lunedì 30 giugno 2014

"Karl Marx Show" di Juan Goytisolo

Ripescaggi #35


Nell’anno delle celebrazioni del Don Chisciotte (400 anni), la nuova sigla editoriale Cargo (un piano editoriale nato in seno a l’ancora del mediterraneo) propone la traduzione de La Saga de los Marx, singolare lavoro datato 1993 di colui che può essere considerato come il più cervantiano tra gli scrittori spagnoli contemporanei.

Protagonisti di questo libro sono Marx e i suoi familiari. Il filosofo tedesco, catapultato nel ventesimo secolo, assiste indignato alla strumentalizzazione e al fallimento del suo pensiero, ai mostri del ‘socialismo reale’ e al disastro del ‘Pensiero Unico’ (leggi: monetarismo). Il libro è un ironico e anacronistico attacco alla stupidità della civiltà (‘civiltà’?) della televisione e dello spettacolo. Goytisolo sa come possano convivere con esiti scoppiettanti la documentazione e l’immaginazione, quest’ultima così fervida e in grado di non far rimpiangere troppo un Cervantes.

L’autore appare in veste di scrittore che indaga sulla vita e sul pensiero di Marx. Tutto questo convive col pressing di un editore che esige un libro di successo al più presto, con una soap opera sulla famiglia Marx e talk show popolosi (lo scrittore spagnolo ha dichiarato di aver agito con questo libro in modo contrario a tanti scrittori, mettendo cinema e Tv al servizio della letteratura e dobbiamo riconoscere che ne ha disposto in maniera egregia).
L’esule Goytisolo ha sperimentato con quest’opera, uscita a soli quattro anni dalla caduta del muro di Berlino, l’indifferenza del pubblico spagnolo, quell’indifferenza che può capitare in sorte a opere scomodamente intelligenti, che con grande ironia riescono a raccontare il proprio tempo meglio di voluminosi trattati. Tale situazione è stata forse addolcita dagli apprezzamenti che sono giunti con le traduzioni - più tempestive di quella italiana - pubblicate in Canada, Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Il pubblico italiano non ha che da approfittare di questa traduzione per tuffarsi in un’opera che ha interpretato mirabilmente il clima degli anni in cui è stata scritta.

(Recensione a Karl Marx Show di Juan Goytisolo pubblicata dalla rivista "daemon" nel 2005. Il libro di Goytisolo pubblicato da Cargo è ancora disponibile.)

venerdì 27 giugno 2014

"Con fatica dire fame". Quindici anni della poesia di Giovanni Turra, stilista dell'usuale

Uscire a venticinque anni con un libro d'esordio che si può ricordare tra i migliori degli anni Novanta è un vantaggio? Non lo so. Non penso nemmeno si possa parlare di vantaggi e svantaggi e davvero non so se la domanda abbia fondamento. Però quando l'esordio riesce bene, si rischia sempre di fare la figura del giovane brillante poeta promettente che poi è presto dimenticato. So però che la poesia di Giovanni Turra (Mogliano Veneto, 1973), dopo quel Planimetrie uscito per Book Editore nel 1998, è approdata in situazioni di lettura e ascolto più diradate, anche se c'è stata la non trascurabile pubblicazione della silloge Condòmini e figure nel Nono quaderno italiano di Marcos y Marcos, nel 2007, con un'importante prefazione di Franco Buffoni. Turra ha poi forse perso il treno non imperdibile della poesia al tempo dei social network, il che non è necessariamente un male per un'arte così lenta e anche ha perso il treno-freccia senza direzione della presenza massiva in rete ai tempi dei "tori da testiera" (come sono stati definiti i commentatori di certi lit-blog). Ecco allora che dopo un inusuale iato di quindici (15) anni, appare per le edizioni La vita felice Con fatica dire fame (pp. 92, euro 13, con un risvolto di Stefano Raimondi), un libro che consiglierei di tener ben presente in tempi di classifiche e carotaggi e prelievi a campione che cercano di sondare e fotografare la poesia degli anni zero (zero come nome che è tutto un programma?). 

L'arco temporale che racchiude questi testi, unito all'evidente meticolosità versificatoria di Giovanni Turra, dà subito l'impressione di un lavoro mai pago e inesauribile (ecco la fatica, sin dal titolo), di un bagno in un bacino lacustre dello stile che s'attesta ad un livello che è metrico e prosodico attentissimo, controllato, adatto a liberare piccole scosse di un novenario, la forza del settenario o l'enigma di un trisillabico. Un testo finito è frutto della religione (o della stanchezza) ricordava Jorges Luis Borges, e con queste poesie verrebbe facile dire che siamo dalla parte della stanchezza, dopo quindici anni di lavorio incessante e limatura. Lavoro di lima, già, bell'espressione. Si pensa sempre al pezzo finito e mai alla polvere di ferro o legno dell'atto del limare, che qui in queste poesie sembra un'acuta presenza. Proverò, nel poco spazio che mi do, a dire perché in fondo questo libro, oggi finito e dato alle stampe, stia quasi più dalla parte della religione, nel senso di recupero di una sacralità del lavoro sulla parola e in fondo un atto di fede pieno nella tradizione poetica di una grande eredità versificatoria e di una lingua come quella italiana, un atto che mi pare a tratti abbia davvero dell'incredibile, e che pure è l'unico criterio discriminante per poter continuare a scrivere di poesia, a parlarne, a riconoscerla (e non perché ci siamo tutti risvegliati nel bosco sacro eliotiano dalla sera al mattino). E anche la critica delle varianti forse non ci interessa più; ci interessa di più la critica della limatura, ma come limatura prodotto di scarto che cade a terra sotto la morsa che trattiene il pezzo di realtà che ogni volta proviamo a salvare. Voglio dire che la tradizione lirica italiana in questo libro di Turra batte anche laddove si avvertono gli strappi, le sincopi, le disparità delle contrazioni dei versi, in un cerchio che quasi prova la sempre difficile impresa di saldare forma-stile-etica in un solo giro di parole, in un camminare rischioso e rasente al muro di un'afasia che sembra persino suggerita dalla ripetizione di "fa-" nel titolo Con fatica dire fame, un titolo che tra l'altro adopera la parola "dire" nel momento in cui ne ammette una quasi disumana fatica.

E la fame allora? In realtà, il riuscito titolo che illumina tutta l'opera appare come un jeu interdit su due parole, "fatica" e "fame" per l'appunto, che rimandano entrambe al "venir meno", alla "mancanza". E diventa così un dito puntato in ogni componimento. Che cosa è mancato improvvisamente in questa vita, in queste vite che Turra raduna nei testi di questi quindici anni? La fatica diventa una condizione perenne e ineliminabile? E qual è la fame di cui si parla? Bruto bisogno fisiologico, fantomatica fame di conoscenza o una fame ben più sconvolgente (di progettualità, direzione, finanche fame di senso) che sta venendo a mancare? Si tratta forse di una fame di catastrofe, nel senso di scioglimento completo dell'intreccio delle vite per capire come sono fatte dentro davvero, quasi una fame di apocalisse rivelatoria che dica cosa sta sotto le numerose superfici descritte in questa poesia. Questo è un libro davvero superficiale, nel senso di un libro che sta sulle superfici delle cose e dei gesti, quasi a volerne preservare un'allegoria continua corrente sottopelle. Il libro, che s'apre con un'epigrafe dal Faust di Goethe ("tanto quel che sai di meglio non puoi dirlo ai tuoi alunni"), quasi a voler ricordare una grande nostalgia per un rapporto maestro-allievo ormai irrimediabilmente perso o impraticabile, pare snodarsi dapprincipio attorno a un immediato, palese omaggio montaliano:

Il pensile orologio da parete,
il metallo brunito della scocca.
Con tatto d’entomologo ne sfili
com’altrettante ali le lancette:
un volo di lancette sul quadrante,
tutta la tua vita in un botto.
E s’accampano di getto,
come usciti dall’armadio,
i tuoi morti tutti e due.
A mezzo busto dentro una cornice,
in un giorno di sole.


Il richiamo a Forse un mattino andando in un'aria di vetro e ai versi "Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto / alberi case colli per l'inganno consueto." sembra più una spia tematica, una conformità di voleri, una primissima intonazione come i suoni curiosi prodotti da un'orchestra che accorda e prova gli strumenti prima di uno spettacolo, che un montalismo vero e proprio. I temi della prima sezione, "Superfici", sembrano stare in tanti titoli che si susseguono: Superfici appunto, l'occhiuta e riuscitissima Bricolage concepita osservando una giovane collega a scuola, Auto nuova, Mani, Il barbiere, Giardino Zen, Cannocchiale. I temi della raccolta, se così vogliamo chiamarli, fanno il loro esordio già da queste prime battute: i luoghi di una giornata, gli spazi abitati, persino una sorta di voyeurismo/scopofilia in realtà rivolti all'eros sparso nel mondo intero, alle superfici, che poi non è tanto lontano dall'essere la ragione "erotica" per cui forse esiste la poesia (sotto certi aspetti lo ricordava bene anche Zanzotto). La seconda parte del libro, "Quando siamo via", è un inno al gioco inanimato che fanno le cose in nostra assenza, gli spazi, tra il limone cimato e l'annuario del telefono. In una poesia, Lo sgombero, assistiamo al massimo di variazione nel minor spazio possibile, da Lo sgombero del titolo allo "sgombro" (senza "e") che chiude la poesia:

Riscuotiti al suono fesso
del citofono. Nell’avello
cieco dell’androne, penetrane
l’eco, l’arcano degli oscuri
allacciamenti. Afferra
il saliscendi della porta,
inverti il giro all’ultima
mandata. Fatti viva.


Altro è dire forte
e chiaro e senza voce
il nostro nome, nella nostra
casa vuota, occhio per occhio
a cominciare dal letto,
buca d’obice, voragine d’alte
mura, nell’attimo
finale dello sgombro.


Si procede, e non poteva essere diversamente, con Condòmini, dove lo spostamento d'accento indietro (o in avanti) ci porta continuamente a un gioco di pieni e vuoti che si rivolge agli spazi abitati e alle persone che li abitano: condòmini e condomìni. Turra, sin dalla silloge del Quaderno di Marcos y Marcos, sembra scegliere la lectio difficilior di una parola sdrucciola. "Il cadavere di Cook" è la sezione del cadavere dell'esploratore-poeta fatto in pezzi, vivisezionato e spartito tra gli isolani che rimangono, e si muove in una serie di testi che indugiano su singoli pezzi o situazioni, in feroci macro fotografiche o impietosi e lunghi piani-sequenza. La poesia che segue, da questa sezione, si intitola Denti:
 
I miei denti:
cresciuti me li diresti
in un pendio
– un dirupo di gladioli –
precipitevole tanto
quanto me
se mi vedi dal basso.


Minuscoli cippi, segnali
di confine, nel breve camposanto
della mia vita. 


Il massimo rigore e concentrazione a mio avviso si ravvisano nella bellissima sezione (sin dal titolo) "Manovre per l'addiaccio", dove l'anacoluto, l'iperbato, quel calco sospeso tra certe costruzioni della lingua latina e certi costrutti di frase anglosassone, come il "quando siamo per dormire", lasciano spazio a uno dei più bei componimenti della raccolta, in corsivo. Qui le alte gru nei quartieri sorti dai disgraziati piani urbanistici del Veneto assomigliano a delle giraffe sperse allo zoo.

La notte,
quando siamo per dormire,
noi si volge il capo ad est,
nel disordine sparso
dei nuovi quartieri.

Un’alberatura fitta di guglie,
alti pinnacoli, antenne
dove girano le gru.

E v’è stupore nel sangue,
ammirazione, quasi ci fosse vicino
il mare.


Credo sia in questo frangente del libro, in questa sezione, che la sonda della poesia di Turra prenda di petto il tempo della memoria, il paesaggio, lo sbattere e sbatacchiare delle imposte dello sguardo sul Veneto (Francesco Maino scriverebbe "veneto", con la minuscola), senza però quel livore inutile che rischia ormai solo di fregare molte altre generazioni a venire. Ed ecco il terremoto del Veneto orientale del 1976, il rapporto col padre, il fare la spesa ("Nessuna cosa nuova nei discount /  potè mai avere inizio") quando "ecco ti scoppia nel cervello / un lampo senza aloni", le leirisiane età d'uomo ("L’io che ero io a sedici anni / io dico: era, è stato. / E vide, crebbe, disse. / E tutto è dentro me, / dov’è uno spazio grande / apposta per il gioco."). Nella sezione conclusiva, quella che si intitola come il libro, compaiono gli animali, alci, animali allo zoo e animali da soma. E se Un tempo unisoni potrebbe ricordare la rilkiana pantera, Animali da soma è un testo che sorprende per l'impennata che prende e per come si conclude, in un finale dove la ricerca delle parole rare ("i ginocchi", la sella denominata "basto") non potrà essere scioccamente scambiata per ricerca di inutili preziosismi lessicali:

Parlano alemanno
un uomo in età e una giovane
donna, come dolendosi
liricamente
di qualcosa. Avrebbe potuto
essere questo il tono
e la posa, l’afflato
dei sodali amici di Gesù
ai piedi della croce.

Parlano i due
come da una grata.
Alternano velari
e gutturali
negli orecchi a un cavallo.

Ha la bocca sconciata dal morso
madido. Gli zoccoli son fessi
e mezzo aperti. Non nitrisce,
raglia. Gli si rompono i ginocchi
per la fatica del basto.


Mutatis mutandis, Bach oggi suonerebbe come i Sonic Youth? Chi lo sa. Forse ci proverebbe, abbracciando con amore tutta una tradizione di poesia che ci parlava di respiro, piede metrico, sguardo e che oggi prova ancora a carpirne la centralità, a metterla in opera, anche se al posto dello sguardo s'avvicendano sguardi distratti e muti, al posto del piede metrico ci sono piedi dall'aspetto sinistro "ingombranti e comatosi" e al posto del respiro, in questa epoca, sembra rimasta soltanto una "rauca ruggine del fiato". Turra ha sicuramente letto a lungo Philip Larkin, the master of the ordinary secondo la celebre definizione di Derek Walcott. A me però tornava in mente Nelo Risi che nel primo testo del suo Di certe cose del 1970 scriveva "Se occorre arte perché siano vere / le parole rare / forse più ne occorre / per essere stilisti dell'usuale". 

mercoledì 25 giugno 2014

Una strana rivista: "Gomorra" tra il 1998 e il 2007, a cura di Massimo Ilardi

Ripescaggi #34

I volumi a carattere antologico hanno spesso il merito di riportare l'attenzione sull'operato costante e puntuale di una data rivista o di un gruppo di riviste, siano esse di letteratura, arte, architettura o filosofia. Allo stesso tempo compiono la meritoria opera di rendere fruibili determinati articoli o contenuti difficilmente reperibili, fornendo al lettore le coordinate utili per l'approfondimento. Da ultimo tematizzano, e tematizzando cercano di portare fuori dalla (spesso ristretta o comunque specialistica) cerchia degli addetti ai lavori le discussioni che alla rivista hanno dato vita o che dalla rivista sono partite verso altri fronti di dibattito.

Per certi versi sovrapponibile a questi ragionamenti, ma anche leggermente discostato (di qui la ragione del titolo del libro in questione) è il caso della rivista Gomorra, della quale ci viene proposta una significativa selezione di articoli in questa recente pubblicazione di Meltemi a cura del docente di sociologia urbana Massimo Ilardi, una rivista gravitante in ambito architettonico, ma in realtà per costituzione e statuto di nascita già immersa nell'interdisciplinarietà. Nel gruppo che la fondò, ormai dieci anni fa, trovarono spazio architetti, architetti urbanisti, antropologi, critici d'arte e sociologi. Persino psicanalisti come Lacan non furono trascurati nei loro pensieri. Un insieme aperto e sfocato di specialisti che negli anni ha imparato il prezzo di un intelligente rapportarsi con l'interdisciplinarietà (spesso sbandierata come una virtù innata, in realtà una difficile conquista) e con la parzialità di ogni contributo teorico di fronte all'emergere prepotente e attualissimo della questione metropolitana all'interno di un profondo ripensamento del concetto di territorio.
 
Gli articoli qui antologizzati, prelevati dalla propria sede originale, acquistano il carattere di articoli che stanno a rappresentare lo spirito e il passo della rivista, il suo evolvere e collocarsi dentro un dibattito. Certo è che poi, per chiunque, diverrebbe molto interessante andare ad approfondire i singoli temi trattati dai vari numeri della rivista. Si potrebbe quindi procedere a leggere il numero dedicato al Gra, il Grande Raccordo Anulare di Roma, assunto a membrana dove i conflitti socio-economici della capitale trovano un filtro sulla cui tenuta nel tempo è lecito iniziare a interrogarsi. Hanno un certo fascino le discussioni ospitate in quest'antologia. Così come l'immagine di copertina di Botto & Bruno, presente anche nel primo numero di Gomorra, che ci riporta un po' con la mente (e con il corpo) a Walter Benjamin, alla sua incisività duratura e alle sue anticipazioni nella lettura degli spazi del contemporaneo. In fin dei conti, anche Gomorra, assieme a tante altre pubblicazioni, è debitrice a questo grande del Novecento.

(Recensione apparsa sulla rivista "daemon", versione online, nell'anno 2008. Qui si può trovare un estratto del libro.)

lunedì 23 giugno 2014

Lettere da Westerbork di Etty Hillesum

Complici forse le edizioni integrali del Diario e delle Lettere pubblicate da Adelphi tra il 2012 e il 2013, assistiamo alla comparsa di una costellazione di volumi meno corposi dedicati a Etty Hillesum. Sono principalmente lettere, e nel caso delle due rapide segnalazioni che voglio fare sono entrambi libri che ci riportano a Westerbork, il campo di transito nell'Olanda nord-orientale. Un primo volume si trova nel catalogo di Via del Vento edizioni di Pistoia, la casa editrice di Fabrizio Zollo che qui cura anche una densa postfazione, all'interno della bellissima collana di testi rari denominata "Ocra gialla", con il titolo Una piccola voce (pp. 36, euro 4, Traduzione di Francesca Degani e Ilona Merx). L'altro titolo compare nell'altrettanto bella collana di libri brevi "Etcetera" di Castelvecchi con il titolo Due lettere da Westerbork (pp. 70, euro 7,50, prefazione di Marcella Filippi, traduzione di Stefano Musilli).

Westerbork, dunque. Prima di Auschwitz. Un campo di transito dove transitarono circa 107.000 ebrei. Tra questi anche l'allenatore di calcio ungherese Árpád Weisz (lo scopritore di Giuseppe Meazza, recita Wikipedia), Anne Frank e Edith Stein. Il campo dei treni che partivano ogni martedì. Il fazzoletto di terra dove furono radunati dal 1939 i rifugiati che provenivano principalmente dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall'Austria e dalla Germania. Queste lettere raccolgono ciò che Etty Hillesum vedeva, a volte rischiando e spingendosi in zone proibite del campo, proprio per incontrare i volti. Entrambi i volumi propongono la lettera del 24 agosto 1943, scritta un paio di settimane prima del suo treno per Auschwitz. Il volume di Castelvecchi ne comprende anche una del dicembre 1942. Etty Hillesum racconta i volti, i colori delle divise, i pianti dei bambini, l'attesa, i treni, i viali del campo, i saluti di chi parte, la "contabilità" della morte che a fronte di una richiesta di 1000 ebrei ne fa partire 1020, "per sicurezza", nell'eventualità, non certo remota, che qualcuno morisse durante il viaggio. Entrambe le lettere erano comparse già durante il periodo della resistenza olandese, nel tardo 1943. Westerbork è il campo dove Etty Hillesum andò volontaria e dove scrisse quasi tutte le sue lettere che rappresentano, come noto, un momento di strappo rispetto alla comune percezione della Shoah.

Westerbork Memorial
"Vago un po' smarrita per altre baracche, incrociando scene che mi si stagliano davanti in numerosi dettagli cristallini e che al contempo sono come visioni evanescenti e ancestrali. Vedo un vecchio moribondo che viene portato via mentre recita lo Shemà per se stesso. Recitare lo Shemà vuol dire pregare per qualcuno che è sul punto di morire. Si tratta essenzialmente di invocare senza sosta il nome di Dio, e l'ideale è quando chi sta per morire è ancora in grado di partecipare alla preghiera. Vedo un vecchio moribondo che viene portato via in barella verso il treno mentre recita lo Shemà per se stesso... Vedo un padre che benedice la moglie e il figlio prima di partire e che si fa benedire a sua volta da un vecchio rabbino con la barba bianca come la neve e il profilo fiammeggiante di un profeta. Vedo.. Oh be', proprio non mi riesce di descriverlo..." (lettera del 24 agosto 1943, traduzione di Stefano Musilli).

venerdì 20 giugno 2014

Tradurre in italiano Arno Schmidt, Paul Celan, Søren Kierkegaard e altri. Intervista a Dario Borso

Librobreve intervista #41


Prosegue la serie di interviste con i traduttori. La fotografia accanto è un ritratto di Arno Schmidt (1914 – 1979), scrittore solo recentemente riproposto dall'editoria italiana. Abbandonato dai più grandi, che avevano pubblicato qualcosa tanti anni fa, come ad esempio l'einaudiano Alessandro o Della verità, oggi troverete le sue opere tra i nomi di editori attenti come Mimesis, Zandonai e Lavieri. Abbiamo provato a capire cos'è successo con Dario Borso, suo principale traghettatore. Borso, figura "a cavallo" (nel senso anche di figura galoppante e fiera) tra filosofia e letteratura, è autore di numerose traduzioni e curatele. Tra i vari nomi si ricordi soltanto Paul Celan, Søren Kierkegaard, Rainer Maria Rilke, Friedrich Hölderlin.


LB: Arno Schmidt. Che cos'è successo? Voglio dire: perché se ne erano tutti dimenticati e, poi, come siete riusciti, piano piano, in un lavoro corale nel quale però lei ha un ruolo fondamentale, a rimetterlo in circolo? Quali le tappe fondamentali di questo riavvicinamento, se così si può chiamare?
R: Penso che c’entri l’amore. Nel senso che senza amore sarebbe impossibile imbarcarsi in imprese simili. E l’amore si attacca, come una malattia. A me l’ha trasmessa Domenico Pinto otto anni fa, dialogando sul lit-blog Nazione Indiana. Chi gliel’abbia attaccata a Pinto, non saprei. So che dopo un contraddittorio tentativo della Einaudi negli anni Sessanta, di Schmidt in Italia non si fece più parola.

LB: A un lettore che non ha mai letto Arno Schmidt quale percorso suggerirebbe? C'è a suo avviso un punto di partenza ideale per un lettore? Se c'è qual è e perché?
R: Come per Joyce, penso che l’itinerario ideale sia dal primo all’ultimo libro. Innanzitutto perché la sua tecnica, ovvero la sua lingua, si è evoluta nel senso della complessità, e secondariamente perché l’opera sua intera è un registro di cos’è accaduto di storicamente fondamentale in Germania e in Europa dalla seconda guerra mondiale in poi. Recentemente John E. Woods, il traduttore americano di Thomas Mann e di Schmidt (lo lesse per la prima volta in seminario a Tubinga, e gettò alle ortiche l’abito talare), in occasione della sua monumentale traduzione di Zettel’s Traum (il romanzo più lungo al mondo) ha affermato un mese fa che nei testi ironici del primo c’è una media di tre sottotesti, in quelli del secondo di sei. Non so come faccia a dirlo, ma se lo dice lui…


LB: Quello che ho apprezzato subito nelle sue curatele, viste assieme nel loro divenire, è la capacità di muoversi bene tra filosofia, narrativa e anche poesia (penso a Poesie sparse pubblicate in vita di Paul Celan uscito qualche anno fa da Nottetempo, con uno scritto famoso di Andrea Zanzotto su Celan). Lo so che è probabilmente difficile parlarne per lei che la vive in prima persona, tuttavia questa caratteristica secondo me non comune, o se non altro non praticata molto a livello di pubblicazioni, cosa significa per lei, in lei?
R: In effetti sono in prestito nella letteratura. Il guaio è che sono in prestito anche altrove. Seriamente, per parecchio ho praticato filosofi che si sporgevano sul poetico (Diderot e Kierkegaard in primis), finché ho cominciato a fare l’inverso, a praticare poeti che si sporgevano sul filosofico (Celan e Schmidt in primis). Le traduzioni cui sono più affezionato, anche perché provviste di commentari apprezzati e utilizzati poi in varie sedi, sono: Kierkegaard, La ripetizione (Rizzoli), Celan, Oscurato (Einaudi), Schmidt, Paesaggio lacustre con Pocahontas (Zandonai).

LB: Mi permetto un salto a Søren Aabye Kierkegaard al quale sta dedicandosi da lungo tempo. Da poco Morcelliana ha pubblicato un breve libro intitolato La nostra epoca. Quali sono state le motivazioni di questa nuova pubblicazione? Perché ce la consiglia?
R: È un testo sorprendente, da un paesotto com’era la Copenaghen di metà Ottocento Kierkegaard intuì sviluppi della società che si stanno compiendo adesso. Provare a leggere per credere.


Chandra Livia Candiani
LB: Chiudo con una domanda che compie un ulteriore salto. Un amico, Marco Scarpa, mi ha mostrato un "foglietto" di poesia dietro la cui realizzazione c'è il suo apporto, se non ricordo male collegato a un premio. L'iniziativa mi è parsa subito notevole. Volevo chiederle se è ancora viva e se comunque può dare qualche cenno sui suoi prossimi lavori. Grazie.
R: È il Premio Baghetta, che nei suoi sette anni di vita ha laureato parecchi poeti promettenti. Dopo un po’ risbucano fuori, come recentemente Chandra Candiani nella bianca Einaudi. Scarpa mi pare promettente. In questi giorni è uscito il Foglietto n. 2 Baghetta, pieghevole di 32 pp. gratuito: una traduzione a quattro mani, mie e di Pinto, del pamphlet di Schmidt Ateo?: Altroché!. Il terzo Foglietto in cantiere (la frequenza è all'incirca semestrale) sarà una raccolta di brevi inni a Shiva dell’XI secolo.
Quanto ai miei lavori: l’aspetto più bello è farli, il più brutto trovarseli fatti e non accettati dall’editoria. Comunque, dopo due anni in panchina, I migranti di Schmidt è approdato a Quodlibet, con commentario in prima mondiale finanziato dalla Arno Schmidt Stiftung. Già in giro per vari corridoi sono gli scritti socio-politici di Elvio Fachinelli a mia cura. Quest’estate rifinirò la curatela del diario di guerra e prigionia di un granatiere della prima guerra mondiale, da me scoperto. Infine può sembrare strano, ma nessuno vuole Celan. Sarà la crisi…

giovedì 19 giugno 2014

da "Le poverazze" di Marino Moretti

Una poesia da #39

Qualche giorno fa ho visitato la casa di Marino Moretti a Cesenatico con alcuni amici che scrivono, in occasione di una lettura. Durante la visita, guidati da Manuela Ricci, da anni alla guida della Casa fondazione intitolata allo scrittore, ragionavamo su come Moretti fosse oramai uscito dal "canone", compreso quello scolastico. Se non fosse per i versi sulla pioggia del famoso mercoledì a Cesena, davvero non si ricorderebbe più nessuno di lui. Il fatto che sia uscito un Meridiano e che per decenni del Novecento sia stato autore di punta della Mondadori non significa davvero nulla. Anzi. Talvolta i Meridiani sono - loro malgrado ovviamente - delle pietre tombali sulla memoria e sulla fruizione di un autore, soprattutto se rappresentano il solo libro che di un dato autore è dato disporre in commercio. Sono molti gli scrittori che stanno uscendo da una sorta di canone. Corrado Govoni è un altro, e lo ricordava anche Francesco Targhetta non molto tempo fa. Si parlava persino dell'uscita del Carducci, dato che potrebbe mettere in allarme qualcuno. Magari tra non molto non si studierà D'Annunzio. Sono cose che danno da pensare, anche perché, per converso, non pare che questo allegerimento del canone faccia spazio a nuovi nomi. "Canone" è una brutta parola, perché rimanda a quel principio di auctoritas e ipse dixit che non fa sempre bene alla scrittura e alla lettura. Tuttavia, anche se mi sta antipatica, capisco che talvolta è necessario richiamarla. Io comprendo le ragioni per cui - per fortuna - Giacomo Leopardi farà molta più fatica a uscire da una sorta di canone, e queste riguardano le vette (abissi?) di pensiero e forma raggiunte dallo scrittore recanatese. E posso anche capire che non in ogni scrittore è facilmente ravvisabile quell'intramontabilità che giustamente si accorda a Leopardi, a Dante o, per ragioni linguistiche, a Pietro Bembo. Tuttavia credo che chi scrive in primis debba farsi carico di leggere e dire perché certi autori debbano resistere dentro una sorta di canone. Ad esempio, parlando di Carducci, non possiamo smarrire del tutto quello che l'orecchio vive nella lettura e nell'ascolto della poesia carducciana. A dimenticarlo del tutto non facciamo necessariamente questo grande affare. E se proprio non troviamo più temi forti e magnetici in Carducci, troviamoci almeno quell'imprescinbilità fonica e metrica che va preservata. Poi, dal salvataggio di questa metrica, forse un giorno passeranno altre forme di recupero e salvataggio. La memoria di un poeta non può essere legata solo ai temi che ha trattato, alle formulette che si usano per parlarne. Deve per forza passare per i reticoli sonori che questo poeta ha saputo creare, attraverso le perforazioni e le percussioni foniche che ha impresso. In sostanza, quello che vorrei dire senza ambagi, è che oggi può esistere una nuova forma di canone che, dimentico dell'accademia ma non della scuola, può provare a emergere dal basso, dalla semplice lettura e rimagliatura di una rete di letture. Può provare, e non è detto che ci riesca o ci riesca sempre. Ma c'è questa eventualità. Anche gli sconvolgimenti dell'editoria non è detto che siano tutto un male, in questo panorama. E non è detto che il recupero di Moretti, come quello di Comisso o quello (forse un po' meno necessario perché mai del tutto uscito da un canone) di Palazzeschi debba per forza transitare soltanto per una rilettura omosessuale della loro opera. Non è tempo perso chiedersi cosa significhi essere gay o, peggio ancora, come si diventi gay? Non è forse più urgente interrogarsi su cosa siano siano le sessualità e su come si vivano e su come si vivessero un tempo e su come si vivranno domani?


Complice l'attesa di questa visita, ero andato a leggermi Le poverazze, la raccolta del 1973 che con altri libri pubblicati tra la fine degli anni Sessanta e il primo lustro dei Settanta segnava un ritorno alla poesia per Moretti, dopo un silenzio davvero lungo e forse unico tra i poeti italiani del Novecento. Una rapida scorsa alle date delle uscite dei suoi libri di poesia metterà infatti in risalto una pausa di pubblicazioni davvero straordinaria e una ripresa di scrittura poetica in vecchiaia che appare davvero fervida e febbrile. Affrontando questo "terzo tempo" o "tempo supplementare" della scrittura morettiana, viene la voglia di incrociare questi testi con un dato importante, rilevabile in una lettera indirizzata ad Antonio Baldini nel 1950, in cui il poeta di Cesenatico scrive: "La verità è che io non ero un poeta, ma un narratore". E considerazioni divise tra poesia e prosa non mancano proprio ne Le poverazze. La "poverazza" del titolo è una di quelle parole del linguaggio ittico che in Italia ha molte varianti. Curiosa un'occhiata al dizionario Treccani: "poveràccia (o peveràccia) s. f. [der. di pevere «pepe» raccostato paretimologicamente a povero] (pl. -ce). – Nome region. (diffuso, con parecchie varianti: poverazza, peverazza, povarazza, pevarazza, pavarazza, porrazza, porazza, ecc., nel Veneto, nelle Marche e negli Abruzzi) di varî molluschi lamellibranchi della famiglia veneridi". Il termine è davvero ricorrente nelle poesie, soprattutto in quelle del "Terzo quaderno" e "Quarto quaderno", le ultime e a mio avviso più belle sezioni di questa raccolta. I toni epigrammatici e parnassiani della sua ultima stazione poetica sono menzionati anche nel risvolto del volume che vedete illustrato dalla copertina qui sopra, dove un poeta come Dario Bellezza ricorda che "la testimonianza della morte è veramente violenta, e Moretti vi approda con tutta una sua serenità, una grazia di stile ch'egli vorrebbe, ed è, anche tolstoiana".



DOVE, DOVE

                                                                      18 luglio 1971

«Oggi è il giorno che sai, di compleanno.
È come se noi due fossimo nudi
senza peso di scarpe e di vestito.
Uomini non s'è più,
e non più l'uomo vestito o svestito
o ignudo fra gli ignudi.
Non sono io, non sei tu,
siamo e non siamo con o senza udito,
con ire o con virtù,
in attesa d'un tale che alzi un dito,
con sesso o senza sesso,
ermafroditi di marmo o di gesso...
Non son io, non sei tu,
né mortale-immortale,
e neppur più fratelli, né tribù.»
«Siamo, se ho ben capito...»
«Siamo tutti al Giudizio Universale.»

lunedì 16 giugno 2014

"La commedia di Charleroi" di Pierre Drieu La Rochelle

"Leggere una Grande Guerra" #4

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Era già uscito per lo stesso editore, Fazi, e poi scomparso. Ora ritorna disponibile La commedia di Charleroi di Pierre Drieu La Rochelle (pp. 228, euro 15, traduzione di Arnaldo Colasanti), il libro che racconta la nuova guerra come guerra delle "posture della vergogna". Sono sei racconti che mantengono tuttora un valore altissimo per avvicinarsi (perché solo di avvicinamento possiamo parlare oggi) agli anni della Prima guerra mondiale. Il poeta, saggista e romanziere partecipò al conflitto sin da subito, in Belgio. Nel dopoguerra, come noto, aderì al nazismo e oggi lo ricordiamo tra quegli intellettuali della "tentazione fascista" radunati anche da Tarmo Kunnas in un suo libro importante sulla temperie culturale che inizia a formarsi a partire dalla fine degli anni Venti e che si consolida lungo tutta la lunga crisi degli anni Trenta. Il libro sulla Grande Guerra di Drieu è del 1934. Un libro del dopo, quindi, come i tanti che ogni guerra lascia sul campo di battaglia. Charleroi, cittadina della Vallonia oggi resa nota per uno dei primi scali di una nota compagnia low cost, è il campo di battaglia dove prova a far ritorno la madre del racconto che dà il titolo all'intero libro. Questo è uno di quei libri che servono. Serve ad esempio per correggere il tiro a certi understatement degli storici su quei lunghi cinque anni di guerra e serve anche per arrivare alla guerra che seguirà, alla fine della quale Drieu La Rochelle si tolse la vita, nel 1945. Serve anche per una lettura ravvicinata del suo libro forse più bello, Fuoco fatuo, anche se questo è un altro discorso.

venerdì 13 giugno 2014

Presentazione di Traviso, l'8 luglio al Giardino Salvatore Pincherle di Bologna


sarà ospite della rassegna Estate al Pincherle Social Garden

Programma:

| martedì 24 giugno ore 21:00 |
conversazione con VERONICA TINNIRELLO
interventi sonori di MEMORIE DAL SOTTOSUONO

| martedì 8 luglio ore 21:00 |
conversazione con ALBERTO CELLOTTO
interventi sonori di LIPS AGAINST THE GLASS

| martedì 22 luglio ore 21:00 |
conversazione con DANIELE BELLOMI
interventi sonori di MASSIMO CROCE

altro su: http://meantimebox.wordpress.com/


Traviso è un libro edito dalle edizioni Prufrock spa.

mercoledì 11 giugno 2014

I racconti di Guido Cavani

Di Guido Cavani ho già avuto modo di scrivere, ripubblicando una vecchia recensione al suo romanzo più noto, Zebio Còtal, uscito per Feltrinelli nel 1961 per interessamento congiunto di Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini, il quale ne firmò la prefazione (ora lo trovate nel catalogo di Isbn Edizioni). Cavani era prima di tutto poeta, e ciò si avverte segnatamente in questi Racconti, in particolar modo in quello in appendice, Il tramonto, l'unico che non troverete in un precedente volume intitolato Il fiume e altri racconti edito a Padova da Bino Rebellato nel 1970 (tre anni prima, a Modena, per l'editrice Cooptip erano usciti anche i Racconti in penombra). Per Cavani, la scrittura di racconti inizia molto prima, già negli anni Trenta e puntella un po' tutta la sua storia di scrittore. Troverete in questi racconti, che diversamente dallo Zebio non subirono il massiccio editing bassaniano, tutta la geografia, tutta una digestione verista e ermetica che arriva da lontano. Mi riferisco a certe scelte lessicali, alla descrizione dei climi e dell'atmosfera (intesa come atmosfera in senso meteorologico), e dell'azione degli uomini in quest'atmosfera. Quest'ultimi scivolano nel paesaggio e nella sua violenza, una violenza racchiusa a forza dentro una cornice che pare richiamare quella di Cesare Pavese, senza che nello scrittore modenese diventi però così marcata quella riflessione sul mito e sulla violenza che riconduce a Furio Jesi e ad altri studiosi.

La casa editrice Incontri di Sassuolo, nella meritoria ripubblicazione di questi racconti, ha scelto la mietitura di Bruegel per la copertina di questo libro che esce nella collana denominata "Kufferle", a cura di Nicola Caleffi e Guglielmo Leoni, con l'introduzione di Fabio Marri. Pure tra i non estimatori, come fu ad esempio Montale, Cavani seppe instillare il dubbio di un'arte che "sa legare i suoi personaggi al flusso delle acque, al colore del cielo, al ribollimento delle spume e al volo delle anatre selvatiche... Non dimenticheremo mai la pagina in cui il fischio di un merlo diventa più importante di una situazione che si avvia alla catastrofe." Non mancano in questi racconti le cose e le persone che popolavano le pagine del romanzo più noto, ma è come se il passo fosse controllato da un ritmo dimentico di quello della prosa, più vicino a una prosa poetica talvolta. Non a caso il già citato Il tramonto nacque come poemetto di endecasillabi: "È un sole rosso, rotondo, che mentre si coagula ha i battiti di un cuore umano. L'uomo ha sul volto nero la fatica del cammino, l'abbandono, che è la cosa più vera in lui. Entra cautamente sulla stradicciola, ma si capisce bene che non è fatto per entrare in nessuna casa. Le soglie sono ancora buie; tutta la gente è ancora nel campo perché è il tempo della mietitura. Sembra quasi che la notte sia calata in anticipo."

Leggendo questi brevi Racconti (pp. 104, € 12) non si possono dimenticare le parole di Pasolini sulla sua lingua, anche perché credo sia proprio la lingua di Cavani che oggi ci interessa maggiormente, forse più ancora delle sue storie, dei suoi personaggi e delle sue già citate atmosfere. La sua è una lingua che esce e scavalca la stagione ermetica. Scrive lo scrittore di Casarsa, tra le righe dove lo avvicina al regista giapponese Kenji Mizoguchi, che "[...] La sua lingua ha nel tempo stesso qualcosa di scialbamente provinciale e qualcosa di prodigiosamente extra-temporale.  È un fatto, direi, per definizione italiano: se in Italia la società non abbraccia una rilevante zona media, e i dislivelli sono continui e drammatici. In provincia di Modena un uomo colto è con un piede nella melma piccolo-borghese e con l’altro nei regni della morte. È così divaricato che pare vivere il Cavani. Pare quasi impossibile poterlo un giorno percepire fisicamente: e, in realtà, egli vive in un’altra epoca storica – la quale, d’altronde, ci è ancora profondamente contemporanea. L’Italia è il paese dei «petits maîtres» ritardatari. Cavani è uno di questi. Solo che l’assolutezza che si usa attribuire ai piccoli maestri, ai minori in genere – l’assolutezza artigianale, o infantile, o angelica – non è poi reperibile, in Cavani, perché egli, benché ai margini – e ai confini dei regni della morte emiliana – è ancora uno di noi: la sua assolutezza non è del tipo canonico: è fatta anche di debolezza, di errore, di approssimazione, di miseria, di coscienza estetica, di aprioristica poeticità." Aggiungerei oggi che è fatta di quella temperatura che sta solitamente nella regione intermedia tra il sole e l'ombra, ed è spesso una regione penosa. E di penombra.

lunedì 9 giugno 2014

Le cartine delle metropolitane del mondo (con un ricordo per Massimo Vignelli e uno di Pound)

Desiderata #3


Ritorno a scrivere di libri che mi piacerebbe vedere proposti anche in italiano, qui all'interno di "Desiderata". La spinta è forse la morte di Massimo Vignelli, avvenuta lo scorso 27 maggio. Il designer e "architetto dell'informazione" italiano, da decenni attivo a New York, aveva progettato per quella città, nel 1972, il flusso di spaghetti della metropolitana creando manipoli di fan (ora la sua mappa è oggetto di culto nella sezione design del MOMA) ma anche schiere di insoddisfatti, increduli nel trovare l'area di Central Park colorata di grigio e non di verde e le vie fluviali in beige e non in azzurro, spaesati poi dalla scarsa corrispondenza topografica tra città emersa e città sotterranea. A questi Vignelli diede sempre una risposta ferma, e cioè che se sei sotto terra soltanto agli spaghetti ti devi interessare, per andare da A e B. Stop. Oggi sappiamo che le mappe delle metropolitane sono marchi, texture, loghi da dare in licenza ai produttori di borse, cover di cellulari, foulard, tazze vendute come souvenir: un facile modo di portare in giro una finta attitudine di globle-trotter.

L'Italia, che forse non brilla per una concezione organica dei sistemi di trasporto (anche se avremmo potuto imparare qualcosa in più dagli antichi romani che avevamo in casa e così vicini), ha prestato i propri designer e architetti dell'informazione per rendere la chiarezza delle mappe delle metropolitane. Un altro grande come Bob Noorda, olandese ma sostanzialmente trapiantato in Italia e naturalizzato italiano (il logo Coop, la F inclinata di 45° di Feltrinelli, la stilizzazione della rosa camuna per la regione Lombardia sono alcune delle sue più note creazioni) prestò la sua opera per un'altra grande opera di architettura dell'informazione, come la metro di San Paolo del Brasile, dopo che il mondo intero aveva apprezzato la chiarezza e la leggibilità del lavoro fatto per quella milanese.

Mi sono sempre piaciuti gli spaghetti veri, ma anche mangiare con gli occhi gli spaghetti delle metropolitane dove sono stato. E non mi dispiace osservare gli spaghetti delle metropolitane dove non sono stato, anche quelle di città più piccole. Per questo, qualche tempo fa, comprai questo libro di Mark Ovenden intitolato Transit Maps of the World (tuttora nel catalogo Penguin), un volume che affronta storicamente il manifestarsi del problema comunicativo della mappa. Mi piacciono in genere le mappe, anche se credo che vivere sia un difficile lavoro di distanziamento dalla centralità che le mappe provano ad occupare. L'autore di questo bel libro, che non credo starebbe male in una versione italiana, si è occupato anche di mappe di ferrovie e dello sviluppo della metro parigina. Sfogliandolo ho pensato che esista un percorso, già battuto (penso anche ai lavori di Remo Ceserani) e tuttavia sempre nuovo e da compiere sulla letteratura, il viaggio e il trasporto, fisico e emotivo. Gli esempi potrebbero essere numerosi. Ma pensate soltanto a quando, nel 1912, Ezra Pound scrisse quella poesia di quattordici parole intitolata In a Station of the Metro

The apparition of these faces in the crowd; 
Petals on a wet, black bough.

[L'apparizione di queste facce nella folla; / petali su un grosso ramo bagnato, nero.]

Pound raccontò anche di come alcune apparizioni di belle facce lo avessero colpito durante quella giornata parigina e durante il transito per la stazione della metro, ma anche di come non sapesse estrarre da questo apparire qualcosa (un significato, si sarebbe detto in altri tempi, non ora forse, per fortuna). Da questa incapacità, forse, nacque questa poesia che giustappone due versi, uno luminoso deittico-descrittivo e l'altro scuro metaforico-floreale-arboricolo (con la presenza di "bough" che rimanda più a un ramo d'albero...) a sigillare tutto, anzi no, a liberare tutto: potere delle metropolitane e dei loro rami-spaghetti.

mercoledì 4 giugno 2014

Le voci di Claudio Magris

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #21

Circa vent'anni fa usciva per il Melangolo nella collana "Nugae" un librettino minuscolo di Claudio Magris intitolato Le voci (pp. 48, euro 5,16 a convertire il costo originario di 10.000 lire, il volumetto pare ancora misteriosamente acquistabile). L'opera è il testo di un monologo teatrale che più volte ho intercettato ma mai affrontato. Ora, spinto da quei trascinamenti di cui si compone il mosaico sempre incompleto delle nostre letture, si è presentata l'occasione e ho finalmente letto questo libriccino importante e appartato. Il testo, come detto, appartiene al genere dei monologhi. Teniamolo presente per le considerazioni che verranno dopo. Chi dice io in questo libro è un uomo che parla della propria ossessione per le voci di donne depositate nelle segreterie telefoniche. Sono donne che ascolta in quanto voce, in quel medium sonoro che è tanto corpo quanto anima e, probabilmente, né corpo né anima. Il protagonista ricerca le voci delle donne che ama, conosce gli orari nei quali telefonare per non rischiare di trovare la donna a casa, ha un metodo pressoché infallibile, si applica con un'abnegazione non priva di tratti di comicità.

Una delle cose che più mi ha impressionato nel leggere questo librino è anche l'orizzonte temporale della sua comparsa: metà anni Novanta. Ci si apprestava all'avvento di Internet e di tutte le protesi comunicative a questa annesse. Stava partendo tutto lì, in quegli anni. E se è vero che il telefono e la segreteria telefonica protagonista di queste pagine esistevano già da tempo e che gli attuali mezzi possono essere visti da certi sociologi dei media come delle evoluzioni di quei mezzi, è altrettanto vero che quasi sbalordisce ora ripercorrere all'indietro certe intuizioni che in quest'opera monologante aleggiano pienamente formate.

Il protagonista, pazzo e folle, delicato mitomane e inoffensivo stalker avanti lettera, sembra prefigurare quel processo ineliminabile che l'uomo - compreso l'uomo cieco che tornerà a vedere grazie all'occhio bionico e che le nostre generazioni forse non faranno in tempo a conoscere - dovrà attraversare per rivedere il proprio mondo stravolto dalla tecnologia. Sarà probabilmente un processo doloroso, con degli avamposti occupati da poche persone in coraggiosa avanscoperta. Mi rendo conto che sto innescando un discorso troppo rizomatico, quello del rapporto tra uomo e tecnologia, che ha radici in tanta letteratura filosofica, sociologica e antropologica, e che non si può certo limitare a qualche astratto discorso distratto. Però è una riflessione che si può provare a limitare e far partire dallo spazio ristretto di un brevissimo monologo, come ha fatto Claudio Magris, proprio perché qui è massima l'apertura e massima è la solitudine del protagonista, quindi massima è l'apertura e l'esposizione a ogni soluzione e ad ogni caduta, compresa a una caduta salvifica. In un stato vitale elusivo quale il nostro, dove tutto imita ed è a imitazione di tutto (simulacro, immagine, ombra e spettro sgusciante) qual è lo spazio rimasto per l'unicità e per il vero incontro con l'altro? E qual è lo spazio di quella voce che prova a trasformarsi in scrittura nei mezzi di comunicazione digitale ma che, alla fine, imita soltanto la voce, rimanendo scrittura franta, frammentaria e filiforme? Magris, attraverso la voce del proprio protagonista, sembra improvvisamente suggerire una chiave nella delicatezza. Allo stesso tempo - provo ad aggiungere facendo un'ipotesi - pare non sia mai risolta del tutto anche la chiave (opposta?) della violenza, la quale inevitabilmente permea nella conoscenza e nell'avvicinamento dell'altro, in quello che rimane, a tutti gli effetti, il mistero e il segreto della conoscenza di un'altra persona. Naturalmente non mi riferisco certo a una violenza dai connotati giornalistici, fisica o verbale che sia, bensì a quella violenza che è esercizio inalienabile e tuttavia alienante della forza, una violenza che sembra essere data e connaturata una volta per tutte nel nostro corpo nello spazio, e anche nella nostra voce, anche quando è voce di quest'epoca ventriloquiante, voce oracolare della Pizia, della strega di Endor, dei mistici o dei posseduti.

domenica 1 giugno 2014

da "L'osso, l'anima" di Bartolo Cattafi

Una poesia da #38

 


Bartolo Cattafi (1922 - 1979) era e ancora rimane per me un poeta assai poco approfondito. Credo sia necessario ammettere serenamente le proprie lacune anche quando si prova a seguire "abbastanza" di quello che avviene in poesia. Poi è vero che potrebbero emergere sempre tanti interrogativi, anche inquietanti, quali ad esempio: abbiamo letto bene Dante? Siamo sicuri che non sia il caso di rileggere Giuseppe Parini o Giuseppe Giochino Belli prima di avventurarsi con tanti contemporanei? E cosa abbiamo riletto, visto che la rilettura non è soltanto un "leggere di nuovo" ma un ripercorrere delle pagine mentre nel frattempo in noi è passata altra vita, altri luoghi, altri ritmi? Quanti poeti abbiamo riletto? Insomma, per farla breve, e senza tante paranoie, volevo semplicemente dire che io Bartolo Cattafi non l'avevo mai letto in un libro intero prima d'ora, solo qualche testo riportato in antologia. Poi si parla, ci si fida di quel che legge e consiglia un'altra persona e allora si inizia ad avvicinare un poeta. Partendo da un libro, da un titolo. E partendo anche da quel che si trova, visto che con Cattafi, editorialmente parlando, non siamo messi proprio bene. Leggendo L'osso, l'anima, di cui quest'anno ricorrono i cinquant'anni della pubblicazione avvenuta nel 1964, ho trovato dei testi che non mi capacito di come siano scomparsi dalla circolazione editoriale normale, compreso l'Oscar di Mondadori del 2001 curato da Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni. Libro che per l'oggi avrebbe dell'incredibile (oltre 300 pagine l'edizione mondadoriana de Lo Specchio da me letta, costava 1800 lire), L'osso, l'anima è un volume dove troverete come minimo una dozzina di testi memorabili. In un suo contributo su Cattafi, ora ripreso anche in La fisica del senso di Andrea Cortellessa, Luigi Baldacci, grande sostenitore cattafiano e critico di cui personalmente sento una feroce mancanza (penso ad esempio alle sue Trasferte e a Novecento passato remoto, letture e aperture di sguardi mai dimenticati di tanti anni fa), scrisse che "l'uomo si muove in uno spazio geometrico, scandito [...]: sente se stesso come qualcosa di prismatico, di cristallino, o tale è l'aria che gli vibra intorno; ama gli oggetti meccanici, dai profili perentori e taglienti; il suo occhio è tutto aderente alle superfici metalliche e lucide; non c'è più posto per i campi lunghi". La poesia che più mi ha colpito in questo libro è quella che ho scelto e riporto qui sotto e, per stavolta, è davvero una soltanto.




A NOI DUE



Come di colpo s'è ristretto il mondo

che sapore salato di metallo
stretto in bocca
e guardi il sole
a che punto del giro
da che parte
vorrai averlo alle spalle
tenterai
di tenermelo negli occhi
dove la prima botta
spazio alle spalle per saltare indietro
veniamo al dunque
a noi due
a bordo non è rimasto più nessuno
qui comincia e finisce il nostro mondo:
i nostri corpi
i noti sentimenti
le armi in dotazione
primo sangue secondo terzo quarto
i mille modi di mettere assieme
carne metallo anima unghie denti.