo geografico è una casa editrice collocata all'Est del nostro paese, a Trieste, a intraprendere un percorso ostinato e convincente di perlustrazione della narrativa e saggistica francese contemporanea (Robbe-Grillet, Duras, Cayrol, Simon, Sarraute, Cendrars e Bessette tra altri). Nel caso di Forest assistiamo all'ennesimo episodio di fascinazione di scrittori francesi per la tradizione, cultura e storia giapponesi (quasi un filone editoriale a sé stante lì, a Ovest). Muga-muchū è composto di tre parti: la corposa presentazione dell'autore, a tratti imbarazzata come è giusto che sia ogni prefazione, ma comunque non nociva, il radiodramma intitolato 43 secondi e infine Storia del fotografo Yōsuke Yamahata, il quale documentò l'immediato aftermath di Nagasaki con la propria macchina fotografica. La coppia di brevi testi si presenta quindi come un dittico su Hiroshima e Nagasaki, su un prima (nel radiodramma "tutto succede prima" dell'impatto al suolo) e un dopo, quando un inaudito evento distruttivo sancisce inesorabilmente una fine e un nuovo devastato inizio. Il radiodramma prende il titolo dai secondi impiegati dalla bomba per impattare al suolo e si configura come un dialogo spettrale tra il pilota statunitense al comando di uno degli aerei della missione e una donna giapponese che si trova nei dintorni della città. Con il secondo testo, assai più lungo del primo, siamo davanti a un altro genere di "documentalità" e possibilità della testimonianza.

Questa proposta si inserisce nel perpetuo filone della testimonianza degli eventi tragici del secolo scorso, dell'impossibilità e dei sensi della colpa di chi sopravvive e testimonia. C'è inoltre un chiaro riferimento e concentrazione attorno all'annientamento. Lo stesso titolo "Muga-muchū" rimanda a qualcosa come "senza coscienza" e si riferisce a soggetti "privi di sé, in balia del vuoto, persi nell’estasi di un annientamento in cui svanisce ogni certezza di essere ancora qualcuno". È una perdita anche di orizzonte morale per Forrest, che nella sua nota introduttiva si ritrova a ricordare il più volte discusso caso di Claude Lanzmann e del suo mega-film Shoah. Al fondo vi è un ragionamento sulla sopravvivenza che svilupperà nei due scritti racchiusi dal libro. I protagonisti sono tutti sopravvissuti e vivono il dilemma scorticante del prendere parola prima/dopo un evento d'annientamento totale. Di qui, il passo è breve per passare a scorrere lungo uno degli assi sui quali la vicenda della letteratura ha sempre galoppato: ci si riferisce chiaramente alle possibilità e varietà della testimonianza e delle sue non meno varie aporie. Come si valuta il grado di purezza di una testimonianza? In quali direzioni si sviluppa una scrittura testimoniale? Cosa passa e cosa rivive della testimonianza in un contesto - letterario, ma alla fine generale - fatto di citazioni e di riuso/riciclo dei materiali all'interno di un flusso che continuamente ridefinisce sé stesso e il contesto nel quale scorre? Sono queste alcune delle questioni delicate che il senso testimoniale della scrittura ancora mette in campo, anche in testi come quelli di Forest proposti in questo recente libro di Nonostante Edizioni.


giovedì 14 giugno 2018

"La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che...". Qualche riflessione di Cesare Viviani

Pare proprio che abbia voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa Cesare Viviani, improntando questo scritto costituito per frammenti di pensieri e accumuli e dedicato allo stato in cui versa la poesia contemporanea, a chi la fa, ai versificatori distinti dai poeti, alla critica militante che non sa più scegliere e distinguere, ai giovani o meno giovani poeti che pensano di conoscere l'opera di un autore avendo letto qualche testo in Internet o su antologie, alle parrocchie dell'autocelebrazione e dello spalleggiamento compulsivo, alle disgrazie biografiche dei poeti elevate a pubblicità della peggior specie ecc. Le riflessioni che ne conseguono ora trovano forma in un libretto brevissimo proposto da Il Melangolo e intitolato La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che... (pp. 76, euro 7). Il titolo è un filo cerchiobottista. Che dire a lettura ultimata? Ci sono dei punti che si possono condividere facilmente, tanto sono evidenti, persino ovvi. C'è da dire che fanno sorridere simpaticamente gli incisi, come quando Viviani dice che vorrebbe essere "tollerante, equilibrato, saggio" come Valerio Magrelli, e invece resta un toscano piuttosto caldo di temperamento che si prende grandi arrabbiature, oppure quando ricorda una dedica tanto memorabile quando essenziale di Rondoni, nel 2016: "a Viviani Rondoni". 

C'è un livello distinto di riflessioni di questa lamentatio, che intende rappresentare anche la parte costruttiva di un discorso che si avvita spesso attorno a parole come "limite" o "vuoto" (quello che le parole della poesia fanno attorno a sé). Verso la fine Viviani estende un vero e proprio invito ad appartarsi, a isolarsi, e torneremo su questo punto proprio in chiusura. Lungo lo scorrere del testo si chiede che senso abbiano certe tirature dei libri di poesia quando con 40-50 copie si può accontentare il cerchio di amici che sono disposti a leggere e abitare con l'opera poetica, senza doverla leggere per dovere d'ufficio o per un istinto che definirei glamour (Viviani non usa questa parola che impiego per provare a sintetizzare). Ora credo sia facile rintracciare tra le righe uno sconforto per lo stato in cui la poesia - intesa come sistema, quindi come insieme di più parti che portano un qualche interesse - è giunta ai giorni nostri. Nel finale Viviani si rivolge direttamente ai più giovani, quasi il suo fosse un appello. Ha chiaramente ragione da vendere quando rivendica la lontananza della poesia dai centri di potere (anche se non è sempre stato così, la poesia è stata anche al servizio del potere, compresa certa poesia che leggiamo dopo millenni come un classico), oppure quando parla di critici che diventano polemisti nel gran mercato delle opinioni. Insomma, il tessuto è chiaramente disgregato e Viviani parla di qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, passando in rassegna determinati punti, mi è parsa ad esempio estrema la posizione sulle scuole di scrittura: non mi pare che nessuna scuola di scrittura millanti la capacità di trasformare un allievo in brillante poeta. 

Ci sono aspetti che convincono e altri che convincono meno in questo piccolo pamphlet costruito per gemmazioni di pensieri e aggregazioni, incisi, flash, scariche e aggiustamenti di tiro. Che quello della poesia - e con essa buona parte del mondo - sia un teatrino neanche dei più simpatici lo abbiamo capito. Penso lo abbiano capito anche i giovani o meno giovani che Viviani cita a più riprese e che per un tozzo di pane e di visibilità sono disposti a tutto o quasi. Di fondo però, in tutto questo scritto, prevale un sapore di amarezza personale che fa perdere di vista lo scopo. Già, lo scopo: quale era lo scopo di questo breve scritto? Credo si sia un po' perso di vista, nel testo. Proviamo però a isolare il più utile: ricordarsi della centralità di leggere molto, di non pensare di fermarsi a due o tre poesie lette in rete o in antologie. Tuttavia, anche qui, c'è da dire che le persone con un briciolo di coscienza sanno distinguere le situazioni in cui possono dire di aver letto abbastanza da quelle in cui denunciano delle normali lacune. 

A voler provare a dire la parola definitiva sulla forma storica della poesia si rischia sempre di incappare in qualche trabocchetto e inganno, tanto più se il pensiero è striato di un parziale risentimento per come sono andate le cose. Lo sappiamo bene o male che la poesia non sta tutta nei siparietti festivalieri o nel narcisismo devastante dei succitati poeti che darebbero tutto per un tozzo di pane di visibilità. Resta quindi il dubbio che il nucleo del problema resti altrove e che questo libretto non abbia saputo indicarci questo altrove. Oppure semplicemente un problema non c'è, e come suggerisce Viviani faremmo bene a leggere, leggere, leggere e basta. Il punto non è credere che la poesia stia traversando un momento di rigoglio e pensare che Viviani sia arrivato per dirci che non è così e rimetterci coi piedi per terra. Il punto semmai è sapere che tutte le storture che Viviani ci ricorda - che esistono e non sono il massimo della vita - non sono che un evento transitorio e alla fine ognuno fa e farà i conti con sé. Ma ecco, proprio sul punto dell'isolamento ci sarebbe qualcosa da osservare in chiusura: non sempre l'isolamento o l'essere appartati è garanzia di buona poesia, di autenticità o altro. Non è garanzia di un bel niente. Anche questa quindi potrebbe rivelarsi un'illusione. Mai come di questi tempi un confronto, anche fuori dalle corride dei social, appare così necessario per tirarci fuori da mucchi di parole che il più delle volte stagnano come paludi autistiche.

mercoledì 13 giugno 2018

Lo spettacolo "Tigre contro Grammofono vs Ophelia Borghesan" alla Libreria Zabarella di Padova Mercoledì 20 giugno

Ophelia Borghesan è una poetessa-tamagotchi, ma la realtà simulata dai suoi testi è in fondo la nostra: ci sorprende nell’atto di preoccuparci per la prova costume, soffrire per una doppia spunta su Whatsapp, guardare "Uomini e Donne" o controllare una notifica in mezzo alle strisce pedonali. Le sue brevi poesie, come istantanee di vita quotidiana, inquadrano anche alcuni dei temi centrali della contemporaneità, senza dare giudizi né soluzioni: l’immigrazione, la guerra, la figura della donna. 
Ophelia Borghesan, il cui archivio poetico è posseduto da Luca Rizzatello, è apparsa già su queste pagine, diverso tempo fa, a più riprese (qui per comodità sono raggruppati tutti i post che la riguardano, e uno di questi prevede la possibilità di scaricare gratuitamente l'ebook Caino e Gretel). Su Instagram potete leggere quasi quotidianamente le sestine alla prima persona plurale di Canile. Ophelia Borghesan approda ora alla Libreria Zabarella di Padova con "Tigre contro Grammofono vs Ophelia Borghesan", un doppio/triplo spettacolo in versi per voce e vocal reader, musica elettronica, emoji, video-grafica e visuals della durata di 30 minuti. Il video che accompagna la lettura riprende l’iconografia del kitsch che si associa alla poesia: tramonti, gabbiani, glicini... e una immancabile esasperazione dell’estetica dei cuccioli.



Spettacolo 
Tigre contro Grammofono VS Ophelia Borghesan
TCGVSOB è un doppio/triplo spettacolo in versi per voce e vocal reader, musica elettronica, emoji, video-grafica e visuals della durata di 30 minuti

TCGVSOB è la poesia come non l’avete mai vista
Progetto di Luca Rizzatello e Angela Grasso
Una produzione Zoopalco
Ingresso libero
Lo spettacolo si svolgerà nel giardino
Durante la serata sarà allestito un buffet a offerta libera

DOVE?
Libreria Zabarella, via Zabarella 80, Padova (PD)

QUANDO?
Mercoledì 20 giugno, alle 21:00

CONTATTI:
libreriazabarella@gmail.com